Intervista a Giacomo Albiero

a cura di Eugenio Cipriani


E’ una fortuna che chi ha redatto la recente riforma del lavoro e dell’età pensionabile non fosse un frequentatore del mondo alpinistico vicentino. Altrimenti prima degli 85 anni la pensione ce la saremmo potuta scordare tutti. Perché? Semplice: se guardiamo lo standard medio degli Accademici (ma più in genere degli alpinisti) vicentini over 70, troviamo solo gente attiva, vivace e con tanta voglia di vivere e di fare.
Di Radin abbiamo già parlato, di altri protagonisti contiamo di farlo a breve.
Questa volta è di scena Giacomo Albiero, classe 1925, un curriculum infinito ed un’attività alpinistica interrotta solo da pochi anni. Compagno di Dolcetta, Campi, Perlotto e tanti altri, Albiero ha soprattutto legato il proprio nome, come il suo amico Radin, a quello dell’alpinista vicentino più leggendario ed innovativo della seconda metà del Novecento: Renato Casarotto.
E pure nel caso di Albiero, come per Radin, dietro al binomio spunta la cifra VII, ovviamente riferita alla scala delle difficoltà UIAA. Al di là dell’alpinismo, la storia di Albiero è storia di fatica e di lavoro duro, di rischi mortali e di colpi di fortuna. E di un grande amore: quello per la montagna.
Il pericolo maggiore Albiero lo corre negli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale quando, rifiutatosi di aderire alla Repubblica Sociale, si ritrova nel bel mezzo di una retata sulle colline di Montecchio, suo paese natale.
I colpi di fucile che i repubblichini gli sparano addosso, subito dopo aver ucciso il suo compagno, vengono deviati dal ferro della mitragliatrice che porta sulle spalle.
Un balzo al di là del crinale, una disperata corsa a zig zag ed un provvidenziale boschetto consentono a Giacomo di salvarsi.
Dopo la guerra la ricerca di un lavoro lo spinge in Belgio, in miniera, vicino alla famigerata Marcinelle.
Un mestiere da incubo, ma lui sopporta stoicamente.
Nel frattempo si consola sposandosi, come si faceva a quei tempi, “per procura”.
La lontananza da casa però si fa sentire ed alla prima occasione torna a Montecchio.
Gliela offre suo padre, che decide di vendere un pezzo di terreno ad un industriale del ferro includendo nel prezzo di vendita anche l’assunzione del figlio in fonderia.
Giacomo torna quindi a Montecchio ma in fonderia non lavorerà mai.
Il motivo?
A quei tempi – racconta Giacomo – chi assumeva chiedeva le referenze non al diretto interessato, ma al parroco. Se andavi bene al parroco, quindi se eri devoto e praticante, ottenevi il posto. Altrimenti no. Come è successo a me, che non solo non frequentavo la parrocchia e non andavo a messa ma, in qualità di ex partigiano, ero pure in odore di eresia”.
Altri tempi, per fortuna, e situazione impensabile ai nostri giorni. Ma Albiero ci si è trovato in mezzo e così ha dovuto rimboccarsi le maniche un’altra volta ed inventarsi un modo per campare.
Con i soldi guadagnati in Belgio, decide di comprare un motocarro Guzzi e con quello effettuare trasporto di materiali per l’edilizia. L’idea si rivela vincente.
A questo punto, trovato un lavoro, può dare sfogo alla sua passione: l’alpinismo.
Ma per raggiungere le montagne occorre un mezzo ed il motocarro non è certo il più indicato.
Meglio la bicicletta col cambio a tre velocità. Con quella, non solo va su e giù dalle Piccole Dolomiti ma, emulo di Hermann Buhl, raggiunge da Montecchio le pendici dell’Ortles e, una volta salitolo, torna a casa.
Pedalando, ovviamente. Ed il tutto in tre giorni.
Ma col passare del tempo la bici non basta più. Ormai Giacomo si muove disinvoltamente sulle più alte difficoltà in roccia e quindi le vie più dure delle Dolomiti sono alla sua portata.
Nei primi anni ’70 i suoi abituali compagni di arrampicata si sposano ed appendono gli scarponi al chiodo.
Giacomo inizia allora a bazzicare la sezione del CAI di Vicenza.
Qui incontra due personaggi che segneranno profondamente la sua carriera alpinistica: Piero Radin, che gli sarà amico e compagno di cordata da allora in poi, e Renato Casarotto, a quel tempo agli esordi della sua, purtroppo breve, ma sfolgorante carriera.
Quando eravamo assieme la cordata era perfetta. Renato davanti, io e Piero dietro. Non ci fermava nessuno”.
Con Casarotto, Albiero firma due grandi prime in Civetta: la parete ovest della Cima della Busazza (iniziata anche assieme a Radin ma finita poi con Giuseppe Cogato come terzo di cordata) e la cosiddetta “variante” (ma sono oltre 500 metri di via autonoma) di uscita alla via “Solleder-Lettenbauer”.
Io considero la variante alla 'Solleder' – dice Albiero - un altro capolavoro d’arrampicata di Casarotto, purtroppo non valutato come meriterebbe nonostante la via sbuchi proprio presso la croce di vetta del Civetta”.
Poi Casarotto si sposta a Bergamo e percorre strade che lo porteranno sulle montagne di mezzo mondo.
Albiero resta privo di un compagno eccezionale, ma certo non si perde d’animo.
Negli anni seguenti l’escalation di ripetizioni, un po’ con Radin ed un po’ con altri compagni, è impressionante e va dalle Dolomiti sino al Monte Bianco dove, ormai sessantenne, supera (manco a dirlo, con Radin) nientedimeno che il Pilone centrale, la più alta (di quota) e, per quei tempi, la più impegnativa scalata delle Alpi.
Arrampica anche da solo e su difficoltà elevate.
Il giorno del suo cinquantesimo compleanno, ad esempio, affronta la “Solleder-Lettenbauer” in Civetta, uscendone dopo due giorni.
Era per festeggiare le mie cinquanta primavere – dice Albiero – che ricorrevano proprio a cinquant’anni dalla realizzazione di quella via, avvenuta appunto nel 1925”.
Inoltre mette a segno due importanti nuove ascensioni: sulla nord della Pala di San Martino, con Franco Perlotto, e sul pilastro sud-est della Cima dei Lastei, con Giovanni Dolcetta. Va anche sulle Ande, sullo Shivling (Himalaya indiano) e sull’Annapurna, dove vive in prima persona il dramma della morte di Luigino Henry che perde l’equilibrio proprio pochi metri sopra di lui.
L’ho visto cercare di frenare la caduta con la piccozza – ricorda Albiero – ma prendeva sempre più velocità sino a quando un risalto ghiacciato non l’ha scagliato in aria per farlo finire poi in fondo al ghiacciaio, un migliaio di metri più in basso. Una cosa che non scorderò mai!
“Senatore” della marcialonga, vale a dire aver partecipato a ben 35 edizioni senza mai saltarne una, pena la perdita del titolo, Albiero si dedica oggi alla ricerca di fossili, di cui possiede una collezione sterminata, ed alla realizzazione di utensili in legno realizzati alla maniera degli uomini primitivi.
Ma il suo cuore ed i suoi ricordi continuano a vagare fra le montagne, prima fra tutte la “Grande Civetta”.


QUANDO NON SI POSSONO PIANTARE CHIODI. NEMMENO AD ESPANSIONE
Albiero, protagonista con Casarotto e Cogato della prima ascensione della parete ovest della Cima Busazza.


E’ la tarda primavera del 1976. Albiero e Casarotto sono reduci da una salita sulle Dolomiti meridionali, ma non sono stanchi e nemmeno appagati. Decidono di cambiare zona e puntano al Civetta.
C’è ancora tanta neve e la loro scelta cade su una parete esposta al sole: la sud-ovest della Busazza, per la via Gilberti-Castiglioni. Attaccano verso mezzogiorno e bivaccano a cinquanta metri dalla cima.
Se la prendono comoda e ad ogni sosta si attardano a sbirciare la parete alla loro sinistra, dove una lunga fessura incide un’enorme serie pance grigie. Ne sono affascinati.
Tornati alla base della parete Casarotto propone di provare a metterci le mani sopra ma Albiero lo dissuade: la stanchezza inizia a farsi sentire. Optano per una escursione al rifugio Tissi e lì incontrano Armando Aste, il quale racconta loro del suo progetto alla ovest della Busazza.
Mossa incauta quella del roveretano che, evidentemente, non si rende bene conto di chi sono i suoi interlocutori. Aste conferma bellezza della via e le sue difficoltà estreme.
Il che equivale a far annusare carne cruda a due leoni affamati.
Albiero e Casarotto tornano a Vicenza con un chiodo fisso: scalare per primi quella parete.
Una decina di giorni dopo sono di nuovo ai piedi della Busazza.
Con loro c’è anche Radin. Salgono veloci per 6-700 metri trovando tracce di passaggio, ma anche segni inequivocabili di ritirate in doppia.
Sul traverso che porta alla fessura che rappresenta il passaggio-chiave per vincere la parte finale e più difficile della parete, trovano una corda fissa e, all’imbocco della fessura, persino un chiodo a pressione.
Casarotto passa senza problemi e dice ai compagni di rimuovere corda e chiodo a pressione.
Se dobbiamo tornare indietro - obiettano timidamente Albiero e Radin - magari la corda sulla traversata potrebbe venirci utile!”. Casarotto è irremovibile e loro non discutono: benché perplessi, eseguono.
Il maltempo però ci mette lo zampino e devono ritirarsi.
Il classico “te lo avevamo detto” serve a poco: con le pive nel sacco devono rifare la traversata in senso contrario, ma questa volta arrampicando e, per di più, sotto l’acqua. Poi un’infinità di doppie fino alla base.
Il “leone” Casarotto, dopo aver non solo annusato ma addirittura azzannato la preda non ha intenzione alcuna di mollarla. Il fine settimana dopo è di nuovo lì. Radin, impegnato col lavoro, non può essere della partita.
Al suo posto c’è un “bocia” di Vicenza, Giuseppe Cogato che, a detta di Albiero, “se avesse avuto piena coscienza di cosa stava per affrontare, molto probabilmente avrebbe fatto dietro-front”.
Per tutta la salita, infatti, ha continuato a ripetere ad Albiero, mentre Casarotto compiva le sue acrobazie verticali, “Che dici, Giacomo: Renato ci porterà fuori da qui?
Obiettivamente, Cogato aveva buone ragioni per preoccuparsi! Nonostante Casarotto si fosse preparato dei marchingegni per assicurarsi lungo quella fessura (di fronte alla quale – ricordiamolo - erano indietreggiati nientedimeno che Armando Aste e Sergio Martini) dovette superare quei trenta maledetti metri di fessura senza alcuna protezione.
In primo luogo perché la roccia non accettava nessun tipo di chiodo o cuneo (oggi, invece, con i friends grandi ci si potrebbe proteggere adeguatamente) e secondariamente perché non poteva permettersi il lusso di togliere le mani dalla roccia, nemmeno per pochi istanti.
Metro dopo metro e sbuffando come una locomotiva – racconta Albiero – Renato saliva con una gamba ed un braccio incastrati nella fessura mentre con l’altro braccio e l’altra gamba si puntellava alla parete.
La roccia, fratturata ed a cubetti, si sbriciolava ad ogni suo movimento e ci cadeva addosso. La tensione era alle stelle. Io e Giuseppe lo guardavamo muti, affascinati e terrorizzati allo stesso tempo
.”
Trenta metri più in alto Renato trova un provvidenziale scalino di roccia e riesce a fare sosta.
Recupera i due compagni e riparte subito lungo la continuazione della fessura, ora finalmente solida ma sempre difficilissima. Vera “macchina da guerra” Renato, lentamente ma inesorabilmente, macina metri e difficoltà venendo a capo anche della seconda parte della fessura. Le ore però sono volate via ed è ormai buio.
Casarotto, per sua fortuna, trova un buon ripiano dove almeno riesce a sedersi, mentre Albiero e Cogato devono accontentarsi di passare la notte (di dormire non se ne parla nemmeno) in piedi sullo scalino di roccia, appesi ai chiodi. E’ fine maggio e, per fortuna, il giorno arriva presto.
Rimettersi in moto non è facile ma la scalata riprende poco dopo l’alba, la cordata si ricongiunge e la “macchina da guerra” implacabilmente conquista metro dopo metro il restante tratto di parete.
All’incirca a mezzogiorno del 30 maggio 1976 i tre si stringono la mano sui 2894 metri della Cima Busazza.
Sotto di loro 900 metri circa di parete di cui trenta di VII e centinaia di IV, V e V+!
(Nota. La via di Renato Casarotto - Giacomo Albiero - Giuseppe Cogato è quella segnata in rosso nella foto sopra).
Ad un anno di distanza dall’impresa sullo Spiz di Lagunaz, Casarotto aveva scritto sulla Busazza un’altra pagina di storia dell’alpinismo dolomitico.