Sulla
via dei nidi d’aquila.
di GabrieleVilla
Mi
sveglio di soprassalto, apro gli occhi e vedo luce. Mi siedo sul bordo del
letto.
Sono le cinque e trenta. E’ tardi.
Possibile che non abbia udito la sveglia?
Sento la schiena indurita nella zona lombare e le dita delle mani che
dolgono; ne percepisco il leggero gonfiore.
Finalmente il cervello prende a funzionare e capisco che è già tutto
successo.
Appena ieri.
Posso tornare a stendermi sul letto, intrecciare le mani dietro la nuca e
lasciarmi andare nel ricordo dell’intensa giornata appena trascorsa.
…
la sveglia suona alle tre e quaranta, la partenza in auto alle quattro con
l’amico che ha gli occhi di chi è stato strappato dal sonno,
esattamente come i miei, il viaggio verso San Martino di Castrozza dove
l’altro amico ci aspetta sorridente sul balcone di casa, la fugace
colazione a base di caffè e biscotti, il breve trasferimento in auto a
Malga Ces, da dove comincia la lenta salita a piedi lungo la pista da sci
tante volte discesa durante lo scorso inverno...
Dopo cinque ore dalla sveglia sono come proiettato in un’altra
dimensione.
Mi colpisce la tranquillità del luogo, il tanto verde tutt’intorno e la
parete sud del Colbricòn con il suo porfido, liscio e scuro, illuminato
dal sole del mattino.
Ne ho sentito parlare tanto di questa parete nell’ultimo periodo dagli
amici che vi hanno già aperto alcune vie nuove, riferendone in toni
entusiastici, per la qualità della roccia, la bellezza dell’arrampicata
e dei luoghi circostanti.
Oggi mi potrò rendere conto se il loro entusiasmo sia stato eccessivo,
come ho sentito dire da qualcuno. Sembra impossibile, in effetti, che
questa parete possa reggere il confronto con le vicine Pale di San Martino
e, al pari di quelle, suscitare entusiasmi così pronunciati.
Al culmine della pista, gli amici si fermano, guardano la parete e parlano
fra loro.
“Saliamo quel bel diedro alla sinistra del pilastro, raggiungiamo la
cresta, la seguiamo fin sotto al risalto finale, lo superiamo e siamo in
cima”.
“Ecco fatta la relazione della via”, penso dentro di me.
Alle difficoltà meglio non pensare; il diedro è dritto come un fuso e
non lascia dubbi: ci sarà da “lavorare” e parecchio.
L’unico conforto su cui posso contare è attaccato al mio imbrago: sono
le fide staffe.
Per pietrame e pendii erbosi raggiungiamo la base delle rocce.
Mi colpisce il contrasto fra il verde dell’erba e della vegetazione con
la compattezza delle pareti del diedro che da lì prendono slancio.
Ci prepariamo tra battute e amenità varie, poi, l’avventura ha
inizio.
Il capocordata sale veloce, mette protezioni rade; solo dopo una trentina
di metri, dove il diedro si stringe, batte un chiodo che entra tintinnando
nella fessura di fondo. Ancora venti metri, poi prepara la sosta: i colpi
del martello risuonano nella quiete generale.
Quando tocca a me salire noto quanto sia rugoso il porfido e come
favorisca un’arrampicata sicura, oltre che tecnica.
Riuniti alla sosta scherziamo allegri: abbiamo intuito che sarà una bella
salita.
Il capocordata riparte, il diedro è ampio e va a finire sotto ad un tetto
che lo chiude.
Un chiodo entra facilmente nella roccia e poi su, ancora in spaccata
sempre più larga, fino ad una fessura che aiuta ad arrivare sotto il
tetto.
Un altro chiodo entra tintinnando: servirà a proteggere l’aggiramento
del tetto.
Dopo una foto verso la sosta fatta in “acrobazia”, il capocordata
passa sulla parte sinistra del diedro e sparisce alla nostra vista.
Chiacchieriamo, mentre le corde scorrono nella sicura.
Finalmente il tintinnare dei chiodi comunica che la seconda sosta è in
allestimento.
Quando tocca a me partire so che non è consentito tentennare perché
siamo ai limiti del sesto grado. La spaccata ampia consente di guadagnare
il primo chiodo, ma, poco sopra, occorre abbandonare questa tecnica ed
afferrare la lama sulla parete di destra, arrivo all’altezza del chiodo,
sgancio la corda, apro in spaccata e passo sulla parete di sinistra. Il
diedro riprende subito sopra, ma la fessura di fondo è svasata e poco
profonda: non so esattamente come, ma alla fine riesco a tirarmi fuori
delle peste.
Faccio mentalmente i complimenti al capocordata!
La sosta si avvicina e, incitato dal primo, mi trovo in sicura su di un
ottimo chiodo.
Il terrazzino è una sporgenza grande come il palmo di una mano, ma, dopo
la fatica del tiro appena salito, lo trovo ugualmente confortevole.
Arrivato il terzo e, recuperato il materiale, il capocordata riparte e,
subito, batte un chiodo.
Dopo un metro ne batte un altro e la cosa comincia a preoccuparmi.
In effetti, il diedro è dritto e chiuso da una sporgenza che va aggirata,
ma la parete è liscia e non offre né prese, né appoggi. Sento il
martello che batte deciso sul chiodo, finché non vedo con la coda
dell’occhio un’ombra “volare” verso di me.
“Il chiodo si è sfilato ”,
penso.
Subito dopo sento una botta forte sul braccio sinistro e una pressione sul
palmo della mano destra. D’istinto la stringo e guardo.
Sorprendentemente mi trovo tra le dita la testa del martello del
capocordata: dalla massa battente sporge un pezzo di legno scheggiato,
rimanenza di quello che ne era il manico.
Dopo un primo momento di sconcerto, manico e mazzetta finiscono nello
zaino, il martello del terzo passa al primo e … decidiamo che la via
resterà chiodata.
Del resto, dei sei chiodi piantati finora, ne erano stati tolti soltanto
due.
Con un paio di colpi il capocordata finisce di infiggere il chiodo e
riparte.
Infila un piede nel cordino del chiodo e compie un innalzamento; lo
sentiamo ansimare, anche se senza affanno.
Manca un appoggio che consenta di superare il piccolo sbarramento che
chiude il diedrino. Serve un altro chiodo per superare questo tratto
liscio.
In equilibrio precario, con il piede sinistro dentro il cordino, il
capocordata lo sceglie e lo appoggia delicatamente nella fessura
prescelta.
Un colpo deciso di martello e … subito inizia un tintinnio argentino, il
chiodo ha toccato il fondo della fessura cieca e sta cadendo verso valle: tin
… tin … tin … e poi improvvisamente … silenzio assoluto.
“Preso al volo”.
Lo sentiamo dire al terzo che, ridendo divertito, alza il pugno sinistro
verso l’alto; dalle dita chiuse sporge l’occhiello nero del chiodo ad
U appena caduto.
“Prima il martello rotto ed afferrato d’istinto, poi il chiodo che
cade e viene preso al volo; ma cos’è un film di Silvester Stallone?”
Ce la ridiamo di gusto: sembra di essere in vacanza più che in fase di
apertura di una via nuova e difficile. Meglio così.
Un altro chiodo, di foggia diversa, entra in fessura e il suono non è dei
migliori: meglio non azzardare il passaggio in libera. Compare
la staffa, il piede entra e trova sostegno consentendo l’innalzamento
sufficiente a superare l’occlusione del diedro. La salita riprende
normalmente, le corde scorrono regolari, segno che le difficoltà sono
rientrate nuovamente a livello di quinto grado.
Quando arriva l’ordine di partire, abbandono contento il mio piccolo
predellino di porfido.
Mi attacco direttamente ai cordini passati nei chiodi, infilo a mia volta
il piede nel cordino del secondo chiodo e poi, quando capisco che per il
piede destro non c’è il minimo appoggio, metto una staffa
nell’occhiello del terzo chiodo. Non ho avuto l’accortezza di
prepararla prima ed ora, completamente sbilanciato, mi accorgo di non
riuscire a districarne i cordini.
“Bel imbezìl”, mi dico mentalmente, poi afferro il moschettone
e mi tiro su di forza.
Il passaggio è fatto, ma la staffa non potrà essere utile al terzo.
Riesco a prenderla, a svolgere i cordini ed a riappenderla perché sia
utilizzabile.
Sono soddisfatto e proseguo su difficoltà più contenute.
Dopo avere superato una strozzatura, proprio prima della sosta, arrivo ad
una selletta aerea, affacciandomi sull’altro versante della
montagna.
Stupendo! La vista si perde sui prati di Malga Rolle e, più lontano, di
Passo Valles, mentre, più vicino e sotto di noi, appaiono i due laghetti
di Colbricòn; sembrano due macchie verde scuro, incastonate tra prati ed
abetaie.
Il grande contrasto che mi colpisce è fra l’arrampicata faticosa e
molto tecnica sul porfido compatto ed avaro, e questa immersione in una
natura rigogliosa che non appare lontana ed estranea, ma nella quale ci si
sente avvolti e compresi.
Sappiamo che il tratto chiave della via è superato, ci concediamo una
pausa per un po’ di cioccolata e un paio di sorsi di limonata.
Ora ci attende la ripida cresta che alterna tratti verticali ed
impegnativi ad altri un po’ appoggiati, ma l’arrampicata non è mai
banale, anzi, tutt’altro.
Dopo la sosta successiva, che è sempre un terrazzino sospeso, un vero e
proprio nido d’aquila, superiamo una fessura “americana”.
Si tratta di cinque metri da fare incastrando i pugni e lavorando di
equilibrio.
A dire il vero, io metto una staffa sul rinvio e ne salgo i quattro
gradini come fossero le scale di casa: vabbè, un piccolo peccato veniale
me lo potrò pur concedere?
Appena ne sono fuori mi giro verso il basso per fotografare il compagno
alla sosta e poi mentre supera la fessura.
Proseguiamo
verso l’ultimo risalto, dopo il quale ci attenderà la cima.
I tiri successivi alternano tratti facili a passaggi impegnativi, fessure
verticali da superare con bella arrampicata a traversate delicate, porfido
grigio e ruvido a zolle d’erba ricamate con fiori colorati.
Visti dall’alto i terrazzini illuminati dal sole del pomeriggio, sospesi
sull’ombra del fondo valle sono quelli che richiameranno alla nostra
mente l’immagine dei “nidi d’aquila” che daranno il nome alla
nostra via.
Dall’ennesima sosta, guardo verso la possibile uscita e azzardo un
timido:
“Saliremo quel canale erboso a destra del pilastro?”
La risposta è assai decisa, con una punta decisamente ironica:
“Ma quale canale erboso? Non vedi quella bella fessura al
centro del pilastro?”.
In effetti, avevo visto la bella fessura che incideva il pilastro, ma ne
avevo valutato pure la verticalità.
Non
accenno replica.
Mi sento come un ciclista in gruppo con gente più allenata di lui: testa
bassa, “succhiare” la ruota posteriore di chi sta davanti, stare in
scia, … zitti e pedalare.
Il tiro del pilastro si rivela una vera e propria chicca e l’arrampicata
per superarlo risulta impegnativa, ma piacevole e di grande soddisfazione.
Con un'ultima filata di corda, tra pendii d’erba, fiori vari e stelle
alpine, arriviamo in vetta al Colbricòn.
Seguono le classiche strette di
mano, le fotografie, le battute allegre, mentre raccogliamo il materiale e
sistemiamo gli zaini per la discesa.
Ci attende un’ora e mezza di escursione per ritornare a Malga Ces e, a
differenza di tanti altri rientri che sono solo una fatica non evitabile,
questa, invece, diventa parte integrante dell’ascensione e la completa.
Ora credo di avere compreso l’entusiasmo ripetutamente manifestato dagli
amici per questa zona: non era né eccessivo, né forzato.
Non dico nulla e non lo do nemmeno a vedere, ma sono loro grato di avermi
invitato a condividere questa bellissima avventura.
Sento che il Colbricòn ha conquistato anche me.

Gabriele Villa
Ferrara, 24 luglio 2003
Lagorài – Monte Colbricòn – Pilastro Sud e Cresta Sud-Est
Via dei nidi d’aquila
Sviluppo: 470 metri
Difficoltà: VI e A1
Impegno: TD sostenuto
Domenica 20 luglio 2003
Cordata: Michele Scuccimarra, Gabriele Villa, Francesco Pompoli
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