incontro con Adriana Valdo
la "Lady di ferro" dell'alpinismo vicentino
a cura di Eugenio Cipriani
“Un piccola frattura alle ossa iliache mentre stavo sciando ed è andata
a farsi benedire mezza stagione scialpinistica. Che rabbia, proprio non
ci voleva! Ma appena guarita ho fatto tre volte il Manderiolo. Ora sono
impegnata con le escursioni estive, anche se le ginocchia non sono
proprio più quelle di una volta!”
Non ci sarebbe niente di straordinario
in queste frasi dalle quali traspare una grande passione per la
montagna. Eppure lo straordinario c’è.
E’ l’anno di nascita della
persona che le ha pronunciate: il 1931!
Ma stiamo parlando di Adriana
Valdo ed ecco quindi che le affermazioni riportate rientrano nella
“normalità”, perché la “Lady di ferro” dell’alpinismo vicentino per
tutta la sua vita ha saputo trasformare in routine cose che, specie per
una donna, normali od ordinarie non erano affatto.
Come laurearsi a
Padova in Ingegneria nel 1957 (prima vicentina a conseguire questo
risultato); o come essere ammessa nel 1978 nell’èlite dell’Alpinismo
Italiano, il Club Alpino Accademico, arrivando in questo caso prima -
non solo in ambito vicentino ma addirittura nazionale - ad un traguardo
straordinario e sino ad allora impensabile.
Sbaglierebbe però chi
pensasse che dietro a questi risultati vi sia (o vi sia stata) una
volontà “femministica” di affermazione o una smania di protagonismo al
femminile.
Tutt’altro.
Definita, non a caso, “la discreta”, Adriana non
ha mai fatto nulla per rivendicare diritti e pari opportunità, né in
campo professionale né in quello alpinistico.
Risultati e riconoscimenti
sono arrivati, spesso senza preavviso, semplicemente perché dovuti,
meritati.
Punto e basta.
E questo da sempre ed in ogni campo: dalla
laurea in una facoltà popolata esclusivamente da maschi, sino al
prestigioso premio alpinistico “Pelmo d’Oro”, riconoscimento alla
carriera ottenuto inaspettatamente lo scorso anno. Certamente, ed è lei
la prima ad ammetterlo, la fortuna di nascere in un ambiente benestante
e colto ha favorito, almeno all’inizio, un’esistenza meno difficile che
per tanti altri.
Tuttavia i suoi genitori l’hanno cresciuta con
semplicità quasi spartana, fuori dagli schemi del periodo e di questo
lei va fiera, tanto che appena parla della propria famiglia le si
illuminano gli occhi.
Rispettivamente nipote e figlia di noti
amministratori vicentini (il nonno materno, Giambattista Cebba, fu
Podestà negli anni Trenta ed il padre, Umberto, oltre che stimato
ingegnere è stato assessore sia in Comune che alla Provincia fra gli
anni Cinquanta e Sessanta), Adriana ha ereditato dai genitori la
passione per la montagna, in modo particolare per lo sci.
“Ho iniziato a
sciare ancor prima di nascere – ironizza Adriana – perché ho una foto in
cui mia madre è ritratta mentre scia nonostante il pancione dentro cui
stavo crescendo”.
Il fruscio degli sci sulla neve ed il dondolio del
corpo fra una curva e l’altra sono quindi per lei un retaggio
ancestrale. Naturale, quindi, che tutto questo diventasse parte
integrante della sua vita.
Ma la passione per l’arrampicata e
quell’irrefrenabile “prurito” alle dita di fronte ad una parete di
roccia dove hanno origine? DNA, anche in questo caso.
“I miei genitori –
spiega la Valdo – erano bravi ed appassionati alpinisti che d’inverno si
dedicavano ad impegnative traversate sciistiche con attrezzi che oggi
farebbero rabbrividire, mentre d’estate non disdegnavano sentieri,
ferrate ed anche arrampicate in roccia sulle Dolomiti, dove mi hanno
portata subito per farmi prendere dimestichezza con le difficoltà ed
insegnarmi a valutare i pericoli.”
Una cosa è certa: i Valdo non erano
genitori apprensivi.
Ma non si pensi che fossero degli incoscienti,
anzi.
In realtà si rendevano conto, man mano che la figlia cresceva e
diventava una scalatrice sempre più esperta ed appassionata, che la loro
fiducia era ben riposta.
“Giunta ormai al termine, o quasi, della mia
carriera alpinistica – dice Adriana – posso affermare con orgoglio di
non essere mai volata da capo-cordata e di non avere mai dovuto essere
soccorsa in roccia. Qualche piccolo fuori programma c’è stato, ma sempre
a lieto fine – racconta la Valdo – come la volta che, di ritorno da una
via sulla Pala di San Martino, fummo sorpresi dalla nebbia e poi dal
buio, intercettato per caso il tubo dell’acqua che riforniva il Rifugio
Rosetta, lo seguimmo salvandoci da un bivacco sotto pioggia e grandine.
Ma il contrattempo più divertente fu quello che mi capitò sulla Torre
Venezia quando mi cadde il piumino giù per i cinquecento metri della
parete sud durante un bivacco in condizioni invernali (era l’8
dicembre!) sulla Via Tissi. Passai la notte a battere i denti ma senza
altri problemi. Il bello fu che il mattino seguente incontrammo lungo la
discesa per la via normale alcuni alpinisti che avevano recuperato
l’indumento ed erano stupiti di trovarne la proprietaria viva e vegeta
dopo averne cercato i resti ai piedi della parete.”
Non avere avuto mai incidenti è un primato non da poco se si pensa da un
lato all’attrezzatura che utilizzava e dall’altro al numero pressoché
incalcolabile di ascensioni compiute dalla Valdo sia in roccia che su
ghiaccio.
Tanti sono stati i suoi compagni di cordata, alcuni dei quali
famosi a livello nazionale, come Piergiorgio Franzina e Silvano Pavan,
ed altri anche a livello mondiale: un nome fra tutti quello di Renato
Casarotto.
Tanti compagni di cordata, tutti amici ma nessuno “più” amico
di altri.
E chi si sarebbe azzardato, nonostante l’affiatamento e la
simpatia, a metter su famiglia con una che, per sua diretta ammissione,
a pranzo avrebbe preparato un piatto di sassi con sorbetto di neve e non
avrebbe rammendato nemmeno un calzino?
“Con il mio modo di essere -
aggiunge la Valdo - un po’ per scelta e un po’ inconsciamente non mi
immedesimavo nel ruolo di casalinga nel timore di dover abbandonare
anche solo in parte l’attività alpinistica. Mica per femminismo, per
carità! Semplicemente perché le priorità per me sono sempre state il mio
lavoro di ingegnere ed il vero, grande amore della mia vita, cioè la
montagna e l’alpinismo.”
A questo punto sorge spontanea una domanda: ma
a questa donna qualche rimpianto non è mai venuto? “Rimpianti? – dice
sorridendo Adriana – Proprio nessuno. Così mi sentivo di fare e così ho
fatto. Con serenità e piena consapevolezza di quello che volevo e di
come desideravo essere. E se proprio vogliamo parlare di rimpianti è
solo per qualche bella scalata che non ho avuto occasione di fare.”
Tuttavia a guardare il curriculum non sono tante le scalate che Adriana
Valdo ancora non ha fatto, quantomeno sulle Dolomiti. In ogni caso con
lei è meglio “mai dire mai”, potrebbe ancora togliersi qualche sfizio!
Casarotto nel ricordo di Adriana Valdo
“Ho capito subito che Renato era un alpinista da grandi pareti, da
impegno totale”
A Vicenza il luogo deputato agli incontri fra alpinisti, ai progetti ed
all’allenamento da sempre ha un nome preciso: Gogna, tutt’oggi la
palestra di roccia per tutti i giorni e per tutte le stagioni.
I
frequentatori tendono ad essere sempre gli stessi e le facce mai viste
prima si notano subito e scambiare quattro chiacchiere viene spontaneo.
Nella primavera del 1970 colpì la curiosità dei big di allora – cioè
dei vari Fina, Valdo, Franzina, ecc. - un ragazzo alto e muscoloso,
tanto riservato nel carattere quanto determinato e caparbio negli
allenamenti. Fina lo portò subito con sé in montagna, sulle Piccole
Dolomiti prima e sulle Pale poi, ricavandone un’ottima impressione.
Adriana Valdo, invece, tenne “sotto osservazione” il nuovo arrivato per
un po’ prima di unirsi in cordata con lui.
“Iniziai a vederlo in Gogna –
racconta la Valdo – nella primavera del 1970. Era assiduo, non mancava
mai, parlava poco e arrampicava tanto. Si chiamava Renato e lavorava
come infermiere presso le Ferrovie dello Stato. Il suo grande interesse
era l’alpinismo ed era disposto a qualunque sacrificio per questa sua
passione.”
Dopo il “battesimo” in montagna con Fina, Casarotto si
appassionò al punto da bruciare letteralmente le tappe del suo
apprendistato, tanto che ben presto salì in solitaria la difficile via
Carlesso ai Sogli Rossi.
“Questo exploit - dice sempre la Valdo - ce lo
raccontò con disarmante semplicità due-tre giorni dopo la salita durante
una chiacchierata in Gogna, come se fosse stata la cosa più naturale di
questo mondo. Noi lo guardammo con rispetto e ammirazione perché lo
sapevamo serio a capace, ma anche con una punta di perplessità legata
alla preoccupazione che, per il fatto che arrampicava da poco e che
inevitabilmente mancava di esperienza, sovrastimando le proprie capacità
avrebbe potuto mettersi in qualche guaio.”
Nell’estate del 1971 Adriana si lega alla sua corda su una parete
dolomitica, lasciandogli fare da primo.
“Non era leggero e flessuoso
come un Manolo - commenta Adriana - ma nell’affrontare ogni singolo
passaggio ed ogni situazione era sempre così calmo e tranquillo che non
provavo con lui nessuna preoccupazione. Un difetto però ce l’aveva -
prosegue Adriana – ed era la sua capacità di ingarbugliare le corde
quando recuperava. Onestamente anche io non ero da meno, con la
differenza che io sono rimasta incorreggibile mentre Renato, grazie
anche alle solitarie, col tempo è diventato un esperto proprio nelle
manovre di corda”.
Sulla Myriam alla Torre Grande d’Averau i due si “testano”
vicendevolmente.
La cordata funziona bene e pochi giorni dopo, in
agosto, puntano a qualcosa di più impegnativo: la Lacedelli-Ghedina al
pilastro di Tofana. Adriana resta ammirata dalle capacità di Casarotto e
si convince di avere a che fare con un alpinista da grandi pareti e che
è ormai pronto per la nord-ovest del Civetta, la parete delle pareti.
“Ci mettemmo d’accordo per tentare il diedro Philipp-Flamm il fine
settimana successivo ma, arrivata a casa, guardando il calendario mi
accorsi che sabato sarebbe cambiata la luna e questo avrebbe comportato
probabilmente un peggioramento della situazione meteorologica. Ci
sentivamo pronti per scalare quel diedro considerato allora fra i più
difficili delle Alpi. Renato si fece sostituire dal padre sul lavoro e
due giorni dopo eravamo sul celebre diedro. Lo trovammo all’altezza
delle aspettative, bivaccammo dopo il traverso (per Renato probabilmente
fu il primo bivacco in parete) ma riuscimmo ad evitare il maltempo che,
puntuale come avevo previsto, bagnò le Dolomiti sia il sabato che la
domenica. Ma ormai il diedro l’avevamo in tasca!”
Per quella stagione la
cordata Valdo-Casarotto non compì ulteriori imprese.
Stanchezza? No di
certo: sia Renato che Adriana erano vere e proprie “macchine da guerra”
capaci di macinare chilometri in verticale. La scelta di cambiare
compagno fu della Valdo, che preferì legarsi ad altri alpinisti con i
quali poter fare da capocordata.
“Ero sicura delle mie capacità –
racconta l’Accademica vicentina – e dopo l’exploit da seconda sul
Philipp-Flamm avevo voglia di dimostrare a me stessa ed agli altri quel
che valevo anche in testa alla cordata. Cosa che feci nei mesi
successivi.”
“Con Casarotto arrampicai di nuovo l’estate dopo, nel luglio
del 1972: fu la volta della via nuova al Soglio Rosso in Pasubio.
Purtroppo partimmo molto tardi la mattina perché prima Renato dovette
pitturare la ringhiera di casa.
La via si rivelò ben più dura del
previsto al punto che durante una traversata pendolai violentemente per
colpa dei soliti appigli friabili delle nostre Prealpi e mi incrinai un
paio di costole. Ma non tornammo indietro: terminammo la via sbucando
sui pendii sommitali col buio. La cosa più logica sarebbe stata
bivaccare lì per evitare di metterci nei guai, ma Casarotto non volle
sentire ragioni: in parete era flemmatico ma appena finito di scalare si
precipitava verso un telefono o a casa per non far stare in pensiero i
familiari. Non a caso alle tre di notte incrociammo per strada, a Valli
del Pasubio, Piergiorgio Franzina che, allertato appunto dalla mamma di
Renato, era venuto a cercarci!”
Un’altra volta, sempre nell’estate del
1972, impossibilitata ad arrampicare per l’eccessiva consunzione dei
polpastrelli dopo aver scalato cinque vie dolomitiche in sette giorni (!) la
Valdo convinse Casarotto a fare una semplice passeggiata in Dolomiti.
“Renato in mezzo alle montagne senza corda né chiodi – commenta la Valdo
– era un caso più unico che raro ma c’era un secondo fine in questa
camminata, ed era un fine alpinistico: lo portai a vedere la Valle di
San Lucano e quella d’Angheraz assicurandogli che ne sarebbe rimasto
affascinato. E così fu, tanto che sulle Pale di San Lucano tracciò
qualche anno dopo il suo indiscusso capolavoro dolomitico.”
Durante le
vacanze di Natale del 1972 la Valdo e Casarotto si legano ancora
assieme, e sarà l’ultima volta, per scalare in prima invernale la
Solleder al Sass Maor, un bel “frigorifero” di circa 1000 metri e con
difficoltà fino al V+/VI.
“In quella occasione vidi Renato soffrire un
po’ il freddo durante i tre bivacchi e la cosa, conoscendo la sua
tempra, mi parve strana. Evidentemente l’attrezzatura che usava, in
buona parte risalente alla naja, non era all’altezza delle sue
necessità. Ma anche in quel caso, come per le manovre di corda, in pochi
anni lo standard di Renato si sarebbe alzato considerevolmente”.
Poi per
diversi motivi Renato ed Adriana non ebbero più occasione di legarsi
assieme.
“L’ultima volta che vidi Renato – ricorda commossa la Valdo –
fu in Piazza dei Signori a Vicenza, reduce dall’8000 con Goretta ma già
in attesa di partire per la Magic Line al K2, impresa rivelatasi poi
fatale. Mi disse che dopo il K2 si sarebbe messo tranquillo. Purtroppo a
decidere per lui ha provveduto il destino e Vicenza, dentro quel
maledetto crepaccio, ha perso il più grande e completo alpinista che
abbia mai avuto. Senz’altro uno dei più grandi di tutti i tempi.”
Eugenio Cipriani
Incontro con Adriana Valdo, la "Lady di ferro" dell'alpinismo
vicentino
Settembre 2013