Imprinting
di Marco Pedretti
Avevamo dormito sul tavolato a pochi centimetri di distanza, quasi
addossati gli uni agli altri, ma senza percepire il calore reciproco dei
nostri corpi.
Quando mi sbarazzai delle coperte e del materasso di crine sotto cui mi
ero riparato la sera prima, Roberto (detto il BB), che era il più vicino
al mio fianco, mi guardò con una espressione di sorpresa e disgusto di
uno che è ancora profondamente addormentato e non vuole alzarsi.
Tutti gli altri, pigri sotto le loro coperte insufficienti, erano
raggomitolati come gatti o in posizione fetale per cercare di trattenere
il calore del corpo.
Aprii la porta del bivacco; sembrava quella della cella frigorifera di
una macelleria, tutta ricoperta di lamiera dentro ed in legno nella
parte esterna, ed uscii per sgranchirmi i muscoli intorpiditi e
contratti dal freddo.
L’aria pungente d’alta quota mi avvolse e mi svegliò immediatamente.
Subito cercai il sole per potermi scaldare dal freddo accumulato durante
la notte.
La parete ripida della montagna copriva ancora il rifugio dal sole, ma
cento metri verso il ghiacciaio i raggi solari lambivano già i sassi
della morena ed io pensai che era là che dovevo andare se volevo
scaldarmi un po’.
Mi misi a correre e questo mi fece bene perché, arrivato al sole, ero
già sufficientemente caldo e non sentivo più bisogno di starmene lì
immobile come una lucertola a crogiolarmi.
Mi sedetti con la schiena rivolta al sole e guardando i paesi in fondo
alla valle cercai qualche segno di vita, ma eravamo troppo in alto e
troppo distanti per scorgere il benché minimo movimento.
Immersi nella nebbiolina della valle si distinguevano a mala pena, tra
il verde cupo dei boschi e quello più brillante dei prati, le case e le
strade asfaltate.
Salendo con lo sguardo l’aria diventava più limpida i contorni più
nitidi fino al punto di distinguere di fronte a me la cima della
Presanella e l’immenso ghiacciaio dell’Adamello, mentre più a destra
l’Ortles ed il Cevedale altrettanto grandi, ma ben più distanti che
quasi si confondevano con il gruppo del Bernina e degli altri gruppi
svizzeri dai nomi impronunciabili.
Il rifugio ed il bivacco invernale, usato in estate come dependance e
dove avevamo passato la notte, era lì in primo piano come in una
cartolina con tutto l’arco alpino centrale sullo sfondo.
Sentii che dal rifugio qualcuno mi stava chiamando per avvertirmi che la
colazione era già pronta.
Salendo la scala di legno del rifugio, che portava alla sala da pranzo,
fui investito dal profumo del caffelatte e questo mi ricordò
improvvisamente l’infanzia, la colonia estiva a Calalzo di Cadore e il
caffè d’orzo, “che non fa male ai bambini”, come diceva spesso mia
madre.
Pensai al caffè d’orzo, l’avevo sempre detestato e avrei preferito il
caffè nero oppure una tazza di tè, ma in quella occasione andava
benissimo anche l’orzo, l’importante era fare una colazione abbondante,
nutriente e soprattutto calda.
Finita la colazione ritornammo alla dependance per preparare gli zaini,
ma il mio era quasi fatto e così uscii subito da quella ghiacciaia.
Quando si è in gruppo e la compagnia è numerosa aspettare i comodi di
una decina di persone può risultare snervante e si diventa impazienti,
specialmente se si è abituati, come sono, ad essere pronto in pochi
minuti.
Di solito mi è sufficiente una semplice rinfrescata al viso, anche
perché l’aria frizzante d'alta montagna mi fa sentire comunque pulito;
poi avevo già sperimentato che i cattivi odori in montagna non si
propagano così velocemente come in pianura.
La barba, durante le escursioni in montagna non si taglia mai, in fondo
anche le grandi guide se la lasciano crescere quando affrontano le loro
imprese, poi, la barba, aiuta a misurare il tempo e la fatica e al
ritorno in pianura per un po' sarà il ricordo tangibile della bella
avventura.
Deodoranti, detergenti e spazzole per capelli sono solo spazio e peso
superfluo nello zaino comunque sempre troppo piccolo.
Gli unici ad essere curati sono i denti ed anche se l’acqua in certe
occasioni è così fredda che ti gela le gengive, lavarseli dà una
sensazione di piacevole freschezza che contagia tutto il corpo.
Infine raramente sento la necessità di andare in bagno, perché il
cambiamento di ambiente e di pressione rende il mio intestino
particolarmente pigro.
A questi riti i miei compagni non riuscivano a rinunciare e moltiplicata
questa prassi per una decina di persone faceva perdere al gruppo più di
un ora tutte le mattine.
Alla fine della routine, quando finalmente si partiva, era come durante
una processione solenne.
Vanni, che portava tutte le carte e conosceva i sentieri in testa, gli
altri dietro di lui in ordine sparso oppure a gruppetti a secondo della
voglia di scambiare due chiacchiere;
io, invece, sempre in coda e da
solo in quei sentieri poco faticosi.
Spesso trovavo gli altri che, con la scusa di aspettarmi, si erano
fermati a riposare o a guardare il paesaggio.
C’era sempre qualcuno che mi rimproverava di starmene troppo isolato,
che avrei potuto perdermi o farmi male e che noi eravamo un gruppo e
quindi non era giusto e corretto il mio comportamento solitario.
Io non mi preoccupavo molto di quelle critiche, a me piaceva così.
Quando si è in compagnia e si chiacchiera è difficile fare attenzione a
tanti piccoli particolari, come riuscire a distinguere il profumo dei
fiori o dei prati che sale dal fondovalle da quello della resina degli
alberi dei boschi che ti investe aprendoti i polmoni come un balsamo
oppure come riuscire a scorgere il fruscio di uno scoiattolo o di una
pernice che per pochi secondi fa capolino da una roccia o da dietro un
albero.
Quando si è in compagnia è quasi impossibile vedere gli animali perché
in gruppo si è troppo rumorosi e gli animali selvatici, troppo timidi e
riservati, sfuggono al clamore delle folle.
La cosa più importante e che mi è sempre piaciuto è quel senso di
libertà che si riesce a provare solo quando si è da soli nella natura
incontaminata, sia essa montagna o mare, dentro una fitta foresta o
lungo le rive di un torrente.
Guardavo spesso l’orizzonte cercando di dare un nome a quelle vette
frastagliate e pensavo, volgendo lo sguardo verso Sud, alla pianura e al
mare che forse si sarebbe potuto vedere se non ci fosse stata la foschia
estiva.
Mi ha sempre affascinato, fin da piccolo, l’idea di poter dominare un
orizzonte così vasto.
Pensavo a quel proverbio indiano che dice “Solo chi sale sulla montagna
può guardare oltre”, che bella metafora della vita.
Spesso giunto in cima alla montagna dove il cielo è color cobalto, dove
il freddo è pungente ed il sole accecante, mi sarebbe venuta voglia di
volare, e come nella canzone di Lucio Battisti “... le discese ardite
e le risalite, su nel cielo aperto e poi giù il deserto, con un grande
salto...” mi sarebbe venuta voglia di buttarmi giù nelle valli
coperte di boschi per poi risalire sfruttando le correnti termiche
ascensionali, come fanno i rapaci, e tornarmene in cima tra i ghiacci e
le rocce solo apparentemente brulle ed invece così ricche di animali e
fiori alle volte piccolissimi da essere invisibili ai più distratti.
Provavo tutte quelle sensazioni e avevo quei pensieri mentre con il
gruppo percorrevamo quel sentiero assolato, riparato dai venti freddi
del Nord e che faceva pensare ad un enorme e lunghissimo balcone esposto
a levante.
Quasi quattro ore diceva la guida, ma a me personalmente non importava
del tempo, in montagna il tempo non ha lo stesso valore che altrove,
tutto è lento e “naturale” e lo spazio ed il tempo sono un concetto
veramente relativo.
Solo Rinaldo e Maurizio avevano abbandonato il gruppo, forse perché non
se la sentivano di affrontare un'altra dura giornata di cammino.
In fondo è giusto così, in montagna ognuno fa ciò che si sente di fare e
non bisogna forzare le persone a superare i propri limiti (fisici e
mentali), altrimenti la natura potrebbe essere implacabile.
All’attacco delle ferrate, dove cominciavano le prime difficoltà, io che
ero sempre stato ultimo, passavo in testa, sia per saggiare gli appigli,
sia per dare fiducia ai più giovani come Giorgio e Gianni, che erano
alla loro prima esperienza.
Vanni e Massimo sempre in coppia stavano in coda, per poter aprire delle
piccole varianti sulla nuda roccia al sentiero segnato o per permettere
a Vanni di fotografarci dal basso, con i nostri profili stagliati contro
il cielo.
Spesso con la scusa di saggiare il sentiero partivo in avanti e di nuovo
da solo nella montagna mi interrogavo sulle origini di questa mia
passione.
E le cerco ancora, ogni volta che vado in montagna, sia d’estate che
d’inverno.
Spesso, quando mi sono trovato in difficoltà, ho pensato:
“Ma chi me lo ha fatto fare di cacciarmi in questa situazione?”.
E quante volte, faticando su di un ghiaione al sole o controvento in una
tormenta di neve in agosto, mi sono chiesto:
“Dov’è il bello di tutta questa tribolazione?”.
Eppure ho continuato e continuo tuttora ad andare in montagna.
Da quelle prime esperienze giovanili sono cambiato e pur non togliendo
nulla alla bellezza ed alla soddisfazione che si prova quando si
raggiunge la vetta di una montagna con la grandiosità del panorama che
si gode dalla cima, ora sono alla ricerca dei sentieri poco conosciuti e
delle montagne poco frequentate e abbandonate dal turismo di massa.
Mentre prima pensavo sempre ed esclusivamente alla cima da conquistare o
alla grande impresa da compiere, ora mi sono accorto che si può girare
attorno ad una montagna e scoprirne sempre angoli diversi e ogni
stagione ha il suo lato affascinante,
l’inverno con il silenzio e la
neve, la tarda primavera con le colorate fioriture, l’estate con le
giornate interminabili e l’autunno con i colori caldi e i profumi
intensi.
Ciò che conta è lo stato d’animo che si ha in quel preciso momento e
che, se ben predisposto, ci fa apprezzare anche quello che ai più appare
banale e immutato.
Cosicché, ancora oggi, tutto continua a sorprendermi, soprattutto quando
sono al contatto con la natura e spero che continui così, perché non
sopporterei non poter gioire anche del più piccolo e insignificante
dettaglio.
P.S.
Il primo vero grande trekking lo abbiamo fatto nel lontano ‘73 nel
gruppo delle Dolomiti del Brenta, neo-socio da ‘72 del Cai Ferrara,
assieme a tutti i miei amici citati, è stato l’imprinting, quell'esperienza che ti segna e condiziona la scelta della meta delle tue
vacanze o dei tuoi week-end per gli anni a venire.
Molti dei miei compagni di quella avventura, pian piano hanno
abbandonato la montagna a causa degli impegni familiari, del lavoro,
oppure perché i loro gusti, nel tempo, sono cambiati.
Io ancora resisto ed anche se spesso sono solo nelle mie escursioni, non
ho paura di “perdermi” mentre gironzolo per montagne sconosciute, anzi
continuo a preferire questo approccio “singolare” rispetto a quello
collettivo e troppo rumoroso delle gite organizzate.
So che è contrario alle regole dell’escursionismo moderno, ma è più
forte di me.
Marco Pedretti
Ferrara, estate 2007
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