Il Badile senza pile
Cronaca di una salita (e di una disastrosa discesa) dallo spigolo nord del Pizzo Badile

di Massimo Anile
 

- Mauro…..?
- Sgrunf...
- Mauro? Dai, dobbiamo andare ….svegliati.
- Uhm….starm..dorm..grunf.
- Mauroooo, porca paletta!

Dal sacco a pelo escono due mani robuste, che con un gesto inequivocabile - palmo contro dorso – invitano la molestatrice di sonni a spostare il suo “disturbo” più in là.
E ti credo. Solo Elena poteva prendere un impegno del genere infischiandosene se il giorno dopo una salita così lunga lui sarebbe stato stravolto. Ma come si fa…?
Lei e la Jena s’erano messe d’accordo, questo era il dramma: due che del rompimento di marroni avevano saputo farne un’arte.
Tra trenta secondi Francoscimmia esplode”, gli viene infatti da pensare immediatamente dopo.
- Oè, ma che sei scema? - Si sente infatti urlare dalla stanza accanto – Cosa me ne frega se la Michela e Stalin ci aspettano per fare la grigliata? Io e l’animale siamo tornati alle tre e mezza…
L’animale era lui.
Le donne, sua sorella e la moglie del suo socio.
Purtroppo non c’è giustizia. Sono sempre loro a fissare le regole. Mamme, mogli, sorelle o figlie. Tu gridi, fai la ruota, ti fanno credere che conti qualcosa…..ma poi eccole lì, puntuali come un treno bernese, a deciderti la vita.
Così anche Francoscimmia si alza e ciabattando come un povero vecchio anchilosato porta le sue quattrossa (ah, che poeta Ungaretti!) nel cesso.
Se cede lui, non c’è speranza…” riflette Mauro.
Così si solleva dal giaciglio e con le gambe che gli fanno “Aldo Giovanni e Giacomo”, cerca di cacciarsi via la sensazione di nausea e rincoglionimento profuso di quell’odioso risveglio.
Era in giro da sei giorni: che stress….
Aveva lingua felpata, un alito da far spavento ad un caprone sardo e non aveva uno, dicasi un muscolo che non gli dolesse. Però era stato bello.  

Era cominciato tutto quindici giorni prima.
Appena iniziate le ferie.
Francoscimmia aveva la Jena al settimo mese di gestazione, elemento che gli frenava la solita allucinante frenesia di arrampicare e parimenti gli disegnava sul volto un’indefinibile espressione idiota da papà prossimo venturo.
Così avevano deciso di mediare sui programmi e di ridimensionare i progetti di conquista, che da sempre erano troppo ambiziosi.
- Facciamo un giro in Engadina? – aveva proposto Fly Faz (il cane cascatore delle Grigne, nonché futuro cognato di Mauro).
- Sì, sì, così vi porto a fare una visita nel più bel paese della Svizzera - aggiunse Francoscì serafico.

La tappa a Soglio fu devastante.
Giornata stupenda, tersa, sole tiepido dopo il temporale, profumi d’ortiche e fieno aromatico nelle narici.
Paese in pietra, antico, fresco, solatio, gente in costume, gattini deliziosi per strada.
Panorama.
Ecco, panorama…..

Davanti a quel bucolico angolo di paradiso, s’apre una vista che estasiò anche Giovanni Segantini, che dai maggenghi di Soglio trasse ispirazione per il suo “La vita”.
Cosa c’è davanti a Soglio?
Il più ammaliante scorcio delle alpi.
E ciò che rappresenta un godimento per ogni esteta, per l’alpinista è una spaventosa e totalizzante provocazione.
Il trittico Sciora Cengalo Badile, coi suoi pilastri immani, sorregge il cielo all’orizzonte.
Il cielo che va a sud, verso il mare.
Bonatti sostiene che la Bregaglia sia la valle più bella delle Alpi.
Come dargli torto?
Mauro si impastò, paralizzato di stupore, davanti a quel dipinto naturale, dove per dirittura e dimensione lo spigolone la faceva da padrone.
Così, mentre gli altri, al fedele seguito della mongolfiera della Jena, s’erano prodotti in un giretto da pensionati da Cral Telecom lungo le solatie e docili mulattiere dei dintorni, lui s’era fatto un’overdose di Badile.
Minuto dopo minuto, con enfasi epica di omerico respiro, decise che quella montagna sarebbe stata sua.
E che lo sarebbe stata presto.
Quando gli altri furono di ritorno, trovarono la sua statua di sale cristallizzata in posizione contemplativa.
Sopracciglio languido alla Gervasutti e sguardo fiero, indomito, proteso verso l’avventura testè annusata.
Lo tolsero di lì non senza fatica (dato il mix tra una sana e robusta costituzione e una testa da mulo cocciuto) convincendolo solo dopo avergli promesso le frittelle ripiene alla crema pasticcera, specialità nella quale Elena non era seconda a nessuna.

Passò qualche giorno e alle frittelle seguirono le salite più ruspanti della Val di Mello.
Ruspanti, cigolanti, striscianti…
Francoscimmia aveva accettato di condividere con lui quel progetto, che per dei soffocati falesisti come loro conteneva una duplice sfida, vuoi alla montagna vera, vuoi alla fatica.
Conteneva anche qualche dilemma sull’orientamento, e sull’organizzazione.
Bazzecole.
Da ottimi pianificatori (certificati ISO 9000) decisero quindi che l’unica cosa da fare (ovviamente la più inutile) fosse quella di sviluppare la tecnica.
Si consumarono le falangi sulle placche e svilupparono una discreta abilità nel piazzare protezioni a prova di volo d’ippopotamo. Poi decisero di organizzare un bel trekking (“qualcuno” aveva l’alibi e restò a casa con la sua gestante) immediatamente prima di salire lo spigolo, in modo da arrivare riposati all’appuntamento.
Durante il trek, Mauro e il suo futuro cognato - un pastore tedesco dalle sembianze vagamente antropomorfe che sfruttava il suo celebre cognome per prenotare senza intoppi branda e sbobba negli affollatissimi rifugi - trovarono anche il modo di attuare uno dei perversi consigli di Francoscimmia: salire la normale del Badile per mettere a mente la discesa “che quando torniamo giù di lì saremo cotti come brasati e avremo la mente debole”.
Dopo varie traversie e scarrucolamenti penosi da un versante all’altro, arrivò finalmente il momento del fatale appuntamento, il dì del 16 agosto 1989.
Elena e Giorgio (il Rin Tin Tin di cui sopra) scesero i devastanti gradoni del sentiero Sasc Furà - Laret, ove giunsero in condizioni disperate e stato di confusione mentale per incontrare Francoscimmia e la Jena che, agitatissimi, li attendevano da qualche ora.
All’epoca non esistevano telefonini e darsi un appuntamento a quattro giorni data in un determinato luogo aveva il sapore di un tentativo di accoppiata secca alla SNAI. Se poi consideriamo la bolsità dei cavalli in gioco, avremo un quadro completo dell’incertezza.  

- Porca puzzola, meno male che siete arrivati… fra mezz’ora avrei girato i tacchi.
- Oh, ma sai in che razza di casini ci siamo infilati?
- Ma quali casini, siete scoppiati… quanto ci vuole a scollinare? E’ tutta discesa…
- Discesa un bel paio di balle, e poi c’era un ghiaccio della madonna al colle e di qua non era facile trovare il
  percorso.
- Va beh… l’animale dov’è?
- E’ rimasto al rifugio, aveva i piedi che fumavano… ti aspetta.
- La mezza corda gliel’hai lasciata vero?
- E certo, mica sono scemo…
- Va beh, va… è meglio che salgo, così mangiamo un boccone e ci cacciamo subito a nanna.
- Oh, state all’occhio, che l’altro anno...
- Pussa via…  c’è già la mia mezza mela avvelenata che mi sta torturando da una settimana, cercate di farla bere
  pesante se no vi spappola le gonadi per due giorni.

Francoscimmia si girò interlocutorio verso la moglie, attendendosi una pesante invettiva, ma le donne erano immerse nei loro discorsi fitti fitti, pieni di particolari snocciolati con enfasi trattenendosi il braccio l’un l’altra.
Sembrava non si vedessero da mesi: una stravolta, con ginocchia graffiate e occhio velato di stanchezza, ma lingua perfettamente oliata ed efficiente, l’altra con l’anguria prominente, treccia da indiana sioux, sguardo da furetto e tutto il fiato che le era mancato nei giorni precedenti - quando faceva la spesa, leggeva, si agitava nel letto insonne - che improvvisamente le era tornato, grazie a chissà quale giunonico miracolo…
Va beh, dopo commiati e raccomandazioni varie, le due donne e il canide presero la strada del ritorno in Val Masino, ove il gruppo aveva eletto estiva dimora, mentre Francoscimmia imboccò di lena il sentiero per il Sasc Furà, dove prevedeva di arrivare in un’ora circa.  

Il tempo a terra era buono e la temperatura era di 12 gradi centigradi.
Alitalia ringraziava tutti per averla scelta e si augurava di ospitare nuovamente sulla propria flotta i gentili ospiti….
Dopo un’ora di faticosa salita, Francoscimmia era giunto al docile dosso del rifugio.
Mauro era lì, coi piedi per aria e la faccia arrostita dal sole.
Pareva un peperone teutonico, coi sui ricci biondi, i pettorali forti che scoppiavano sotto la maglietta.
Grandi pacche sulle spalle e - appena recuperato il fiato - una rapida perlustrazione del materiale da organizzare per il giorno dopo.
- Gamba - (questo il soprannome di Mauro usato quando il clima si faceva teso ed eroico…. ed anche per disorientare il lettore…) - ma scarponcini non ne hai?
- No, no... avevo i Koflach che mi hanno stritolato i piedi, così li ho dati ad Elena: salirò all’attacco con le mie fide
  Superga. Tanto per arrampicare usiamo le scarpette….
- Ma che, ti sei bevuto il cervello? E se troviamo neve?
- Scendendo ci siamo passati vicino… non dovrebbero esserci problemi.
- E dall’altro lato?
- Idem, è tutto asciutto, poi c’è il sentiero. 
- Mah, speriamo bene… la guida?
- Cazzo, non l’hai portata?
- Porca puzzola, siete in giro VOI da tre giorni con la guida, pensavo l’avessero lasciata a te.
- Ce l’ha il lupo… lo sai che è un maniaco.
- Ma adesso è a noi che serve. Minchia siete come ragazzini, vi si deve controllare tutto….
- Ne prendiamo una qui al rifugio e la ricopiamo stasera….

Entrarono dopo un po’.
I conti col materiale tornavano: due corde, serie completa di nut, tre o quattro friends (che non si sa mai), qualche chiodo e due martelli, fettucce, caschetti, macchina fotografica, borraccia, altimetro (che non serviva a niente sulle vie di roccia, ma faceva fighi). Mancava la torcia frontale di Francoscimmia.
- Dai, ne ho una io, la facciamo bastare…
- Cristofero, sono un idiota, non ci pensavo più che al mattino fa buio… le pile, le hai?
- Eh eh eh... sarò un ragazzino, ma di batterie ne ho persino una di scorta e poi ho due lampadine, vedi? - disse Mauro mostrando al socio la scatoletta.
- Bravo – tagliò corto l’altro – almeno su quello siamo a posto.  

Per fortuna al rifugio avevano trovato il Fabio Lenti con un cliente.
Sono incontri che tranquillizzano, sai che dividerai la salita con una guida “umana” (sguardo fumato a parte), un amico che conosci da anni. Ad essere onesti, a tranquillizzare era soprattutto l’età del cliente, che da un pezzo aveva superato la sessantina. Come dire: male che vada ci sono loro a chiudere le fila. Per due che avevano scordato la guida “cartacea” era una specie di polizza contro l’infortunio di perdere la bussola.  

La cena fu uno strazio.
Oddio, il rifugio era carino, ordinato, pulito…. svizzero insomma.
Per il menù avrebbero optato volentieri per qualcosa di più latino.
Un potage che allungava le budella, salsicciotti carbonizzati e barbabietole condite con smegma di cammello (o qualcosa di molto affine, data l’acidità e l’olezzo..).
Per uno come lui, che veniva da una famiglia di ristoratori eccellenti, la cucina “funzionale” era una tortura cilena…. ma si sa che di ogni problema occorre fare un’opportunità – perlomeno dai tempi di un certo Seneca - e così decise che un buon digiuno gli avrebbe giovato.
Non capitava a fagiolo, d’accordo, dopo quattro giorni di trekking a scatolette e bivacchi, ma tanto fa… avrebbe arrampicato leggero come una piuma, riposando pure meglio durante la notte.
Riposando……
Il destino, che come noto si accanisce contro i malati di certezze, decise diversamente.
Capitò, infatti, che un gruppo di grizzly, travestiti in malo modo da escursionisti alemanni, transitasse per la Val Bregaglia. Erano affamati e di bocca buona.
E di gomito ancora migliore…
Dopo essersi abboffati come cinghiali, presero cuccia nella brande immediatamente prossime a quella di Mauro e tentarono di segare tutte le travi del rifugio appena preso sonno.
Dalle dieci alle dieci e mezza la stanza era già satura di segatura.
Francoscimmia, nonostante il rumore assordante, provato da mesi di risvegli dispneici della gentile consorte, piombò in un sonno comatoso quasi immediatamente.
Gli stava di fianco e faceva impressione: bianco e magro come un cristo fiammingo, lugubre, con quella barba smorta, filacciosa e le gambe incrociate e contorte come il fusto di un glicine.
Faceva schifo e, il bastardo, dormiva!
Invece Hans, Otto e Barnelli insistevano a suonare i loro tromboni.
A tutto c’era un limite e dopo una mezz’ora di quella sinfonia la vista gli si annebbiò.
No, non era l’agognato Morfeo che arrivava in visita di cortesia, ma la rabbia schiumosa che gli montava dentro.
Mentre cercava di dare una dimensione civile al suo malumore, la componente irrazionale, istintiva, pericolosamente reattiva del suo cervello da “quasi ingegnere” cominciò a lavorare.
Bastava un flebile innesco e la carica sarebbe esplosa.
Cercò di rimuovere – a costo di una biblica fatica – i mille pretesti storici che avrebbero legittimato il suo attacco al nemico nazista….. ma non fu sufficiente.
Perché la reazione organica di sopravvivenza è più profonda di qualsiasi stratificazione culturale.
Eccone l’escalation…
Calvino (Italo) scrisse il suo ultimo libro, ahinoi incompiuto, sui sensi.: vista, gusto, tatto, udito, olfatto…. intendeva esaltarli. Qui li si umiliava.
La vista di quelle belve lo innoridiva, il gusto delle barbabietole ristagnava come una patina di sofferenza sulle sue papille, la sensazione tattile di quelle coperte ruvide sulla pelle (o meglio su ciò che ne restava) dei sui piedi lo faceva trasalire, il rumore ossessionante, scoppiettante, disarmonico del loro russare gli aveva teso i nervi come corde di un cembalo…. ma quel fetore da topo marcio, insuflato senza alcun rispetto (e senza alcuna coscienza, probabilmente) nella angusta e popolosa sala da quel ventrone sboldro, era veramente troppo.
Si rannicchiò e scalciò l’orso molesto con una potenza da mulo, facendolo rotolare per terra.
Un mugugno incomprensibile e poi la lapidaria frase “Ti strappo le braccia” venne accolta da una risatina leggera, di italico timbro. Dato il tono con cui il nostro robusto giustiziere emise la sua sentenza, nessuno osò replicare.
Ci fu un attimo di silenzio siderale e poi, lentamente, il sonno si fece nuovamente padrone e russamenti, singulti e sbuffi sincopati si riappropriarono della notte.

Al mattino si alzarono al primo brusio e con falsa indifferenza accelerarono le operazioni per partire prima, onde anticipare gli altri all’attacco.
L’ora legale e il versante sprofondato ad opaco non aiutavano affatto.
Fuori era buio pesto e non appena varcarono la soglia capirono il significato di un gioire prematuro e azzardato.
La lampadina frontale di Gamba, infatti, emetteva una luce fioca… un lumicino triste e sfigato, senza nessuna energia. - Cambia la pila, sarà scarica – sentenziò Francoscimmia.
- Ma se l’ho comprata l’altro giorno….
- Dove?
- Boh… ah dal Rossi, giù a Cataeggio.
- Eh, dal Rossi… sai che giro di pile avrà…. se va bene ti ha dato quella della sua Cresima.
- Dici? A me sembrava nuova di pacca.
- Ci avete cotto un Gigiat (1), su al Vaninetti, allora… come fa ad esser così sgonfia?
- Ma no, ti dico, non l’ho mai usata. In ‘sti tre giorni abbiamo sempre preso la frontale del Lupo.
A Francoscimmia vennero i brividi.
Rientrarono nel rifugio e svitarono la ghiera.
La lampadina era perfetta e si leggeva benissimo sul vetro in trasparenza un bel “12V” di alimentazione.
- Cristo Gamba, ma dove le hai recuperate queste lampadine?
- Le ha prese mia mamma… azz… è andata nel negozio di articoli per auto…
- Ecco….mi stai dicendo che ti sei fidato dell’acquisto di quella povera santa donna di tua madre? A lei avevi
  commissionato la cosa?

- E’ così. Non avevo tempo e allora…
- La tesi, vero?
- Proprio lei.
- Ingegneria… già….
- Va beh... fra poco fa chiaro… seguiamo una cordata e da qualche parte arriveremo.
- Non ci sono molte alternative. O forse no. Ce l’hai un’altra batteria piatta?
- Sì, te l’ho detto, aspetta un attimo. Ma perché ti serve?
- Le colleghiamo in serie. Ingegnere, cosa succede alla tensione se colleghiamo due alimentatori da 4,5 volts in
  serie?

- Si somma… fanno 9 volts.
- Fanno 9 fottutissimi volts, che sono lontani dai 12 nominali che richiederebbe la resistenza della lampadina per
  funzionare bene, ma sono sempre meglio di quei miseri 4,5 che la fanno morire d’inedia….

La cosa funzionò. Beh, quasi….
Anziché avere una candelina da torta di compleanno mezza smorzata, avevano un lumino da cimitero a rischiarare la strada. Strada….. si fa per dire…. un percorso tra gande, acquitrini e zolle putride di fanghiglia gelida.
Non se ne persero una, naturalmente.
Francoscimmia con le sue pedule da trekking in cordura “a tenuta d’acqua”, nel senso che l’acqua la tenevano tutta dentro, senza la minima impermeabilità, e lui con le sue Superga da basket: una garanzia nei confronti di eventuali tratti innevati o verglassati.
Tentarono di seguire due tedeschi che si persero tra i rododendri, tallonarono un gruppo di svizzeri diretti alla capanna Sciora e finalmente un po’ di luce venne dal cielo a riorientare il loro disordinato approccio.
Arrivarono all’attacco per ultimi.
Non male, essendo usciti quasi per primi.

Là c’era Fabio col suo cliente.
Erano già pronti, ma per un atto di pietà decisero di partire insieme a loro.
Pietà o timore che il cliente avesse bisogno di una spintarella, questo non si può dire per certo, fatto sta che attaccarono lo spigolone accoppiati.
Francoscimmia lasciò a lui lo zaino.
Aveva biascicato qualcosa sul fatto dell’alternarsi in testa, ma come al solito si era parlato addosso, senza curarsi troppo di quello che avevano capito gli altri.
I primi tiri scorsero molli. La roccia era fredda e anche se le difficoltà non erano sostenute, si arrampicava anchilosati.

Arrivarono alla Risch, il passaggio chiave, giusto in tempo per godersi un po’ di sole.
Non potevano essere veloci, anche perché erano (almeno uno, senz’altro il più rapido) Lenti…. ma si consolavano pensando che la strada era lunga ed era meglio tenersi un po’ di energie di riserva.
Non si sa mai…
La placca era comunque bellissima e non oppose loro nessuna resistenza, soltanto quel minimo di concentrazione funzionale ad una normale intelligenza motoria. Sopra c’era ancora un altro passaggio interessante e la roccia, man mano che salivano, si faceva più pulita dai licheni.
Avevano portato chiodi e martello, pensando che fosse necessario attrezzare le soste e magari mettere qualche protezione lungo i tiri, ma in realtà la roccia molto appigliata e le soste evidenti e più o meno accettabili, non li costrinsero al temuto lavoro di carpenteria.

La schiena del drago era docile.
La potevano ammirare nella sua sinuosità dall’alto.
Ancora una volta si palesava come la realtà di una salita fosse ben diversa dalla sua percezione dal fondovalle.
Quello spigolo dritto come un coltello, si era rivelato ben più articolato e ondulato di come lo si era visto da Soglio.
E anche infinitamente più lungo di ogni altra salita in roccia che avessero mai fatto fino ad allora.
Che fosse interminabile, lo capirono anche osservando la loro seconda batteria (quella che raddoppiava la tensione di alimentazione della lampadina frontale) rovinare giù per il pilastro a goccia.
Un salto, due salti, cento salti verso il ghiacciaio sprofondato tra le vertiginosi pareti di serizzo mille metri più in basso. Per quello che era servita….
Ora bisognava salire, salire, salire..

Al trentesimo tiro, Gamba aveva smesso di contare.
Superata una zona insidiosa di rocce chiare e instabili, salirono una placca fessurata scivolosa e si infilarono in una specie di camino.
Ormai erano in pieno bailamme.
Le cordate più veloci stavano, infatti, iniziando le operazioni di discesa sul quello stesso versante svizzero, i più senza curarsi troppo - per la paura di saltare la minestra o sa Dio cosa - di verificare la posizione di chi stava ancora faticosamente salendo.
Laddove lo spigolo s’ergeva con un’ultima e definitiva impennata grigia, il Lenti e Sergio, il taciturno e in realtà fortissimo cliente, decisero di accelerare il passo, approfittando di un ingarbugliamento di corde nel quale erano goffamente incappati i nostri eroi.
- Ci vediamo in vetta.
- Va bene, ricordati che ho due tue fettucce.
- Non preoccuparti, me le darai al rifugio. Ora non ci servono più.
Francoscì era a pezzi.
Magro com’era, aveva scorte energetiche limitate.
Aveva tirato tutta la via da primo.
Non era coraggio, né abilità: era paura.
La tremenda paura di doversi sciroppare lo zaino….
Tardi, molto tardi, giunsero sulla cuspide finale.
Il tempo per spararsi un cioccovo e una mezza bottiglia di gatorade e iniziarono il dilemma della discesa.
Nebbiolina poca, a dire il vero.
Ma tempo che pressa.
Fra due ore al massimo sarebbe diventato buio, pensarono entrambi.
E, combinati com’erano, neanche a parlarne di passare un bivacco all’addiaccio.
Qualche gracchio svolazzava nella tiepida aria della sera: sembrava un avvoltoio….
Sulla normale italiana ovviamente non c’era più un cane.
Anche il Lenti era sparito, con la responsabilità del Sergio e con la convinzione che i due se la sarebbero cavata comunque, visto che Gamba aveva fatto pochi giorni prima la normale, proprio per evitare incertezze d’orientamento nella fase di discesa.

Invece, arrivati all’altezza della croce, i due cojotes, cotti di fatica, si spararono una doppia in più, annusando il miraggio della capanna Giannetti.
Una sosta strana disegnò perplessità sui loro volti scavati.
- E’ di qui?
- Si, almeno mi sembra… poi c’è un ballatoio: si risale qualche metro fino a che si trova un canale.
- Va beh…… io vado.
Giunto al termine dei quaranta metri, o poco meno, Francoscimmia si arrestò.
Sotto di lui un salto strapiombante, di roccia incerta.
Sul lato ovest qualche cordino passato alla disperata in due o tre chiodacci.
Brutto segno.
- Gamba! Gamba!!! Di qui non si scende!!!
- Torna su allora….
- Cazzo, è una parola.
- Ce la fai a metter un prusik?
- Non lo so, è un casino. Provo ad entrare nel camino ed a incastrarmi, così vedo se riesco a salire arrampicando.
  Se risalgo coi prusik facciamo notte…

- Va beh, dimmi se ti devo fare sicura.
Il magro provò a infilarsi in un budello-camino con roccia a scaglie verdastre.
Era sicuramente fuori via, ma il sistema migliore per venirne rapidamente fuori doveva essere per forza quello di risalirne le pareti friabili e melmose.
- Ora scarico le corde, e mi lego. Recuperale per qualche metro poi assicurami con un mezzo barcaiolo.
- Cerca di non volare, nel frattempo….
- Fottiti, ingegnere dei miei stivali… e sbrigati a recuperare, questo postaccio non è un eden….
Dopo una decina di interminabili minuti, il volto scheletrico di Francoscimmia emerse dalla sua paura.
- Cazzeruola, che tiro…..me la sono fatta addosso anche da secondo.
- Ho sentito, hai tirato giù un paio di lavandini da brivido…..
Il tempo di riprendersi e poi su, il più velocemente possibile, verso la croce. Ecco il canale: ormai non potevano più sbagliare. Arrivarono alla capanna Giannetti che era già buio.
Gamba propose di restare, non si sa se per fame, fatica o pena nei confronti del suo socio, emaciato come un cristiano durante le persecuzioni di Nerone.
Ma Francoscì pensava alla sua tenera Jena, in pena qualche migliaio di metri in basso, e al pargolo che teneva in grembo. Aveva già chiesto e avuto troppe licenze, meglio non esagerare.

Entrarono e scolarono avidamente un bicchiere avvisando il rifugista: se chiamano dalla Val Masino, va detto che sono arrivati sani e salvi e che hanno iniziato la lunga discesa verso i “Bagni”.
Lunga….
Non immaginavano quanto!!!!
La Val Porcellizzo è immensa.
Gande e pascoli si alternano senza soluzione di continuità prive dell’ausilio di una morfologia che consenta di identificare precisi punti di riferimento.
L’orientamento è problematico già nei giorni uggiosi, quando nuvole spesse ovattano quel microcosmo infinito di alta montagna. Per questo motivo vi sono molti segnavia pittati sui sassi.
E servono, perché la traccia non sempre è evidente.
La val Porcellizzo, di notte, senza luna e soprattutto senza pila è peggio del labirinto del palazzo di Cnosso.
Basta sostituire al Minotauro il Gigiat (1) che, a parte l’inclinazione filo-ambientalista, non è meno spaventevole, ed il gioco è fatto.
Se, putacaso, si prendono due Tesei qualsiasi, senza alcuna Arianna che li sorregga nell’impresa (la sorellastra e la Jena sono troppo in basso per servire allo scopo), li si sfianca a dovere, infilzandoli prima sopra un acuminato spigolo per poi cucinarli in un camino friabile, è facile che un’avventura d’ordinaria follia si trasformi in una tragedia greca.
Così i due disgraziati, animati dallo stoicismo più puro dell’alpinismo classico, tendente ad eroico (un limite, anche in senso matematico), si incamminarono a tentoni lungo l’improbabile discesa.
E incapparono nel primo dei tranelli.

Dopo qualche minuto, perso cercando di adottare una tattica efficace, i due brancolanti compari decisero di intentare una soluzione alternativa: orientarsi seguendo il vago profilo delle montagne fino a raggiungere un “evocato” ponte al limitare del bosco, oltrepassato il quale la traccia, infilandosi nella foresta stessa, sarebbe apparsa (ahinoi!) più evidente. Ma anche i profili erano bui quanto la notte.
Il cielo opaco-agosto non trasluceva certo la magia di stelle delle notti invernali.
Così, memori delle antiche lezioni di scienze e anatomia, decisero di camminare con lo sguardo “di lato”, perché i bastoncelli sono più sensibili delle sfere e captano meglio le sagome.


Caddero e si rialzarono non si sa quante volte, inciampando nelle pietre, nei solchi prativi, tra le zolle, nei rododendri, sui mirtilli. Al termine di questo estenuante calvario, lungo quasi due ore, giunsero al sospirato ponte subito ribattezzato “ponte di sospiri” (avevano piombi ai piedi, quindi l’allegoria veneziana funzionava benissimo) e decisero di concedersi una sosta.
Breve.
Quando aprirono gli occhi erano passati cinquanta minuti.
La notte era ancora più nera.
Se ne accorsero meglio infilandosi nel bosco di abeti.
La mezzanotte era ormai prossima e loro parevano due larve umane: puzzolenti, ormai ben poco lucide e soprattutto mostruosamente affamate.
- Mi sembra di ricordare che qui vicino c’è una stalla – disse il Sigfrido wagneriano al suo socio sottile.
- E allora? Se dovevamo far sosta, tanto valeva stare alla Giannetti, no?
- Possibile che non capisci? Magari ci sono le galline…. magari hanno fatto le uova!
- Dici?
- Meglio per loro, se non trovo le uova ne acchiappo una e la mangio viva.
- Ne saresti capace, non ho dubbi.
- Francoscì, ho una fame che mi mangerei un abete….
- Anche io… ma una gallina cruda….
- La fame è fame…..
- Sei un animale.
Rallegrati da questo battibecco, dopo l’ennesima “scarligata” i due decisero di fermarsi un attimo per tirare il fiato e massaggiarsi gli stinchi dolenti.
Fu in quell’occasione che al magro scappò la mano dietro al risvolto dello zaino.
Lì per lì, pensò ad un’allucinazione tattile.
Si riprese e poi trovò conferma dai reiterati palpeggiamenti.
- Gamba, ascolta, forse c’è una sorpresa. Mi sembra di sentire una scatoletta sotto la cucitura.
- Orkaloca, dai svuota la sacca che cerchiamo.
La scatoletta c’era.
Tonno, a giudicare dalle dimensioni.
Una specie di miracolo.
E, udite udite, una scatoletta a strappo!!
Francoscimmia tirò come un dannato la linguetta.
Si sentì un incoraggiante “flop” e il bosco si intrise di uno splendido profumo di maruzzella.
Ma la concitazione era così elevata che la scatoletta, passando di mano in mano, cadde e rotolò a valle.
Il tutto in un buio pesto, che più pesto non si poteva, neppure a immergerlo nella pece.
- No, porca puttana, nooo… - urlarono all’unisono.
Disperati, diedero avvio ad una minuziosa e frenetica perlustrazione del terreno: carponi, palme che percuotevano speranzosamente il suolo, palpando radici, aghi di pino e pietrame.
Ma della scatoletta nessuna traccia.
- Eppure, deve essere da queste parti.
- Proviamo ancora, dai!
Dopo un quarto d’ora di sofferenza profusa, Gamba recuperò la refurtiva.
Era finita sotto una radice, ed era piena zeppa di aghi di pino.
Mangiarono tutto, aghi compresi.
Poi leccarono dita e scatoletta con minuzia certosina e ripartirono.
Giunsero ai Bagni alle due suonate.
Due ombre sinistre, barcollanti, con la gobba dello zaino e lo scarpone strascicato in terra.
Quasimodo (li perdoni Hugo) non era nessuno….
Appena sotto la locanda, ecco due fari negli occhi: il Lupo, la Jena panzonuta e la sorellastra gli si erano gettati addosso, manco fossero due reduci della campagna di Russia.
Anche il Lenti, seppero poi, era arrivato da non molto. Stravolto quanto loro o quasi.
Sapere che la settimana dopo sarebbe partito per l’Everest li fece sentire meno imbecilli.
Appena varcata la soglia di casa fu loro imposto un necessario bagno.
Poi si precipitarono in cucina.
Per l’occasione fu allestita una gigantesca insalata, direttamente nel mastello dei panni, con dentro ogni ben di Dio.
Un paio di bocce d’acqua e una bottiglia di Grumello “serio” provvidero alla reidratazione.
Così giunsero le tre e mezza e si infilarono, stravolti, nel letto.
Sognarono entrambi gande e inciampi per tutto il loro breve sonno, ignorando che “the day after” si sarebbe compiuta la sceneggiata della grigliatona.
Perché, come noto, il giorno dopo una salita che ti ha consumato le ossa, non può né piovere, né registrarsi una defezione: la dura legge di Murphy è sempre in agguato e colpisce a tradimento.
Puoi scommettere che i perenni ritardatari, il giorno in cui confiderai nella loro naturale inclinazione, avranno scelto di redimersi ed arriveranno puntuali.
Ed è quindi perfettamente inutile raccontare come finì questa storia, vero?
Comunque, se vi restano dei dubbi, basta ritornare alla partenza (senza ritirare le 20.000 lire, eh!).

Massimo Anile
Milano, 21 gennaio 2002

Note al testo:

(1) GIGIAT = E’ il mostro della Val Masino (una sorta di yeti nostrano), dalle vaghe sembianze caprine. La sua effige può essere ammirata sull’affresco di un’antica casa a S. Martino.

Note tecniche: Pizzo Badile. Alpi Retiche, spigolo nord (Alfred Zurcher, Walter Risch il 4 agosto del 1923)
Dislivello 850 metri circa, Sviluppo oltre 1.100 metri. Difficoltà max 4+
Difficoltà complessiva, in condizioni normali “D”.

Consigli utili: Portarsi una pila.

 

Nota a cura della Redazione.
Le foto che accompagnano il testo sono tratte dal sito www.climberland.net, per gentile concessione, e si riferiscono ad una salita effettuata nell'anno 2006.
Le foto che riguardano il Gigiat sono di Gabriele Villa (archivio intraigiarùn).