Montagna.tv 16/11/2023 - Articolo di Melania Lunazzi
Celso Gilberti, straordinario alpinista friulano
Il 18 novembre un convegno a Udine ricorda lo scalatore scomparso nel 1933,
a 22 anni,
dopo aver tracciato grandi vie sulle Alpi Giulie e sulle Dolomiti
“Ad un tratto un rumore di sassi precipiti,
di terra franante, ombre fulminee fuor della nicchia e proiettate in basso:
sintomi delle gravi e irreparabili “volate” dalla roccia. “Sassi!” rilevava
Pisoni”. È l’11 giugno del 1933 e così il quotidiano “Il Brennero” documenta
l’istante in cui l’alpinista friulano Celso Gilberti perde la vita assieme
al compagno di cordata Ernesto Pedrini, sull’ultimo tiro della diretta alla
Paganella, via aperta un anno prima da Bruno Detassis con tre compagni.
Celso ha ventidue anni, sta per laurearsi al Politecnico di Milano come
ingegnere civile.
Assieme a Giusto Gervasutti e Raffaele Carlesso, quasi coetanei, è una delle
promesse dell’alpinismo friulano.
Si è già distinto, nonostante la giovane età, nell’apertura di quaranta
nuove vie in montagna, anche di sesto grado, e in numerose ripetizioni tra
le Dolomiti e le Alpi Occidentali. La sua scomparsa è una tragedia per il
mondo alpinistico friulano e per il CAI nazionale. Nato a Rovereto il 28
novembre 1910, Celso è il secondogenito di Ettore Gilberti, architetto
udinese di talento trasferitosi per lavoro in Trentino. Tra le Dolomiti
trentine comincia a frequentare le cime, anche grazie alla passione per la
montagna del padre. A dieci anni sale sulla Torre Winkler, una delle tre del
Vajolet, insieme ad altri giovani.
Ma è nella terra paterna, tra le Alpi Giulie e Carniche, che il suo talento
fiorisce a partire dal 1922, dopo il rientro in Friuli della famiglia. Le
sue capacità nella scalata emergono durante i campeggi estivi organizzati
dalla Società Alpina Friulana. Nel 1927 Celso inizia ad aprire nuovi
itinerari.
Nell’estate di quell’anno apre due vie nel Gruppo del Popera, una nelle
Dolomiti Pesarine e una sulla Sfinge della Creta Grauzaria. Le ultime sono
ancora oggi due classiche del terzo grado. Suoi compagni di cordata sono
Giovanni Granzotto, Oscar Soravito e l’avvocato Riccardo Spinotti, mentore
di tanti giovani scalatori.
È proprio con Spinotti – di cui Dante Spinotti direttore della fotografia e
premio Oscar, è pronipote – che il 1 luglio 1928 Celso affronta una grande
prova di forza, resistenza, determinazione e carattere in parete. Durante un
tentativo di salita alla parete Nord della Cima di Riofreddo nel Gruppo del
Jôf Fuart, la cordata viene colpita da un violento temporale e da altri
incidenti che portano Spinotti a morire di stenti.
Racconta quella ritirata uno scritto di Emilio Comici, che completa la via
un mese dopo con Giordano Bruno Fabjan, e che riconosce la grandezza di
Gilberti in una lettera a Severino Casara. “Il vero cavaliere della
montagna, veramente il più puro e il più modesto che io abbia conosciuto.
Arrampicatore formidabile, fra i migliori e chissà, forse il migliore, di
lui non si sapeva mai quello che faceva, non scriveva mai niente, e dopo
aver compiuto una salita non diceva mai se era di quinto o di sesto grado, e
ne aveva fatte tante!”.
Comici, che aveva raccolto a Valbruna da Julius Kugy i dettagli di quella
disavventura, scrive: “…si scatenò un violento temporale che fece
trasformare il camino in un letto di torrente impetuoso. Dovettero sostare
sotto un masso non solo per non farsi travolgere dall’acqua, ma anche per
ripararsi dalle scariche di sassi che precipitavano dalla soprastante Cengia
degli Dei”. Cessato il maltempo, sempre sotto l’acqua, uscirono dal camino
ed entrarono nel grande vano nero. Ma qui il temporale nuovamente li colse,
accompagnato da grandine e nevischio”.
“Calmatasi la bufera, solo verso le ore 18, essi tentarono ancora di
proseguire e di raggiungere la Cengia degli Dei, ma, superato un tratto di
parete, l’avvocato Spinotti dichiarò di essere nell’assoluta impossibilità
di proseguire, mentre Gilberti, più in alto, si affannava alla ricerca
della strada e già scorgeva ad un centinaio di metri sopra di lui,
l’agognata Cengia degli Dei, cioè la salvezza”.
“Ad un tratto una scarica di sassi si abbattè loro vicina, tagliando
nettamente in tre parti la corda che li teneva uniti: gli alpinisti poterono
salvarsi per miracolo addossandosi alla parete. Vista l’impossibilità di
proseguire, decisero di tentare la discesa, anche di notte, per il timore
che il gelo coprisse la roccia di vetrato.
Un bivacco nelle pietose condizioni in cui si trovavano, sarebbe stato
certamente fatale per entrambi.
Così, unirono le corde e incominciarono a calarsi giù per il camino, col
sistema della corda doppia”.
“Dopo inenarrabili fatiche e patimenti, giunsero a tarda notte sulla cengia
che attraversa la parete ad un terzo dalla base, e qui, esausti di forze,
decisero di aspettare il giorno. Alle prime luci ricominciarono la discesa
giungendo finalmente al nevaio di attacco… l’immane fatica fu fatale al
povero Spinotti che, alla base della parete, si accasciò per mai più
risollevarsi.”
Gilberti si riprende dalla tragedia, e nel 1930 dedica a Spinotti un
torrione nel Gruppo del Cridola (Dolomiti Friulane). Nel settembre del 1928
con Granzotto scala gli 800 metri della parete nord del Jôf di Montasio,
l’anno seguente apre un altro itinerario sulla stessa montagna con
difficoltà di quarto e quinto grado e con Soravito scala la severa parete
Nord del Zuc dal Bôr, nelle Carniche Orientali. Vie con pochissime
ripetizioni per i pericoli oggettivi e il terreno infido.
Nel giugno del 1930 Gilberti, che ha iniziato i suoi studi universitari a
Milano, è nelle Prealpi Bergamasche con Ettore Castiglioni e altri
alpinisti. Ne nasce una profonda amicizia, sportiva e di affinità elettive,
documentata a più riprese negli scritti di Castiglioni che descrive Celso
come il compagno di cordata ideale.
“Le nostre anime vibravano all’unisono” ricorderà Castiglioni dopo aver
salito con Celso la parete ovest della Busazza, impresa non riuscita a
Rudatis e Videsott. “Solo così, attraverso un’illimitata fiducia reciproca e
un fortissimo senso di solidarietà, si costituisce l’affiatamento della
cordata, quella fusione delle volontà, quella comunione di intenti e di
ideali, che sono la condizione indispensabile per la buona riuscita, in cui
la continuità della tensione richiede calma, fermezza e spirito
elevatissimo”.
Nel 1931 e nel 1932 i due compiono diverse salite insieme sia su roccia, sia
con gli sci e sarà uno shock per Castiglioni la scomparsa dell’amico, a cui
dedicherà il Torrione Gilberti nelle Dolomiti di Brenta, scalato assieme a
Bruno Detassis.
Tornano insieme nella Presolana e risolvono “l’ultimo grande problema ancora
insoluto sul versante nord” assieme a Vitale Bramani, salendo quella parete
in sole sette ore e “coronando così il sogno lungamente accarezzato dai
migliori scalatori lombardi”. Poi compiono quattro nuove salite nel Gruppo
del Cridola e dei Monfalconi e, nel gruppo del Pomagagnon, aprono una
variante alla via Jori di Cima Fiames.
L’anno successivo, sempre insieme, realizzano tra giugno e agosto una
preziosa triade sugli appicchi settentrionali del Mangart, tra la Veunza e
il Piccolo Mangart di Coritenza, su pareti repulsive, con difficoltà di
quinto e sesto grado e con dislivelli tra i 600 e i 900 metri. In agosto,
dopo aver scalato la Solleder alla parete Nord Ovest della Civetta, compiono
la prima salita alla Busazza, con un bivacco a settanta metri dalla fine.
“(Celso) giudicò la direttissima alla Busazza ancora più faticosa ed aspra
della via Solleder per il continuo susseguirsi, nel tratto superiore, di
difficoltà estreme, senza punti di sosta” scrive l’industriale e alpinista
Giovanni Battista Spezzotti. Nel 1932, come istruttore al corso di alpinismo
che si teneva al Rifugio De Gasperi nelle Dolomiti Pesarine, in soli otto
giorni apre sette nuove vie per gli allievi.
Ma la salita che mantiene il nome di Celso Gilberti ancora vivo tra gli
alpinisti di oggi è lo spigolo Nord del Monte Agner, aperto in undici ore di
scalata, senza bivacco, assieme a Oscar Soravito. E’ la più importante
scalata dolomitica del 1932.
In quell’anno c’è anche un’ultima realizzazione della cordata
Gilberti-Soravito, quella tracciata nel caratteristico camino sulla parete
Est del Bila Pec, nel gruppo del Canin (Alpi Giulie), di fronte alla conca
che ospita il rifugio a lui intitolato nel 1934, e diventato nel 2002
rifugio Gilberti-Soravito.
Di questa via ha un originale ricordo Roberto Mazzilis, che la ha scalata in
solitaria nel 1981, valutandola di settimo grado. “Il camino è larghissimo e
perfettamente liscio, non sai a che profondità scalare, ci sono un paio di
chiodi appena puntati che sporgono nel vuoto per quasi tutta la loro
lunghezza. È un camino bagnato e viscido. Mentre lo salivo ripensavo ridendo
alle parole di Ernesto Lomasti che mi aveva detto, a sua volta ridendo: “Se
hai qualcuno che ti sta sulle scatole mandalo a ripetere la Gilberti al Bila
Pec”.
Di Celso Gilberti ci rimangono un vibrante ritratto fotografico e due
significativi ritratti dipinti, postumi, che riprendono quella fotografia.
Uno è opera del pittore friulano di montagne Napoleone Pellis che coglie con
intensità la sua espressione carica di energia sensibile e quell’integrità
morale degna di ammirazione che tutte le fonti ricordano. “Il volto
bellissimo rispecchiava la nobile bontà dell’animo. Quegli occhi luminosi,
quel sorriso, in cui sembravano fuse l’ingenuità della fanciullezza e la
forza delle virilità, avvincevano subito la più calda simpatia”.
Sabato 18 novembre a Udine si terrà il 112° convegno annuale della Società
Alpina Friulana, dedicato a Celso Gilberti. Per l’occasione lo studioso
Umberto Sello ricorderà la sua figura, mentre la ricercatrice Diana
Barillari traccerà un profilo di Ettore Gilberti, il padre architetto. Verrà
inaugurata un’area verde intitolata a Celso Gilberti da parte del Comune di
Udine. Un altro tassello per continuare a portare avanti il suo nome così
“caro agli Dei”.