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Un’arrampicata attraverso l’Oceano

di Gabriele Villa

Il bar delle Placche Zebrate il martedì ha turno di riposo e così si va direttamente al parcheggio più avanti, ci si prepara in fretta e … via. Oggi abbiamo pure le corde nuove, fresco acquisto di Marco (Manfrini) e Francesco (Cinti), testimonianza (anche) di una loro acquisita autonomia d’arrampicata. 
Arriviamo sotto la parete, nella parte destra, quella “nuova”, scoperta in anni più recenti: qui le vie arrivano fino a 600 metri di lunghezza e le difficoltà si spingono al 6c/7a (l’equivalente dell’ottavo grado nella “vecchia” scala UIAA).
Ma oramai l’abbiamo capito che quello che conta è il grado “obbligatorio”, cioè quello che sei “costretto a fare”, pur attaccandoti ai chiodi e quello, nella nostra via, si ferma al 5c (il buon vecchio sesto grado). 
Una scritta evidente sulla parete indica la via: Oceano, un bel nome per un’arrampicata e ce ne chiediamo l’origine.
Brevi preparativi e l’avventura comincia.
Dopo pochi metri uno strapiombino sembra voler negare l’accesso alla placca superiore: 6b+, dice la relazione, per cui non ci penso un momento ad afferrare il chiodo e a tirarmi su; poi però si torna subito sui piedi, in aderenza e con assai poco per le mani. Mentre recupero le corde comunico la mia soddisfazione a Marco: “O le difficoltà della via sono sovrastimate, oppure oggi sono in giornata di vena”. Segue un tiro di 5b erboso, ma l’arrampicata non ne risulta disturbata e ancora, dopo, un tiro in placca valutato 6b sul quale la mia piacevole sensazione si ripete: le scarpette sembrano aderire perfettamente e il corpo si muove con precisione, trasmettendomi un senso di benessere fisico. La sosta è sotto ad uno strapiombo di cui sembra facile intuire la sequenza per il suo superamento, ma è dopo che viene il bello.
Lo spit è spostato a destra e obbliga ad una traversata in aderenza, complicata da un’ampia spaccata per le gambe; dopo un paio di movimenti veramente delicati e al limite dell’aderenza ancora non arrivo allo spit ed è allora che mi ricordo del mio “rampino”: un tondino d’acciaio, opportunamente sagomato, che va ad arpionare l’occhiello dello spit, togliendomi da ogni patema.
Accidenti: anni fa ero più etico, ora sono un po’ regredito, meno etico ma più atletico, segno che l’arrampicata sportiva ha fatto un altro adepto (o una nuova vittima?).
Segue una placca che pare passata con il ferro da stiro, tanto è liscia, ma con un’accattivante fila di spit che la percorre.
La relazione dice 7a/A0 e la distanza fra i chiodi mi dice che sono tutti “afferrabili”, basta applicare la particolare tecnica conosciuta sotto il nome di “placca, amore mio”.
Si tiene la mano sinistra allo spit con il pollice infilato nel moschettone, con punta rivolta verso il basso, il piede sinistro subito sotto, quello destro più in alto possibile sopra al chiodo, la guancia a sfiorare la roccia, il corpo spalmato e il volto girato verso l’alto a guardare il braccio destro teso che va ad agganciare il moschettone nello spit successivo, poi ci si tira su e si ripete l’operazione.

E’ una specie di abbraccio, quasi amoroso, che però consente di sfruttare al massimo le braccia in allungamento, imparato e messo a punto sulla placca di A0 della via "2 Agosto", da me ripetuta oramai 21 volte.
Seguono due tiretti brevi, ma un po’ a zig zag, su difficoltà di 5a, poi ancora un 5b friabile che porta sotto ad un’altra placca sempre data di 7a/A0. 
Anche qui una fila regolare di spit consente un altro “abbraccio” e allontana sempre più il pensiero della discesa in corda doppia, messo in preventivo alla partenza fra le eventualità più probabili ed ora in via di rapida evaporazione. 
Segue un tiro di 5c, poi uno appena più facile di 5b e poi ancora uno di 5c e infine un ultimo di 6a che ci porterà sul ripiano ghiaioso della parte alta della via.
L’ultimo tiro di 6a lo facciamo entrambi senza attaccarci ai chiodi, sfruttando due scanalature parallele che consentono un’arrampicata in pressione al limite dell’aderenza.
Veramente entusiasmante e di soddisfazione!
Ora ci stiamo rendendo conto dell’origine del nome della via: abbiamo percorso dodici tiri di corda, quattrocento metri di arrampicata, attraversando un autentico “oceano” di placche, reso ancora più suggestivo dall’assenza di anima viva in questo angolo di parete. 

Con la corda a tracolla e parte in mano, attraversiamo in salita il grande terrazzone ghiaioso, infine ci abbassiamo in un largo canale terroso e con fitta vegetazione, fino a portarci ai piedi dell’ultimo salto di parete. 

Qui la roccia è verticale, un po’ friabile e dall’aspetto dolomitico, mentre la difficoltà, tanto per cambiare, è data ancora di 5c. Il tiro si rivela inaspettatamente lungo, 57 metri e, negli ultimi, il peso delle due corde all’imbragatura si fa sentire tutto. 

Segue un tiro di 5b erboso dove è pure un po’ problematico individuare gli spit.
Un altro tiro presenta uno strapiombo pronunciato, non segnalato dalla relazione, e a seguire una bella placca di 6a che ci consegna all’ultima filata di corda, un bonario 4c che ci fa capire come l’arrampicata volga al termine.
Una facile traversata orizzontale, che per prudenza percorriamo legati, ci porta alla cengia superiore dove escono le classiche via Teresa, Luna 85 e Super Claudia.

Da qui ci sarà solo da camminare per sentiero e rientrare all’auto per fare ritorno a casa.
Sedici tiri di corda per questa via bella ed entusiasmante, cinque ore e mezza di viaggio fra placche compatte, traversando un oceano di calcare grigio e ruvido.
Una forte stretta di mano suggella un rapporto di amicizia e di cordata che si va sempre più consolidando, nonostante la grande differenza di età.
Durante la discesa Marco mi racconta di avere letto di recente un libro in cui un forte alpinista racconta dei suoi primi anni di attività, nei quali, giovane ed esuberante, arrampicava facendo da capocordata ad un compagno assai più vecchio, ma ricco di esperienza. 
Scherzando mi dice di avere la sensazione di vivere una situazione diametralmente opposta a quella: lui giovane, ancora poco esperto ma pieno di passione, condotto in cordata da un alpinista vecchio e molto più esperto.
Ma non gli presto grande attenzione, anche perché … vecchio?
E’ vero che ho più del doppio dei suoi anni, ma … non starà mica parlando di me per caso?…

 


Gabriele Villa
Ferrara, martedì 16 maggio 2006