Cordata a tre
di Vincenzo Marino
Roma, Gennaio 2011
Caro Enzo,
che in quella salita fosse accaduto qualcosa di magico l’avevo percepito
anche io nella mia spensierata inconsapevolezza da secondo di cordata!
Leggerne l’accuratissimo resoconto rinnova i ricordi mai dimenticati e
le emozioni mai sopite. Mi sono sempre chiesto come mai, di tante salite
che hai fatto, anche più spettacolari e impegnative di questa, anche con
scalatori più abili e affidabili di me, tu conservassi il ricordo di
questa allo stesso modo in cui lo conservo io che ne ho fatte poche
altre. Ora lo so.
Sono ricordi intensi e unici che devo interamente a te: farne un
racconto non può che arricchirli e tu lo hai fatto mirabilmente, mi
affido alle tue scelte esattamente come ho fatto sotto il Camino
Glanvell, sicuro che adesso come allora… non c’è problema!
Splendida giornata che stavamo vivendo; c’era lo stupore di percepire
distintamente i cattivi pensieri che via via sgombravano la mente. Non è
un caso che io ricordi perfettamente i pensieri della marcia di
avvicinamento, mentre dell’arrampicata ricordo solo i movimenti e le
sensazioni istantanee di uno stato di estatica concentrazione.
Il morale è salito con la stessa successione delle linee altimetriche.
Il tuo racconto è il mezzo migliore per rivivere tutte le sensazioni di
una giornata che resta fra le più indimenticabili della mia vita.
Grazie!
Michele
Trieste, Luglio 1993
Classe: Hexapoda
Ordine: Lepidoptera
Famiglia: Nymphalidae Satyrinae
Genere: Lasiommata
Specie: Lasiommata maera
Normalmente chiamata farfalla delle rocce o farfalla di montagna, questa
bella specie presenta una colorazione bruna, più chiara nelle femmine,
con grandi macchie ocellate. La maera vola, da maggio a settembre, di
preferenza nelle scarpate rocciose dalla pianura fino a 2.000 e più
metri di quota.
Il Campanile di Val Montanaia (2.173 m) è una cima del gruppo degli
Spalti di Toro e Monfalconi nelle Dolomiti friulane. È una guglia di
bellezza spettacolare e selvaggia, unica nel suo genere, alta quasi 300
metri e con una base quadrata di 60 metri per lato circa, su ogni
versante è presente uno strapiombo da superare per raggiungere la “Audentis
resonant per me loca muta triumpho”, la campana che ne decora la
vetta.
Molte sono state le definizioni per questo campanile, quelle che più gli
si addicono sono: “La pietrificazione dell’urlo di un dannato”
(Compton), “Il monte più illogico” (Cozzi) e “Il Santuario
delle Alpi clautane” (Hubel).
Alpinisticamente il Campanile è conosciuto ovunque.
È stato scalato completamente per la prima volta il 17 settembre 1902
dagli alpinisti austriaci Wolf von Glanvell e Karl von Saar per la via
che ora è considerata normale: una normale con difficoltà di IV.
Il Campanile è meta appagante di escursionisti che, seguendo la Val
Montanaia, si inerpicano fin qui per vedere il “mostro” ed è l’angoscia
dei giovani climbers appena usciti dalle varie scuole di roccia della
regione “costretti” dai maestri a misurarsi con quest’oggetto
raccapricciante e seducente al tempo stesso. E’ su questa parete che
nasce la coscienza alpinistica dei giovani rocciatori del Triveneto o ne
viene definitivamente stroncata ogni velleità.
Quali sono i motivi che ci hanno spinto a scegliere questa vetta invece
di un’altra? Decine di sociologi, o sedicenti tali, stanno ancora
tentando di capire cosa spinge un essere umano a cercare di salire una
montagna ... ci vorrà ancora del tempo prima di rispondere alla seconda
domanda! Per dirla alla Pukli, il climber si pone sempre e
necessariamente in una condizione che lo costringe a rispondere alla
moltitudine di domande che l’arrampicata gli pone: su che difficoltà
vuoi scalare? che tipo di rischio sei disposto a correre? fin dove vuoi
arrivare? quanto sei in forma oggi? e via di seguito. Sono tutti quiz
che richiedono risposte pronte e concrete, da trasformare subito in
fatti. Di tutto ciò che accade, l’individuo ne è sempre pienamente
responsabile, poiché le conseguenze delle scelte legate alla scalata si
pagano subito e direttamente sulla propria pelle. Quando lo scalatore
cade o non cade, fallisce o non fallisce, lo fa sempre di persona.
L’arrampicata è un “arrampicarsi” cercando di non cascare, fisicamente e
mentalmente. Entrambi, Michele ed io, cercavamo la ragionevole certezza
di “non cascare” né fisicamente (io) né mentalmente (lui): avevo appena
compiuto tre ripetizioni della stessa via e me la sentivo nelle dita
come nessun’altra parete in vita mia, sicuro di farcela anche in “clean
climbing”, senza corda. Michele rimase affascinato dalle foto e dai
racconti convincendosi che quella era una montagna da “possedere” ad
ogni costo... “cadere” non fu nemmeno contemplato.
Partiamo alle 6 di mattina da Trieste, destinazione Rifugio Pordenone,
quando ancora si poteva raggiungere con l'auto e posteggiare a pochi
passi dal Rifugio senza pagare il pedaggio. La giornata promette molto
bene, temperatura ottimale, cielo sereno, morale altissimo. Ci
carichiamo gli zaini con l'attrezzatura e iniziamo a percorrere la Val
Montanaia in un silenzio assoluto, surreale; incredibile ma, in questo
primo fine settimana di luglio, ci siamo solo noi in tutta la valle.
Seguendo il sentiero CAI 353 risaliamo l’incassata, brulla e severa Val
Montanaia, dapprima per tracce di sentiero sull’enorme conoide di
deiezione, poi direttamente per il greto del torrente fin sotto la
soglia del Cadin terminale, che raggiungiamo prima muovendoci verso
destra e poi seguendo il letto del torrente, ripidissimo e quasi
completamente roccioso e umido. In un paio d’ore arriviamo ai piedi del
Campanile fantasticamente isolato nel centro del Cadin; tutt’intorno una
corona regale di dieci punte: la più bella è la Croda Cimoliana.
Procediamo lentamente, ipnotizzati dalla mole dell’incombente Campanile,
fin sotto la sua parete Est, lasciamo zaini e scarponi in un anfratto
della roccia vicino al sentierino che useremo in seguito per la discesa
dalla Nord.
Lentamente indossiamo gli imbraghi e ci leghiamo con le
doppie corde, controlliamo l'attrezzatura, calziamo le scarpette; il
tintinnio dei moschettoni, suono piacevole e rassicurante per ogni
climber, ci accompagna sul primo avancorpo, una quindicina di metri
facili (I) in obliquo su gradoni prima a sinistra e poi a destra, giusto
per arrivare al primo anello cementato, inizio "ufficiale" della via
normale.
Uno sguardo alle spalle verso la lontana Val Cimoliana avvolta nella
foschia del fondovalle, uno sguardo alla solare parete Sud che ci
sovrasta ed al ballatoio con gli strapiombi che impediscono la vista
della vetta; mi chino per aiutare Michele ad armare la sicura con un
mezzo barcaiolo ed ecco comparire, con fare gioioso, il terzo componente
della cordata: una graziosa farfalla di montagna, di colore beige con
macchioline nere sulle ali ben definite. Si ferma quasi sospesa
all'altezza dell'anello cementato, poi, con veloci saliscendi, si
avvicina al mio nodo delle guide sostandoci sopra, infine, inizia a
salire lungo la parete, poi la ridiscende, poi la risale ancora, quasi
ad indicarmi la via e a sollecitarmi a seguirla.
Mi viene il dubbio che
voglia essere lei la capocordata.
Inizio a salire lungo il caminetto con difficoltà di III+ seguendo, come
suggerito dalla mia capocordata, la parete di destra fino ad uscire su
una piccola terrazza in prossimità dell’evidente sosta. Attrezzo la
stessa con un barcaiolo per me ed una placchetta per Michele che senza
difficoltà in pochi minuti ci raggiunge. La mia farfalla, inizia già a
stupirmi, immaginavo fosse solo una farfalla curiosa ma, mi rendo conto
che sembra “consapevole” sia della nostra presenza nel suo ambiente sia
del suo “ruolo”; durante la sosta per il recupero di Michele non si
muove dal moschettone a ghiera utilizzato per fissare l’anello di
fettuccia e solo dopo aver assicurato il mio compagno e preparato
nuovamente le corde riprende il suo allegro svolazzare su e giù lungo la
parete.
Conosco la via, farfallina... voglio proprio vedere se pieghi a sinistra
adesso... Detto, fatto!
La farfalla insiste perché io la segua e ci spostiamo correttamente per
qualche metro a sinistra per attaccare la fascia strapiombante nel suo
punto più abbordabile (IV-) e per salire poi direttamente (III) ad una
nicchia sotto il camino-dietro già visibile dall’attacco.
Incredibilmente tutti i chiodi in parete mi sono stati segnalati dalla
mia amica con una sua piccola sosta sul chiodo stesso.
Secondo terrazzino, stessa scena del primo: non si muove dal moschettone
a ghiera!
Ma chi è questa farfalla? Cosa vuole? Decido di non dire nulla a Michele
e proseguire.
Seguiamo il diedro per i primi 15 metri su difficoltà di IV ma, mentre
mi appresto per spostarmi a destra verso la piccola rampa che dovrebbe
condurmi alla sosta in prossimità dello spigolo Est, la farfalla si
dirige decisamente a sinistra, verso il versante Ovest.
Eh no!
Non sono preparato a questo cambio di programma.
Che voglia farmi evitare la piccola e sprotetta rampa friabile? La
seguo, so dove può condurmi la variante e, senza difficoltà, anche se ho
preferito mettere un blocchetto, raggiungo la quinta di roccia (II) che
in breve mi consente di risalire il Pulpito Cozzi, il più bel terrazzino
aereo che io abbia mai visto. Sosto proprio sulla verticale della
Fessura Cozzi, fradicia come non mai! Michele con qualche sbuffo mi
raggiunge e ci accomodiamo sul Pulpito cercando di disattorcigliare le
corde.
Siamo addirittura costretti a slegarci ed a raccoglierle
nuovamente per poi legarci di nuovo. Durante tutto questo tempo ogni
tanto lancio un’occhiata distratta alla Fessura Cozzi e mi ritorna in
mente tutta la storia del povero Napoleone Cozzi e della furbizia di Von
Saar e Glanvell. Devo dire che il Pulpito è talmente comodo e la Fessura
così agghiacciante che anche psicologicamente è un po’ difficile
abbandonare il primo per la seconda.
La mia amica farfalla è ancora lì, paziente, ad attendere che i due
umani terminino il loro buffo lavoro sulle corde, avessimo anche noi un
paio d’ali...
Siamo al punto chiave, la Fessura Cozzi; mi preparo all’attacco ma, la
mia compagna di cordata insiste perché io vada a sinistra, verso lo
spigolo tra la Sud e la Ovest. Ritorno sui miei passi e mi sposto
qualche metro a sinistra verso il baratro della parete Ovest, le pareti
Est della Punta Pia e della Cima Toro, dall’altra parte del Cadin,
sembrano vicinissime. La farfalla inizia a salire e mi mostra uno spit,
due, tre... in poco meno di cinque metri.
E’ una parete compatta, verticale, a rigole piccole ma solide, di
difficoltà forse superiori alla Fessura; la risalgo senza difficoltà e
mi ritrovo spostato di diversi metri a sinistra rispetto al terrazzino.
Troppo per rientrarvi.
Anche la farfalla è d’accordo con me e quasi
intuendo i miei pensieri inizia a percorrere verso sinistra la vicina ed
esposta cengia (II) che porta sul versante Ovest proprio sotto il Camino
Glanvell, in una piccola nicchia dove l’anello cementato assicura riposo
a me ed alla farfalla. Ho dovuto allungare l’ultimo rinvio per favorire
un migliore scorrimento delle corde, consapevole di poter aumentare le
difficoltà di Michele.
Inizio a recuperare le corde, Michele sale con regolarità senza scossoni
e rallentamenti, mi lascia il tempo di pensare a questo strano insetto
beige che sembra quasi cercare una forma di comunicazione e devo dire
che ci sta riuscendo, perché ora ha la mia completa fiducia; se non
altro, ha dimostrato di conoscere anche lei la via per la vetta.
Ecco Michele, sorridente e nient’affatto stanco; gli comunico che
mancano tre lunghezze per la campana di vetta ed il tiro più bello sta
per iniziare. Il Camino Glanvell ha un attacco strapiombante (IV), a sua
volta posizionato sopra l’immenso strapiombo della parete Ovest che,
salendo, è praticamente invisibile sotto di noi.
E’ importante posizionare subito un rinvio per diminuire il fattore di
caduta, ma gli appigli sono fantastici, l’entusiasmo alle stelle, la
fatica a zero e praticamente salgo l’intera lunghezza senza alcuna
protezione...
Michele ancora non lo sa...
Quando leggerà questo racconto sì...
Trenta metri con fattore di caduta 2, una pazzia...
Sono sul ballatoio, di nuovo al sole, in una comoda posizione, in vista
della cima e con la farfalla che ormai sembra più interessata al mio
nuovo casco azzurro (regalo dello stesso Michele) che alle ultime due
lunghezze.
Che mi consideri fuori pericolo?
Forza Miche’, ci siamo quasi.
Il sole è quasi allo Zenit ma non fa caldo; dopo aver districato
nuovamente le corde, iniziamo a salire direttamente la cuspide finale
seguendo un camino-colatoio che esce su una conca dove sostiamo per
l’ultima volta.
Adesso la farfalla non indica più nulla, si permette di allontanarsi
lungo la parete ma per ritornare poi sempre in prossimità delle corde o
delle soste o del mio casco. Allungo una mano, quasi a volerla
accarezzare; non si spaventa, anzi, spicca il volo e si posa sul dorso
della mia mano destra. Per non disturbarla rallento il recupero delle
corde, lei vi rimane appoggiata sopra fin quando non devo bloccare
Michele sull’ultima sosta.
Mancano 40 metri di III, gli ultimi di una splendida arrampicata.
Senza problemi, in pochi minuti, li saliamo e raggiungiamo la vetta,
pochi metri quadrati di roccia calpestati nel corso dell’ultimo secolo
da migliaia di alpinisti felici dell’impresa compiuta.
E’ la mia quarta ripetizione, ma l’emozione è la stessa della prima
volta. Quest’ultima è stata speciale, tutto è andato alla perfezione e
sono convinto che anche per Michele il ricordo di questa avventura
rimarrà a lungo.
Ho dedicato la salita a mio padre, venuto a mancare un paio d’anni
prima; se il male non se lo fosse portato via, appassionato com’era,
avrebbe certamente voluto condividere queste emozioni.
A proposito: la farfalla si è adagiata sul supporto del mozzo della
campana e sta aspettando che qualcuno la faccia risuonare... i rintocchi
rimbombano per la Val Montanaia ed allo sfumare dell’ultima nota, si
solleva e vola decisa verso Sud, verso valle.
E’ ora di iniziare la discesa... e che discesa! Ma questa è un’altra
storia.
Vincenzo Marino
Trieste, luglio 1993