Incontro con Alessandro Masucci
di Gabriele Villa
Rimane il fatto che la motivazione del riconoscimento
era molto chiara sulle ragioni per le quali il premio gli veniva
meritatamente attribuito: "Alpinista che, in tre decenni di attività
severa ed eticamente impeccabile, ha scritto il suo nome sul Pelmo e su
tutte le crode della Val di Zoldo, allora poco conosciute e ancor meno
percorse, individuando con occhio sapiente e concretizzando con tenace
passione ben 140 nuove linee di salita".
Nonostante le limitazioni fisiche conseguenti alla malattia non aveva certo
voluto mancare alla cerimonia nel palazzetto di San Tomaso Agordino anche se
si trovava su di una carrozzina a rotelle e accompagnato.
Allo stesso modo aveva voluto caparbiamente lasciare la
carrozzina e salire faticosamente sul palco, poi seduto su una seggiola
aveva pazientemente letto il suo intervento di ringraziamento per
l'onorificenza ottenuta, ricordando tutti i suoi compagni di scalate e di
vita con parole affettuose e riconoscenti e in particolare il fraterno amico
Giuliano De Marchi, morto a seguito di un incidente durante un'uscita
scialpinistica all'Antelao.
Si
era visibilmente affaticato nella lettura, ma aveva voluto caparbiamente
andare avanti e io ho pensato che la sua fosse soprattutto una forma di
rispetto verso il pubblico e anche per i compagni di scalate che aveva
citato. Secondo me quel giorno di fine luglio 2023 Alessandro Masucci ha
dato, senza dire parole, una dimostrazione di correttezza e di stile, di
forza d'animo, e credo che il pubblico presente lo abbia abbracciato
idealmente.
Personalmente l'ho ammirato e mi sono emozionato, anche ricordando un
incontro con lui di sei anni prima, a Mel di Belluno, sempre in occasione di
un'altra premiazione del Pelmo d'Oro, al termine della quale io e l'amico
Sandro lo avvicinammo e potemmo chiacchierare con lui molto piacevolmente.
Ebbe modo di confidarci le difficoltà che incontrava nella lettura e nella
scrittura a causa delle conseguenze causate dalla malattia, difficoltà e
limitazioni che gli impedivano in parte di dedicarsi alle sue attività come
avrebbe voluto, senza dimenticare però di ribadire la caparbietà con la
quale reagiva a questi condizionamenti.
Quello stesso giorno, durante le altre premiazioni, il mio
amico Flavio (per gli amici Bubu) aveva trovato il modo di avvicinarlo e di
chiedergli disponibilità ad un incontro per una chiacchierata sulla montagna
e anche in riguardo alla palestra di arrampicata di Santa Felicita nella
quale Masucci si recava da giovane ad esercitarsi nell'arrampicata. Stava
maturando l'idea di "indagare" su quegli anni a metà del novecento e di
farlo attraverso le testimonianze dirette degli alpinisti di allora ancora
in gamba e di buona memoria.
Alessandro Masucci non si era tirato indietro e, nel
pomeriggio di quello stesso giorno, l'amico Bubu mi aveva coinvolto in quell'abbozzo di
progetto che avevo accolto con curiosità ed interesse.
Chi avrebbe potuto immaginare che dopo poco più di tre mesi la morte sarebbe
venuta a prendere Masucci?
Conservo ancora i ritagli delle notizie apparse sul Corriere delle Alpi
verso la fine del mese di novembre...
In quello stesso articolo (Corriere delle Alpi del 23 novembre 2023) c'era una interessante biografia di Alessandro Masucci, che ricopiamo volentieri qui sotto.
Un uomo che amava intensamente la montagna. È morto a
ottant'anni Alessandro Masucci, nato in Val di Zoldo dove la madre, originaria
della vallata, si era rifugiata durante i bombardamenti nel Veneziano.
Quella nascita, quasi per caso, in mezzo alle Dolomiti fu fondamentale nella
vita di Masucci, perché il fascino dei Monti Pallidi lo ha coinvolto fin da
quando era giovanissimo. Masucci, che nella vita ha fatto il veterinario
fino a diventare responsabile del servizio dell’Ulss, ha cominciato a
frequentare le Dolomiti e la Val di Zoldo da ragazzo: qui passava le vacanze
estive, dopo che la famiglia nel dopoguerra era tornata a vivere a Venezia.
«Mia madre, - amava raccontare agli amici - mi aveva accompagnato
da ragazzino su per la Mont dai Coi fin sotto il Pelmo. Giunti alle ultime
ghiaie, aveva assecondato il mio desiderio di spingermi ancora più su, per
poter toccare con mano le prime rocce. Conservo ancora la foto che mi scattò
in quel giorno indimenticabile. Toccata per la prima volta la roccia del
Pelmo, non l’ho più lasciata».
A tredici anni sale di nascosto la Normale, mentre nei mesi che trascorre a
Venezia inizia a frequentare la biblioteca del CAI, divorando i libri di
Gervasutti, Mummery, Casara, per documentarsi il più possibile.
La sua attività alpinistica inizia con diverse ripetizioni sulle Dolomiti,
poi a diciannove anni apre la sua prima via, con Paolo Micconi, ben mille
metri sulla Nord del Pelmetto: difficoltà V superiore con due passaggi di VI.
Moltissime le scalate con Giuliano De Marchi, 300 vie tra ripetizioni e
nuovi itinerari: un lungo sodalizio quello tra i due alpinisti che inizia
nel 1966. Ma le vie salite da Masucci sono tantissime, 922.
Le nuove vie sono 140, tra Pelmo, Pelmetto, Civetta, Bosconero, San
Sebastiano, Croda da Lago, solo per citare alcuni dei gruppi dolomitici che
Masucci conosce benissimo, croda per croda.
Nel 1980 partecipa alla spedizione all’Everest con Franco Santon. Nel 1985
diventa Accademico del Cai.
Fu costretto a interrompere la sua carriera alpinistica a soli
cinquantacinque anni per una malattia, ma la sua passione per la montagna
non venne meno, attraverso ad esempio gli scritti, gli articoli su Alpi
Venete e altre riviste: faceva parte, infatti, del gruppo scrittori di
montagna.
Queste che riportiamo sono invece le parole con cui il presidente della Provincia, Roberto Padrin, lo
ha ricordato.
«La montagna bellunese e il mondo dell’alpinismo da oggi sono un po’ più
soli. In cordata perdere un valido alpinista significa dover ricalibrare le
forze, oltre che piangere la scomparsa di un compagno di avventura.
Ricordo ancora la commozione con cui aveva ritirato il Pelmo d’Oro, mista a
una umiltà che solo i grandi personaggi hanno. Nella cerimonia ho avuto modo
di definire gli alpinisti come eroi silenziosi della montagna: Alessandro
Masucci era proprio questo».
Pensieri che avevamo sentito in presenza a San Tomaso e che ci erano
piaciuti anche se personalmente credo che ad Alessandro Masucci la
definizione di "eroe", per quanto silenzioso, possa essere apparsa un po'
ridondante, forse una semplificazione, per racchiudere in una sola parola
tante qualità, come la modestia, la dedizione alla sua montagna di cui è
stato interprete appassionato ma anche meticoloso, rigoroso e rispettoso
nell'etica espressa dalla sua attività arrampicatoria di ben trent'anni.
Assieme all'amico Flavio "Bubu" ci siamo rammaricati di essere rimasti
orfani, avendo perso quella che nelle nostre intenzioni avrebbe dovuto
essere la principale "fonte dei ricordi" alla quale attingere preziose
notizie sul passato dello stesso Masucci e dei primi passi da alpinista
legati alla Valle bassanese di Santa Felicita.
Una insperata consolazione è arrivata poco più di tre mesi dopo nel leggere
una "Prefazione" di una guida di arrampicata appena edita dal Gruppo
Arrampicatori "GRANSI" di Venezia, regalatami dall'amico Mauro Moretto,
alpinista Accademico del Club Alpino Italiano: era firmata da Alessandro
Masucci.
In quella prefazione c'erano le notizie "storiche" che avremmo voluto
"indagare", e un accenno, molto misurato ma fermo, sull'approccio etico
dell'alpinismo di Masucci. Un piacere leggerla.
Prefazione alla guida "Pala dei Veneziani, a cura del Gruppo Rocciatori
GRANSI del C.A.I. sezione di Venezia.
Santa
Felicita è stata per me e parecchi altri veneziani, sinonimo di “Palestra di
roccia” fin dai tempi dell’adolescenza. Ho frequentato infatti, per due anni
consecutivi in veste di allievo (1958 e 1959) la Scuola di Alpinismo Sergio
Nen che ancora a questi tempi gli arrampicatori lagunari (i Gransi)
organizzano e mandano avanti in seno al C.A.I. con
passione e tenacia, servendosi di quella palestra. Più avanti nel tempo,
cioè nei primi anni ’60 del secolo scorso, ho anche dato una mano alla
scuola nel ruolo di istruttore sezionale. Per la parte pratica della scuola
si partiva la domenica da Venezia con il treno delle sei: destinazione
Bassano del Grappa, da cui si arrivava a piedi a Santa Felicita. Dopo un
vasto tratto ghiaioso, la valle si restringe e diventa presto una gola
rocciosa, mettendo in mostra due ripide falesie, alte una quarantina di
metri: pare che siano state attrezzate a palestra ed usate già in un lontano
passato per l’addestramento di personale militare. Ai nostri tempi le vie
erano state indicate con dei numeri, disegnati sulla roccia, ormai già quasi
scomparsi: a sinistra (destra idrografica) la 7, la 9, la “traversata del
Cristo” e più avanti il “paretone”; a destra (sinistra idrografica) i due
diedri (quello giallo e quello grigio), la “via dell’alberello”, infine le
“traversate” (bassa e alta), etc. Per allenamento e per molte primavere
ripetemmo fino alla noia questi percorsi, dei quali conoscevamo ormai ogni
appiglio ed ogni asperità. Cercavamo qualcosa di nuovo, senza accorgerci che
era lì da sempre una bella parete di ragguardevoli dimensioni, incastonata
sul fianco meridionale del Grappa, qualche centinaio di metri sopra il
fondovalle, sotto e vicina alla strada che conduce all’ossario. Lassù e poco
distante sono le case di Campo Solagna. In uno dei primi giorni dell’inverno
1964/65, uscendo dalla palestra a pomeriggio inoltrato, la guardai con gli
occhi dell’arrampicatore che va in cerca di vie nuove e cominciai a
studiarla con grande curiosità. Patimmo allora in tre: mi accompagnavano Ugo
Pomarici e Danilo Pianetti, due ragazzi come me in quel momento, che
sarebbero cresciuti a figure di riferimento per la storia del C.A.I.
veneziano, anche per i loro importanti contributi culturali. Salimmo per la
costa ingombra di vegetazione, sfruttando per brevi tratti i resti di un
sentiero che doveva avere avuto una certa importanza in un tempo non tanto
lontano, e ci trovammo dapprima alla base di una formazione turrita che
subito decidemmo di scalare. Da quella cima potemmo meglio scrutare
l’antistante parete, quella cioè che era nelle nostre mire. Sembrava molto
difficile. Ci accontentammo di essere saliti sopra al torrione e lo
battezzammo “Pilastro Solagna”. Finalmente con gli stessi compagni Ugo e
Danilo, il 20 febbraio 1965 ho scalato lo spigolo Ovest della parete, cui
abbiamo dato il nome di “Pala dei Veneziani”. La “Via Centrale”, quella che
da tempo sognavamo di poter aprire, ci pareva quasi impossibile. La presenza di
un grande tetto sporgente a metà altezza sembrava dire “di qua non si
passa”. Mi accontentavo intanto di ripetere la via dello spigolo sulla quale
quell’anno tornai forse un paio di volte con compagni diversi. Il 13
novembre del successivo anno 1966 con Ugo Pomarici e L. Tiozzo (quest’ultimo
era un allievo della scuola di roccia), trovai il coraggio di salirla proprio
al centro, sulla verticale del tetto, raggiungendolo per un tratto di roccia
strapiombante e svicolando, infine, intorno al suo angolo. Da lì ci portammo
più facilmente sulla cima. Tra la fine di quell’anno
e tutto il seguente
1967 ho ripetuto la “Via Centrale” forse 7/8 volte. Franco Pianon mi ha
appena ricordato di averne fatto con me la prima ripetizione. Mi sono poi
dovuto trasferire a Milano e non sono mai più ritornato sulla Pala dei
Veneziani. Quando penso alle nostre due vie aperte 58 e 57 anni fa, ricordo
soprattutto che sono bellissime. La prima sullo spigolo segue per un paio di
lunghezze una difficile grande placca di solida roccia grigia, dove la forza
non serve ma vale di più il senso dell’equilibrio. La “Via Centrale” è stata
tutta un’altra cosa rispetto alla via dello spigolo perché ci obbligò
all’uso dei chiodi per la progressione sul difficile tratto sotto il tetto.
Era appena stata introdotta la scala per le difficoltà cosiddette
“artificiali” che cominciava con la sigla A1. L’A0 è stato aggiunto circa
dieci anni dopo, ed io posso dire che siamo andati proprio in questo modo,
cioè a trazione sui chiodi e sulla corda, perché non mi
pare di avere usato
la staffa che pure ognuno di noi portava infilata intorno al collo. Se
qualcuno oggi viene a chiedermi informazioni, rispondo che la via dello
spigolo era un 5° grado e la seconda un 6° grado, perché così si valutavano
allora e così io le ricordo. Da quel 13 novembre del 1966 a tutt’oggi ne
sono state aperte almeno una decina e su quelle degli ultimi anni sono stati
usati chiodi ad espansione, pertanto anche lassù è arrivato il ronzio del
trapano elettrico. I miei amici
sapevano e sanno quale sia il mio giudizio sull’uso dei chiodi che
comportano la foratura artificiale della roccia. Per la Pala dei Veneziani
(formata da calcari giurassici bianchi e da aristocratici strati
dolomitici) ci sarebbe voluto forse un maggiore rispetto, anche perché fa
parte del Grappa, il monte “Sacro alla Patria”. Ho la responsabilità di
collaborare con la prefazione, alla diffusione di questa guida, che l’amico
Stefano Polato e Pierpaolo Tosatto hanno redatto con competenza, precisione
e completezza; non aggiungerò altro pertanto una sola parola che possa
esprimere il mio pensiero su questo scottante argomento che ha alimentato
polemiche per almeno cinquant’anni.
Nello stendere queste note il
ventaglio dei ricordi si è alquanto ingrandito e ho rivisto i volti dei miei
amici e compagni di cordata. Ugo e Danilo, Enrico Ferrazzuto, Andrea Segalin
e Giuliano De Marchi (questi ultimi due caduti in montagna, vittime della
loro passione). La testa china sul foglio, sono preso dalla commozione, ma
non provo dolore, perché son dolci le lacrime della nostalgia.
Alessandro Masucci -Gruppo Rocciatori
“GRANSI” C.A.I. Venezia -Club Alpino Accademico Italiano -
Anno 2023
Un grande dispiacere la sua morte e la tristezza di avere perso l'occasione
di potergli parlare come avevamo sperato di poter fare.
Gabriele Villa
Incontro con Alessandro Masucci
Ferrara, marzo 2024