Si sale nel bosco
di Roberto Avanzini
Si sale nel bosco,
ridendo e parlando della settimana, del lavoro, dei cani.
Il freddo si fa sentire, il terreno è coperto da un sottile strato di
neve sotto il quale risuona il rumore quasi metallico della terra
gelata. Gli alberi sono spogli e i rametti si spezzano con un suono
secco quando li calpestiamo.
Sopra, tra i tronchi dei larici, vediamo le rocce illuminate dal sole.
Bianco, giallo, grigio, rosso, blu in alto.
Il sentiero diventa una traccia, ripida e stretta, facciamo attenzione a
non scivolare ma non ci sono rischi particolari se non quelli di una
spiacevole ruzzolata nel bosco ripido.
Un ultimo vallone e gli alberi si diradano, ormai siamo arrivati alla
parete e deponiamo zaini e sacche delle corde sul ripiano che abbiamo
ricavato. I cani si sistemano secondo i loro gusti, di solito uno sul
piano, l’altro su un pietrone “a rimirar la valle”. Oggi fa
relativamente caldo con il passare delle ore la cosà migliorerà di
sicuro ma ancora una volta mi chiedo cosa mi porta qui.
Sono fuori stagione, l’inverno si fanno cascate, si scia, si ciaspola,
si sta a tirare prese di plastica in qualche palazzetto, al limite, se a
uno piace, si fa boulder, ma non si fa arrampicata in falesia e
soprattutto non si fa qui, a 700 metri di altezza. Se uno proprio non
può rinunciare va ad Arco, tra le palme e l’Ora del Garda, tra i lascivi
richiami della cioccolata calda al caffè in piazza e del gossip sul bel
mondo internazionale arrampicatorio.
Meglio non perdersi in troppe riflessioni, che fa freschetto.
Ci organizziamo come al solito, uno arrampica, uno lo assicura e il
terzo…. spiccona!
Ebbene si, è questo il trucco dell’arrampicata invernale in falesia, il
piccone!
Oppure a scelta, la sega, il martello, il fili di ferro, il piè di
porco, la leva o la spazzola di ferro.
Il tassellatore no, è elettrico a batteria, quindi richiede scarso
intervento umano e non va bene.
Il terzo, che al momento sono io, inizia a spicconare sul sentiero di
accesso; la terra è gelata ma tolto il primo strato va meglio; pian il
sentiero si allarga, si spiana, si definisce.
Poi viene la curva, la
maledetta curva.
Lì non basta spicconare, serve un intervento
“architettonico”, però i sassi quadrangolari più vicini li abbiamo già
usati tutti. Porcaccia, su per il pendio fino trovarne uno… stop!
E’ arrivato il mio turno per arrampicare, lascio il piccone vicino alla
pietra e scendo.
Levare gli scarponi e mettere le scarpette è sempre un trauma,
soprattutto oggi che c’è la neve.
Mi viene un colpo... ho lascito le scarpe comode a casa!
Ho quelle strette, da mettere senza calzini ….. non se ne parla nemmeno
… Lucianoooo, mi presti le tue?
Benissimo, Miura VS 42, sono comode anche con i calzettoni e soprattutto
hanno la suola curva, così anche se sono grandi sostengono bene il
piede. Sono io il solito cretino fissato con le Anazasi… devo smettere
di fare il tecnicista da falesia e prendermi un bel 42 pianta larga,
altro che storie!
Bene, partiamo!
Un bel movimento per alzarsi in un diedrino svaso, moschettono, quattro
passi su per una placchetta sfruttando un bordo liscio, secondo
moschettone, un passo … torno indietro e mi siedo appeso alla corda.
Infilo tutte e due le mani in bocca e soffio come un drago.
Ho perso completamente la sensibilità delle dita e quasi rimpiango i
colpi di piccone che sento provenire da sotto. Quelli che dicono “In
inverno soffri i primi metri, poi le mani si abituano “ secondo me non
sono mai andati ad arrampicare dopo ottobre e prima di marzo.
Per la verità devo dire che soffro molto il freddo e quindi non faccio
testo, però a me le mani si scaldano quando arriva un po’ di sole sulla
parete, non prima!
Bene, la circolazione è tornata, riparto e mi pare pure che faccia un
po’ di caldo.
Arrivo ad un tettino che si aggira sulla sinistra per una fessura….
Bagnata!
Va beh, avanti, gran tirone in dulfer, salto su un bel appoggio, alzo le
mani, sguisssssch, ma cosa ho preso?!
Mi sporgo un po’ e mi trovo davanti un bella stalagmite di ghiaccio,
ovviamente corredata sopra dalla sua stalattite! Mi vien da ridere.
Altro che epica lotta nei diedri ghiacciati di severe pareti, qui ci si
può rilassare e pensare che se volevo far cascate c’è Maurizio che mi
aspetta in Sorgazza.
In ogni caso l’inconveniente rende più divertente la salita, anche
perché mi costa un bel contorcimento per arrivare all’appiglio pulito,
poi delle belle prese mi conducono alla catena di calata.
È ora di tornare al piccone, anche se non ne ho troppa voglia, ho
spicconato e sbadilato troppo quando ero archeologo, adesso lo uso in
piccole dosi.
Intanto Luciano ha realizzato un bellissimo parapetto con dei rami
tagliati nel bosco e un vecchio fil di ferro recuperato dal ghiaione, si
vede che ha passione per le cose fatte bene.
Prima di sistemare un sasso
lo rigira da tutte le parti, fino quando non è piantato perfetto. Non si
stufa, non ha fretta, non fa gesti inutili; penso che, se avesse scelto
quella strada, sarebbe stato un ottimo artigiano.
Enri invece ha bisogno di muoversi, sempre e comunque.
Lui è la nostra
ruspa, spiana e buca senza tregua.
Anche ad arrampicare non è mai sazio; se potesse andrebbe tutti i
giorni, quando è in parete farebbe sempre un’altra via, un altro tiro,
si vede che il movimento lo riempie di gioia.
E io che faccio?
Sicuramente sono quello che arrampica peggio dei tre, però oggi ho
portato il fornello a gas.
Si, il fornello, non il fornelletto.
Il fornello con la griglia annessa,
con la bomboletta grande, con le 4 gambe di alluminio, con la mezza
padella per raccogliere il grasso che cola dalla grigliata.
Il fornello piccolo ce l’ha mio padre, che ad ottant’anni passati ha
acquisito il diritto di star comodo quando va sui nostri prati in
montagna e vuole farsi il caffè.
Io invece giro con un affare che sembra una parabola satellitare, lo
fisso all’esterno dello zaino con una cinghia elastica perché
all’interno non ci starebbe nemmeno.
Tiro fuori una bottiglia, Merlot,
l’ho presa al supermercato basandomi sul prezzo, fascia media. Chiedermi
di comprare il vino è come chiedere ad un beduino di costruire un igloo,
non ho mai bevuto un goccio in vita mia.
Però il brulé lo so fare,
attendo che il vino bolla poi avvicino l’accendino alla pentola, niente
da fare, non brucia!
I miei soci mi dicono che è lo stesso, anzi è meglio
se brucia poco.
Ma io che non bevo il brulé mica lo faccio per il gusto del vino, lo
faccio per veder la fiamma che si alza dalla pentola! Ci riprovo, gran
fiammata e puzza di peli bruciati, mi ha fregato anche stavolta…..
Si ride e io tiro fuori la termos con il the, la mia bevanda. Lo offro
ma non lo vuole nessuno, puntano al brulé e poi lo sanno che lo faccio
con il the solubile e ne metto anche poco; a me piace così, solo a me
però.
Enri è risalito a prendere il sasso che avevo individuato, pian piano lo
cala fino al posto giusto.
L’importante è non sbagliare, che già abbiamo tutti problemi di schiena,
di ricollocarlo in posizione alzandolo non se ne parla nemmeno. Il brulé
cala e i gradi si alzano, tocca a un 6c, dieci metri in tutto.
I 6c corti sono i più fetenti, pochi movimenti al limite, ottime
possibilità di non farcela e nemmeno la soddisfazione di dire "Ho
provato un 7a" . Questo poi a vederlo sembra una partenza di 7a + con
sopra un 6b.
Ovviamente corda da sopra, per fortuna.
I primi quattro movimenti
sono micidiali, quattro allunghi a delle prese nette con i piedi su
niente; si perché adesso si usa il termine “con i piedi spalmati”, ma in
realtà sappiamo tutti che spalmati vuol dire “su niente” oppure, a
seconda di quanto il chiodo è lontano “su una bella m….. di niente!”.
Arrivo al quarto movimento con l’avambraccio che grida già vendetta.
Almeno i 6c lunghi ti fanno salire un po’ prima di farti scoppiare.
Per fortuna sopra va meglio ma mi appendo svariate volte prima di
arrivare alla catena.
Brontolo, ma in realtà è una via molto bella e non mi servono scuse per
ammettere la sconfitta.
Lo so bene che il 6c con corda da sopra mi viene
solo riposando quattro o cinque volte.
In ogni caso se si vuol migliorare, o non peggiorare, bisogna far
fatica, quindi mi impegno a muovermi bene.
I cani intanto si sono spostati per vedere come procedono i lavori.
Sembrano quei pensionati che si fermano davanti ai cantieri stradali e
guardano curiosi i muratori. Giuro che quando farà più caldo porterò
anche il mio gatto.
Mi piacerebbe vederlo, il persianone tutto peloso, che si aggira per le
pietre annusando qualsiasi cosa!
Sono sicuro che dopo un po’ si acciambellerebbe sullo zaino al sole,
magari guardando con aria di schifata sufficienza i cani e pensando “Ma
con che animali di bassa lega mi tocca girare oggi!”. Salvo poi perdere
il suo nobile sussiego e schizzare a palla di cannone su per la parete
appena uno degli animali di bassa lega decidesse di avvicinarsi!
Oggi si sta veramente bene, c’è il sole e la roccia si scalda, l’ultima
volta, una settimana fa, a metà mattina era iniziato a nevicare. Eppure
anche abbiamo continuato.
Una volta forse l’avrei fatto anche per il gusto di dire "Ti ricordi
quella volta che mentre eravamo in falesia ha iniziato nevicare?" così,
per fare il duro con qualche novellino dell’arrampicata.
Adesso invece si continua perché ci piacciono così tanto quelle cinque
ore che facciamo all’aperto che non vogliamo perderne nemmeno un minuto.
E poi non si racconta a nessuno che si è preso la neve, perché ci si
sente anche un po’ deficienti.
Vuol dire che non sempre con l’età si peggiora, a volte si migliora e
questa è già una piccola consolazione.
A proposito, ormai è ora di scendere, si rifanno i bagagli, si lega il
fornello allo zaino, si mette la corda nella sacca e tutte le volte si
dice “Che nera, dovrei lavarla!” sapendo che tanto non lo si farà.
In fondo anche le corde devono adattarsi all’ambiente; ci sono le corde
da indoor, lucidi levrieri scattanti e reattivi, le corde da falesia
alla moda, che devono avere quell’aria da “usato ma non troppo”, ovvero
come diceva Oscar Wilde “Un vero gentiluomo impiega un’ ora per far si
che il nodo della cravatta sembri fatto in fretta e con trascuratezza”,
le corde da alpinismo, con un’aria severa, da falchetti di monte, la
corde da ghiaccio, con il pelo ruvido, da cani da slitta. Infine ci sono
le corde come le nostre, da fango. Sembrano dei cani da pastore, un po’
burbere, un po’ sporche, hanno una vita corta ma non ti tradiscono mai e
quando le devi buttare ti dispiace non solo per i soldi da spendere.
Le mani sono piene di graffi, d’inverno la pelle è rigida e basta poco
per tagliarla, meglio metterle in tasca, che dentro l’ombra del bosco la
temperatura cala di un bel po’.
Arriviamo alle macchine ma la mattina non è finita.
Ci fermiamo spesso a casa di Enri, facciamo un aperitivo con le patatine
e delle bibite gasatone dai colori più improbabili: rosso, giallo,
verde, blu.
Siamo come i bambini, ci piace così.
Roberto Avanzini
Trentino, inverno 2009-2010
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