NOTIZIE. 21/10/2020 - Space Vertigo alle Tre Cime di Lavaredo: l'ultima frontiera dell'alpinismo estremo

“SPACE VERTIGO” L’ULTIMA FRONTIERA DELL’ALPINISMO ESTREMO    (di Eugenio Cipriani)
Risale a qualche giorno fa, ad opera del veronese Nicola Tondini assieme al padovano Alessandro Baù e al mantovano Claudio Migliorini, la prima ripetizione in libera della loro via, forse la più difficile delle Dolomiti, sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo.

La montagna ideale è per definizione il Cervino: un triangolo isoscele con l’angolo acuto che punta dritto al cielo. E’ l’archetipo della verticalità alpestre, almeno nell’inconscio dell’uomo europeo medio. A fargli concorrenza, non in altitudine ma in ripidità, seguono a ruota le Tre Cime di Lavaredo (che poi, in realtà, sono ben più di tre) l’icona più sfruttata delle Dolomiti e, da qualche anno, grazie ad una gestione scellerata del flusso turistico, trasformate in pandemonio, più che patrimonio, dell’umanità.

La Grande guerra fu una pagina tristissima per la “fantastica trinità”, come definì queste cime Antonio Berti, padre spirituale dell’alpinismo veneto. Dal 1915 al 1917 le Tre Cime, o Drei Zinnen come le chiamano al di là della vetta, furono infatti teatro di sforzi logistici titanici (sulla Cima Grande gli Alpini issarono un proiettore per illuminare nottetempo le linee nemiche, ma non durò a lungo) e di scontri cruenti durante i quali, fra i tanti, perse la vita quel Sepp Innerkofler di Sesto Pusteria che pochi decenni prima era riuscito ad avere la meglio sulla più “cattiva” della triade, la Cima Piccola, elegante obelisco di dolomia giudicato inaccessibile a meno di non essere capaci di volare. Ma l’impossibile ha vita breve quando l’uomo ci si mette d’impegno. E così, persino i repulsivi appicchi settentrionali della Cima Grande e della Cima Ovest vennero scalati: dapprima seguendo le linee di minor resistenza, poi per vie sempre più dirette e tecnologiche lungo i settori più strapiombanti che, soprattutto sulla Cima Ovest, aggettano per oltre quaranta metri come una scala rovescia fatta di soffitti venati da esili fessure e muri bianchi friabili o levigati come specchi. Nonostante ciò, dagli anni Cinquanta ad oggi il numero di percorsi è aumentato sino a disegnare una vera e propria ragnatela nella quale non è facile districarsi.


Scovare un itinerario nuovo in tale dedalo era di per sé un’impresa, tanto più se con “regole d’ingaggio” precise e rigorose: niente buchi nella roccia se non per gli ancoraggi di sosta (e di pernottamento!) e arrampicata libera spinta al massimo con il solo uso di chiodi e delle cosiddette protezioni veloci e amovibili quali dadi, friends, etc. Il tutto, ovviamente, senza toccare vie preesistenti.
Quale scopo poteva avere una simile sfida su una parete dove sembrava fosse stato già scalato ogni metro scalabile?
La risposta di Nicola Tondini, guida alpina veronese di fama internazionale e autore delle più difficili vie aperte negli ultimi anni sulle Dolomiti, è semplice: “Le regole del gioco che io e i miei compagni avevamo stabilito rendevano la salita tutt’altro che scontata perché le possibilità di proteggersi, una volta deciso di non usare il trapano, potevano esaurirsi all’improvviso, magari anche al seicentoquarantanovesimo metro dei seicentocinquanta che compongono l’intero percorso. E se non fossimo stati in grado di superare quell’unico metro, il patto siglato fra noi ci avrebbe imposto di rinunciare.” Una sfida sportiva, dunque, quella di Tondini, una ricerca del possibile nell’apparentemente impossibile alla conquista di un microcosmo, cioè dell’appiglio o dell’appoggio millimetrici, nel macrocosmo di una parete smisurata e di scoraggiante repulsività. Un primo tentativo viene sferrato nel settembre del 2016 da Tondini assieme al padovano Alessandro Baù, altro straordinario apritore, e a Claudio Migliorini, guida alpina mantovana ma, per la sua assidua presenza sulle pareti della bassa Val d’Adige, “scaligero” d’adozione. I tre si arrestano davanti a un muro bianco e liscio come un muro intonacato.
Non sapevamo cosa pensare – ricorda Tondini- perché la linea da noi ipotizzata ci entusiasmava ma spaventava al tempo stesso”.
Altre realizzazioni impegnano poi la guida veronese che l’anno successivo diserta la Ovest. Ma la voglia di osare maggiormente per venire a capo di quel muro bianco non gli dà pace e, nell’estate 2018, in quattro giorni, distribuiti in un paio di mesi, i tre non solo superano il famigerato muro bianco, ma riescono a percorrere sette tiri di corda strapiombanti dai quali fanno ritorno grazie all’uso di corde fisse. La vetta però è ancora lontana e solo l’anno successivo i tre, dormendo nel vuoto in apposite tende dette portaledge, hanno infine ragione di tutta la parete, ovviamente senza mai aver forato la roccia per progredire.

La via, chiamata non a caso “Space vertigo”, è dunque ormai realizzata ma la storia non è finita: occorre ripeterla superando tutti i passaggi in arrampicata libera senza mai appendersi ai chiodi o alle protezioni mobili per riposarsi.
In altre parole, occorre salirla “rotpunkt”, come si dice in gergo.
Arriviamo così al nove settembre scorso quando i tre attaccano di nuovo la via e, alternandosi al comando, in quattro giorni (e tre notti) sospesi nel vuoto, a suon di voli e tentativi resi estremi dall’umidità della roccia, riescono a “liberare” la via superando difficoltà fino al X- aggiungendo un altro fantastico e pazzesco tassello a quella fantastica e pazzesca vicenda umana che si chiama storia dell’alpinismo dolomitico.