Nuvole sotto

 

di Roberto Avanzini

 

Un mare di nubi galleggia sotto e davanti a me, un mare che di tanto in tanto trabocca e mi avvolge accarezzandomi. Mi torna in mente uno dei miei quadri preferiti “ Monaco in riva al mare” di Friedrich. Rappresenta un uomo girato di spalle e  avvolto nel saio su una spiaggia deserta, davanti ad una mareggiata. Sarà il cappuccio della giacca a vento che ho sulla testa ma adesso penso di capire meglio quel quadro. Le nubi ribollono sotto di me, alzo lo sguardo e le gocce di pioggia portate dal vento mi rigano la faccia.
Sono felice.
Essere qui è un piccolo sogno che si avvera, un gioco iniziato non per vincere ma per vivere dei momenti con gioia. E’ strano, sono partito per fare una cosa molto concreta, ma questa esperienza si sta mutando in qualcosa dai contorni più sfumati, una cosa sospesa su quelle nubi li sotto, ma non per questo meno intensa.
Tutte le cose hanno un inizio, questa e iniziata qualche anno fa con una passeggiata in un posto sperduto, l’ennesima gita organizzata con gli amici cercando sulla cartina i luoghi più appartati, schifati dalle file sui sentieri del Brenta o del Sella. Nelle nostre peregrinazioni siamo finiti in Val Gabbiolo, una delle molte valli sospese laterali alla Val di Genova.
Poi un articolo pubblicato sul bollettino della S.A.T. (Società Alpinisti Trentini) portava alcune vaghe relazioni di vie aperte in quella zona mi incuriosisce un po’ , ma viene presto dimenticato. Pian piano però queste due cose si incontrano in qualche parte del mio pensiero e ne parlo con Matteo, altro autentico appassionato di posti sperduti. Decidiamo una cosa un po’ folle, ovvero tentare di aprire una via nuova proprio in quella valle. Sono perplesso, so benissimo di non essere all’altezza di quello che sto per fare. Matteo invece è un vero trascinatore, oltretutto ha una notevole esperienza alpinistica. E’ reduce dalla ripetizione di una via sull’Ago Mingo, una cima posta sul fondo della Val di Genova, poco lontana dalla nostra meta. Il fatto di non aver trovato un chiodo in settecento metri di via e di aver visto un blocco di granito incamminarsi praticamente da solo dalla cengia pianeggiante dov’era e dirigersi amichevolmente verso la testa di Luca dieci metri più in basso non lo aveva reso meno entusiasta della possibilità arrampicatorie nella zona. Ma Matteo è così, testone e pieno di carica, sincero e sognatore.
Poi c’è Stefano, mio lontano cugino che allora conoscevo poco come alpinista, Lo vidi qualche tempo dopo salire trenta metri di fessura protetta da cunei di legno marci, il tutto sul sesto  senza tregua, oppure farsi in libera un bel tiro dato in artificiale sulla relazione, protetto da qualche dado e con ottime possibilità di arrivare a terra in caso di volo. Ovviamente settimo grado, con tanto di commento finale ”bel, ma pensevo fose pù dur”. Tutto questo confermò la mia impressione di essere stato un po’ fuori posto in quella compagnia. Ma il bello era quello, che andavamo in giro come amici e non per arrivare in cima. Forse il mio spirito di “arrampicatore godereccio” si sviluppò proprio allora, quando era più importante il sorriso dei compagni che la via salita.
Insomma tempo dopo ci troviamo a risalire un sentiero da infarto carichi di tutto quello che serviva per trattenersi in zona alcuni giorni, più il materiale alpinistico. Del resto le valli laterali della Val di Genova sono tutte così, piccoli paradisi protetti da rampe micidiali, inoltre in questo caso il sentiero è interrotto da una fascia rocciosa con una fessura da risalire che ci fa sudare ulteriormente.
Dopo qualche ora sbuchiamo nella parte alta della valle, completamente circondata da pareti e guglie rocciose, una più bella e selvaggia dell’altra. Il tempo di depositare gli zaini e un cupo rimbombo ci investe; da una guglia fortunatamente lontana si è staccata una notevole frana e alcuni blocchi grandi come automobili rimbalzano fino alla fine del canale sottostante, alzando nuvole di polvere. Stranamente non ne siamo impressionati. E’ come se il sentiero e la sensazione di stare sospesi su un balcone al di sopra della valle ci avesse silenziosamente introdotto in una dimensione diversa, dove i mutamenti anche violenti della natura ci paiono adeguati al luogo dove ci troviamo.
Dedichiamo il pomeriggio a sistemare la tenda su un piccolo spiazzo erboso e ad organizzare la cucina-soggiorno sotto un grosso masso spiovente poco lontano, riparo che si rivelerà molto più confortevole del previsto. Il resto del pomeriggio lo passiamo naso in su ad esplorare con il binocolo tutte le pareti che ci circondano. Alla fine i miei compagni, ben più bellicosi di me, individuano una possibile via di salita su una imponente torre senza nome che sovrasta il nostro minuscolo campo. Una certa inquietudine comincia a serpeggiare in qualche parte dei miei neuroni. La linea è stupenda ma si preannuncia molto dura. Una serie di rampe e diedri tutt’altro che banali si sviluppa per alcuni tiri e dovrebbe portarci alla base di una parete verticale solcata da una lunga fessura che, ammesso si faccia risalire, dovrebbe condurre nella parte terminale della torre. Il tutto avrà almeno 500 metri di sviluppo. Della discesa non ne abbiamo proprio idea, sappiamo che probabilmente  calandoci dalla parte opposta finiremo sul ghiacciaio della Presanella da dove le possibilità di ritornare in Val Gabbiolo sono decisamente impegnative. Decidiamo di partire il giorno dopo e cercare di risalire il più possibile, lasciando le soste attrezzate per le doppie.
La seconda immagine che associo a quei giorni è la luce della candela che si riflette sulle pareti del nostro masso-bivacco, con le ombre che disegnano nuove sensazioni su di esso, e noi tre che accovacciati stiamo lì a parlare e a pensare, come assorbiti da quella luce che ci portava in una dimensione a diversa da tutto quello che vivevamo di solito. Dei bivacchi che ho fatto di questo conservo forse il ricordo più tranquillo e sereno.
Accompagnati da quella luce andiamo a dormire nella nostra tenda mentre un silenzio altissimo ci avvolge.
Il giorno dopo siamo all’attacco della torre, saliamo alcuni salti di roccia e dopo un tiro facile attrezziamo la sosta su una cengia con 2 chiodi e un dado. Matteo parte verso destra per cercare di raggiungere una serie di fessure, ma dopo aver piazzato un paio di friend precari sul traverso non riesce a proseguire. Scopriamo che molte delle fessure che dal di sotto parevano ben proteggibili sono in realtà cieche. Matteo ritorna in sosta ed è visibilmente deluso, in effetti trovare già queste difficoltà nella prima parte, che oltretutto avevamo valutato facile, è una discreta bastonata! Stefano tenta allora di risalire diritto per una placca sopra di noi, In 15 metri non riesce a piazzare nemmeno una protezione e una caduta terminerebbe proprio sulla cengia della sosta. La tensione cresce ma tutti stiamo zitti, tanto c’è poco da dire, Finalmente Stefano raggiunge un diedro leggermente sulla destra rispetto alla verticale e lo imbottisce di friend salendo velocemente fino ad un terrazzino. Ci consultiamo a voce, la situazione non è delle migliori, con quella velocità ci vorranno ore solo per salire la prima parte della parete e la parte superiore probabilmente richiederà un lungo lavoro in artificiale. Decidiamo di scendere e tentare da qualche altra parte. Un paio di doppie ci depositano sul nevaio alla base e aumentano la delusione. Per la verità io ero gia soddisfatissimo di trovarmi lì, anche perchè avevamo altri due giorni a disposizione per divertirsi e inoltre non sono mai stato un tipo da imprese alpinistiche. La situazione si fa ancora più elettrica quando ci accorgiamo che per un mio clamoroso errore (di cui ancora mi vergogno) siamo piuttosto scarsi con il cibo per i prossimi giorni. In ogni caso il tempo di mangiare (poco) e riordinare il materiale che siamo alla base di una torre vicina alla precedente. In questo caso la parete è più appoggiata e soprattutto solcata per alcuni tiri da una fessura che pare più invitante di tutte quelle che avevamo incontrato quel giorno. L’attacco è protetto da un nevaio a 45° che mi trovo a risalire in scarpe da ginnastica con suola liscia e movimenti alla Gatto Silvestro in difficoltà, il tutto concluso da una bel salto tra l’orlo della neve e la parete rocciosa, piacevolmente divisi tra loro da un bel buco di cui non si vede il fondo. Attrezziamo la prima sosta in quella specie di crepaccio e cominciamo a battere i denti dal freddo, tanto che Matteo decide di spostare il tutto qualche metro sopra, al sole. Io per non aggrovigliare le corde rimango in ibernazione attaccato a un friend che guardo con sospetto. Sono ormai un po’ troppo abituato agli spit per sentirmi a mio agio appeso ad un friend n°1, comunque ho osservato che in genere dopo qualche tiro riesco a fidarmi di più di quei costosi aggeggi. Finalmente viene il mio turno risalgo una fessura magnifica fermandomi di tanto in tanto a togliere i chiodi. Siamo arrivati su una gran terrazza sovrastata da una scala rovescia di lastre granitiche. Vedendo che la scala stessa porta alla fessura vista dal basso propongo animoso di risalire quei 20 m. in artificiale ma i miei amici, dubitando della solidità della “scala”, optano per un traverso che conduce alla spalla della torre. Un po’ mi dispiace deviare ma riconosco che quella soluzione ci farà risparmiare molto tempo. Finalmente abbiamo trovato la linea giusta da salire ma ormai è tardi e decidiamo di scendere lasciando alcuni chiodi per velocizzare le operazioni del giorno dopo. Per uscire dalla parete percorriamo una piccola cengia che si restringe fino a divenire un minuscolo gradino, devo dire che la bellezza e la solidità della roccia mi fanno dimenticare la strizza e la notevole avversione che ,da buon secondo, nutro nei confronti dei traversi. 

Gocce, gocce che si rincorrono, si uniscono, si trasformano in fili lucenti, si intrecciano e indugiano per un attimo senza comprensibile motivo, che scendono con ritmo diseguale verso il basso. Tempo dopo vidi un filmato di computer-art prodotto da un artista giapponese, erano forme di vita immaginaria che si intrecciavano e allungavano all’infinito in collane simili ad alghe fluttuanti, eppure tutto quello non riusciva a raggiungere la perfezione estetica delle gocce di pioggia sul telo della nostra tenda, piccoli organismi lucenti organizzati in fili casuali. 

Non vi fu nessuna salita il giorno dopo, 48 ore di pioggia continua terminarono la nostra attività alpinistica e ci lasciarono molto tempo per parlare tra di noi sotto il masso del bivacco o nella tenda. 
Eppure non rimpiansi un minuto di quella pioggia e di quel mare di nubi.
Cos’è  rimasto della nostra avventura? Cinque tiri saliti.
Un fallimento?
Può darsi, eppure mi è rimasto altro, il tempo vissuto con i miei amici, la luce di una candela, gocce che si rincorrono, un mare di nubi da guardare, ed essere felice.

Roberto Avanzini

 

P.s.  chi volesse vedere un quadro interessante:
Caspar David Friedrich.
”Monaco in riva al mare.”
1810 Berlino Nationalgalerie
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