Incontro con Piero Radin, il "Pierino" dell'alpinismo

a cura di Eugenio Cipriani
 

Se ti chiami Piero, ma tutti da sempre ti chiamano Pierino, forse non è perché sei piccolo di statura.
Forse è perché sei proprio terribile, irrefrenabile, scatenato.
Insomma, un concentrato di energia come proverbialmente lo sono tutti i “Pierini” da che mondo è mondo.

La vita alpinistica di Piero Radin
Fra questi anche il vicentino Piero Radin, classe 1943, Accademico del CAI, autore di salite di assoluto valore storico nelle Dolomiti e con un carnet sulle Alpi, le Ande e l’Himalaya di tutto rispetto.
Perché Radin, da buon “Pierino” (come lo chiamano gli amici) ne ha combinate di tutti i colori in montagna.
E fin qui, tutto sommato, non ci sarebbe niente di singolare.
Sono tanti dalle nostre parti (NdR: Vicentino e Veronese) i “mati par le crode”, cioè quelli animati da una passione incontenibile per l’arrampicata.
Ciò che rende Radin un personaggio davvero speciale ed unico è il fatto che ne combina ancora di tutti i colori nonostante le settanta primavere sulle spalle e la mancanza di tutte le prime falangi di una mano.
Un ricordino dall’Annapurna, roba risalente al 1977.
Che comunque non gli ha impedito di sfiorare la vetta dell’Everest due anni dopo e di muoversi oggi con disinvoltura sulle vie classiche di sesto grado in Dolomiti (sia quelle cosiddette “Piccole” che le altre) e su itinerari moderni con difficoltà fino al 6b francese che, per chi non lo sapesse, suona settimo grado nella scala UIAA.
Settant'anni e settimo grado: mica roba da tutti.
Ma non era roba da tutti nemmeno realizzare il primo settimo grado ufficiale della storia dell’alpinismo dolomitico su una via di 1500 metri di dislivello nel cuore di uno dei più selvaggi angoli montuosi delle Dolomiti: le Pale di San Lucano.
D’accordo, c’era un “mostro sacro” come Renato Casarotto all’altro capo della corda, ma certe imprese non riescono se la cordata non è affiatata e se le capacità non sono pari, o quasi.
Fino a ventotto anni, in realtà, Radin non pensa alla montagna, ma alla musica e passa il suo tempo libero a suonare in una piccola “band”.
Un bel giorno del 1972, però, Diego Campi e Claudio Ciscato lo convincono a mettere le mani sulla roccia ed a lasciare un po’ in disparte gli strumenti musicali.
L’entusiasmo è immediato: dapprima qualche traversata in Gogna, la palestra per eccellenza dei vicentini, poi Piccole Dolomiti a tutto spiano.
Dopo un anno, nel 1973, Radin è già in odore di sesto grado e sale la Boschetti-Zaltron al Soglio d’Uderle, in Pasubio. A lui magari quel livello sarebbe anche bastato ma, durante un allenamento in Gogna, Pierino s’imbatte in uno al quale invece il sesto grado e, più in genere, tutto ciò che a quel tempo era considerato il limite massimo delle possibilità alpinistiche, stavano stretti per definizione.
Era Renato Casarotto.
I due fanno comunella e, assieme a Diego Campi, nell’inverno del 1974 affrontano lo spigolo “Strobel” sulla Rocchetta Alta di Bosconero.

Le grandi vie sulle Dolomiti con Renato Casarotto
E’ una impresa epica: la neve è tantissima (occorre un giorno intero solo per arrivare all’attacco) al punto che, nonostante la verticalità della struttura, ogni appiglio è coperto da neve e ghiaccio.
Casarotto, vera “macchina da guerra” in quelle condizioni, sale inesorabile pulendo ogni appiglio con una spazzola di ferro. E’ un lavoro massacrante fare da capocordata in quelle condizioni, ma è massacrante anche aspettare pazienti in sosta il proprio turno aggrappati ad una lama di roccia alta seicento metri e rivolta a nord!
Ci vogliono due giorni per arrivare in cima ed un altro per scendere dalla via normale e fare ritorno all’auto. “Cercavamo l’avventura  - commenta oggi Radin quelle sue “follie” di gioventù – senza guardare troppo al grado o al risultato a tutti i costi. Quello che ci attirava era il confronto con la natura nel suo aspetto più ostico e selvaggio”.
Dopo la Rocchetta, Diego Campi ne ha abbastanza e “si mette in proprio” sul piano alpinistico, mentre il sodalizio Casarotto-Radin si consolida con altre avventure, questa volta estive, ma fra le selvagge pieghe delle Pale di San Lucano.
Le difficoltà ambientali sono elevate ma lo sono anche quelle tecniche ed il settimo grado diventa realtà.
Ma stare dietro a Casarotto logora anche le fibre più forti ed anche Radin decide ad un certo punto di andare per la propria strada e trova in Giacomo Albiero il compagno ideale per dedicarsi alla ripetizione sistematica, prevalentemente da capocordata, delle grandi classiche di sesto grado sia in Dolomiti che altrove.
Tornerà a legarsi in cordata con Casarotto nel 1976 nel tentativo alla parete ovest della Busazza, in Civetta, dove però il maltempo li farà retrocedere ben due volte.
Radin a quel punto decide di lasciare perdere.
Casarotto, invece, porterà a termine poco dopo l’impresa con Giuseppe Cogato e Giacomo Albiero nei giorni dal 28 al 30 maggio del 1976.

Attività e spedizioni extra europee
Nel frattempo Radin aveva iniziato a mettere il naso anche fuori dai confini delle Alpi salendo nel 1975 il Huandoy Nord, nelle Ande.
Il battesimo dell’Himalaya avviene nel 1977 con una spedizione organizzata da Francesco Santon.
La meta è l’Annapurna, il più basso ma anche uno fra i più “cattivi” degli Ottomila.
Cattiveria che dimostrerà ampiamente, con bufere di neve e temperature rigidissime.
Ne faranno le spese la guida aostana Luigino Henry, che morirà in seguito ad una scivolata chilometrica lungo un canalone, e lo stesso Radin che, dopo aver raggiunto i 7570 metri di quota dell’Annapurna III, durante la precipitosa discesa incalzato dal maltempo si romperà una gamba ed impiegherà ben sei giorni per fare ritorno al campo-base.
La gamba si sistemerà in qualche mese, ma il congelamento alla mano destra lo priverà per il resto della vita delle prime falangi della mano destra.
Ma la voglia di scalare le montagne resterà inalterata.
Altrimenti, che “Pierino” sarebbe? A meno di due anni di distanza dalla sfortunata spedizione all’Annapurna si aggrega ancora a Santon che stavolta punta così alto che più in alto non si può: l’Everest.
E’ la famosa spedizione del 1980, che vedrà impegnato il fior fiore dell’alpinismo veneto e non solo.
Ma le gelide correnti che spirano nel luogo più alto e più ventoso del pianeta, il Colle sud dell’Everest, avranno la meglio sulla volontà dei pur validi alpinisti e la spedizione, Radin compreso, si arrenderà “a due passi dalla cima”, come recita il titolo del libro che successivamente celebrerà la spedizione.

Dopo tanta fatica un po’ di riposo?
Ma nemmeno per sogno.
Più “incattivito” che mai Piero Radin, ormai assuefattosi all’ “aria sottile” delle alte quote, si dedica al Monte Bianco dove scala (ricordiamoci sempre che gli mancano le punte delle dita della mano destra!) la Cresta di Peutèrey, la via Bonatti all’Innominata ed il Pilone Centrale del Freney.
Tutte vie che, per chi non lo sapesse, sono le salite più himalayane (per altitudine, lunghezza e difficoltà complessive) che un alpinista possa effettuare sulle Alpi.
Poteva mancare poi nel carnet di Radin una pietra miliare nella storia dell’alpinismo come la via di Riccardo Cassin allo sperone Walker sulla nord delle Grandes Jorasses?
Naturalmente no.
Pierino ci si butta assieme a Roberto Gemmo ed in tre giorni arrivano a pochi tiri dalla cima dove però vengono bloccati da una nevicata estiva colossale.
Proseguire è troppo pericoloso e così decidono di scendere a corda doppia oltre 900 metri di parete.
Un’odissea, ma alla fine i due torneranno a casa sani e salvi.
Un altro a questo punto avrebbe iniziato a “tirare i remi in barca”.
Non Pierino, naturalmente, che invece l’anno dopo, il 1981 sale un 6300 nelle Ande con Giacomo Albiero, Giovanni Dolcetta, Francesca Framarin e Paolo Sartori, fermandosi a duecento metri dalla cima a causa della presenza di enormi cornici a “meringa” troppo pericolose da pestare.
Nel 1982, presentato da Piero Fina e Piergiorgio Franzina, entra a far parte del Club Alpino Accademico del C.A.I. mentre nel 1989 sale lo Shivling nell’Himalaya indiano con una spedizione del C.A.I. di Dueville.
Nel 2002 arriva a 7000 metri di quota sul Cho Oyu che invece verrà raggiunto nella medesima circostanza da Marco Peruffo, l’alpinista diabetico, Giampaolo Casarotto, Alberto Peruffo e Patrizia Pensa.
Tra una spedizione e l’altra, ovviamente, Radin non è mai stato fermo ma ha continuato a scalare pareti in ogni angolo delle Alpi ma soprattutto sulle Dolomiti.
Nel 1996, ad esempio, fa da capocordata al suo compagno di sempre, Giacomo Albiero, nientedimeno che sulla “Solleder-Lettenbauer” alla nord-ovest del Civetta, la più classica via di sesto grado delle Dolomiti.
Particolari non trascurabili: Albiero nel 1996 ha la bellezza di settantuno anni ed a Piero, non scordiamocelo, mancano sempre le punte delle dita della mano destra!

Ed oggi?
Oggi Radin, felice pensionato, approfitta di ogni giornata di bel tempo per andare ad arrampicare, da Lumignano a Campogrosso, da Arco alle Dolomiti a seconda della stagione.
E quando gli si parla di roccia o gli si propone di andare a scalare i suoi occhi si illuminano e la mano corre allo zaino, ovviamente sempre pronto.
Insomma, ancora e sempre un vero “Pierino”.



La valle di San Lucano: la “Yosemite Valley” delle Dolomiti
Le Pale di San Lucano, così come i Monti del Sole, la Schiara e persino lo stesso Agner, sono montagne per pochi. Non perché siano inaccessibili in senso assoluto, ma perché o le si ama o le si odia.
La “mezza misura” nei loro confronti non esiste.
Chi le ama ne apprezza gli accessi complicati, la mancanza di punti d’appoggio, la scarsità di sorgenti, il tempo spesso nebbioso o piovoso che si alterna al caldo torrido di certe giornate estive e, da qualche decennio a questa parte, purtroppo, anche la presenza delle zecche, alcune delle quali portatrici del morbo di Lyme.

Zecche a parte, di cui nei primi anni Settanta non erano state ancora verificate appieno pericolosità e numerosità, ai tempi delle salite di Casarotto e Radin questi monti presentavano tutte le peculiarità citate e, in più, mancavano di una buona documentazione alpinistica, di una cartografia aggiornata e di una rete di sentieri che solo allora iniziava, molto lentamente, a svilupparsi.
Però c’erano ancora enormi pareti vergini e “problemi alpinistici” di prim’ordine.
E questo sia sui Monti del Sole e sulla Schiara che, in misura ancor maggiore, sulle Pale di San Lucano.
Renato Casarotto, fin dagli esordi ossessionato dalla soluzione di nuovi e sempre più complessi problemi alpinistici, non poteva non sentire il richiamo di quelle muraglie a picco sulla Valle di San Lucano, separate l’un l’altra da orridi canaloni, veri e propri “baratri d’insondabile profondità”, come ebbe a definirli Giorgio Brunner che con Emilio Comici realizzò nei primi anni Trenta diverse salite esplorative in zona.
Nei primi anni Settanta lo scalatore genovese Alessandro Gogna, dopo averlo scoperchiato, aveva mostrato il contenuto di questo scrigno prezioso a tutto il mondo alpinistico pubblicizzando la Valle di San Lucano come una sorta di “Yosemite Valley” dolomitica.
Autore di salite di grande livello sulla Seconda, sulla Terza e sulla Quarta Pala di San Lucano (Cima di Van del Pez), parlando delle Pale come di “big walls” a due passi dalla pianura Gogna gettò l’esca nel tutt’altro che quieto stagno dell’alpinismo dolomitico di allora.
Fra i primi “pesci grossi” ad abboccare fu Renato Casarotto, già frequentatore attento delle Dolomiti meridionali.
Nel 1974, infatti, assieme a Giacomo Albiero aveva scalato la Torre dei Feruch, nell’omonimo gruppo a cavallo fra la Valle del Mis e quella del Cordevole.
Muraglie rocciose di 1500 metri di sviluppo, itinerari di difficoltà estreme e sostenute, bivacchi in parete obbligatori, discese lunghe e complesse, accessi pericolosi ed intricati erano (e sono ancora oggi) un cocktail di buoni motivi per tenersi alla larga dalle Pale di San Lucano.
Ma per Casarotto (ed ancora oggi per altri come lui) erano invece gli aspetti più affascinanti di queste montagne.
E così, a partire dal 1974, Casarotto mosse alla scoperta di questo Eldorado verticale e, da par suo, partì alla carica per risolvere quello che veniva considerato, da Gogna e da altri, come il più evidente “problema alpinistico” ancora da risolvere: il gran diedro sud-ovest dello Spiz di Lagunaz.
La rogna delle rogne, cioè.
Ottocento metri di zoccolo erboso semiverticale,  quattrocento metri circa di parete a picco, altrettanti di diedro (non meno verticale, anzi), una cresta affilata di roccia per arrivare in cima e, una volta cima … di nuovo rogne. Già, perché la via normale della Terza Pala di San Lucano praticamente non esiste, e comunque definirla “normale” suona ironico.
Di fatto è un susseguirsi di salite e discese fra torri e quinte di roccia limitate da due abissi: a sinistra il Boral di Lagunaz e a destra il Boral di San Lucano, altro “baratro di insondabile profondità”. 

Quei sei giorni che fecero la storia
Per affrontare le Pale di San Lucano a Casarotto occorreva un buon compagno.
Uno che fosse all’altezza della situazione e quindi forte, veloce, determinato.
In altre parole Piero Radin, che lo aveva assecondato pienamente nell’invernale allo spigolo “Strobel” in Bosconero. Nel 1974 i due si “rodano” realizzando in un paio di giorni una via nuova sulla Quarta Pala: sono 800 metri IV, V con passaggi di VI e A0 cui si deve aggiungere un infido zoccolo erboso.
Nell’aprile dell’anno seguente, il 1975, tornano sulla Quarta Pala dove salgono in giornata un itinerario più facile del precedente (difficoltà fino al V+) ma che permette loro di osservare bene il gran diedro sud-ovest dello Spiz, in bella mostra dall’altra parte del Boral di Lagunaz.
Poi Casarotto parte per il Galles, conosce i più forti climbers inglesi, sperimenta nuove tecniche ma, soprattutto, torna in Italia più “carico” che mai.

Il tempo non prometteva nulla di buono in quei primi giorni di giugno del 1975 – racconta Radin - ma decidemmo ugualmente di tentare. Il 7 giugno, su terreno umido ed in mezzo alle nebbie, ci portiamo all’attacco facendo però un giro complicatissimo e pericoloso. Ci mettiamo un giorno intero per superare lo zoccolo ma alla fine arriviamo sotto la parete vera e propria, dove bivacchiamo. Ma a quel punto comincia a piovere.”  
Chiunque altro sarebbe sceso.
Loro no, proseguono imperterriti ed il secondo giorno, sotto la pioggia, superano persino un passaggio di VII grado inferiore oltre il quale un’insidiosa traversata li porta alla base del diedro vero e proprio, dove bivaccano.
E’ la notte dell’8 giugno. Il terzo giorno, avvolti dalle nuvole e bagnati dalla pioggia, poco a poco risalgono il diedro ma non riescono ad uscirne entro sera e così devono bivaccare di nuovo.
Quel diedro sembrava non finire mai – ricorda Radin – ma la cosa peggiore era che non smetteva di piovere. E le difficoltà non mollavano!
Il quarto giorno d’arrampicata serve loro per venire a capo del diedro dove incontrano passaggi di VI e VI superiore e dove, sempre a causa dell’inclemenza del tempo, devono bivaccare appesi ai chiodi.
Fu una notte difficile – racconta sempre Radin – ma ci sollevava sapere che ormai le difficoltà stavano per finire e che l’indomani avremmo raggiunto la vetta”.
Ed infatti il quinto giorno Casarotto e Radin calcano la cima dello Spiz: il diedro sud-ovest è ormai alle loro spalle. Le rogne però non sono finite, anche se ancora non lo sanno.
Infatti, un po’ per il maltempo ed un po’ per la fretta di arrivare in fondovalle, dopo aver scavalcato la Torre di Lagunaz i due sbagliano ed iniziano a calarsi verso il Boral di Lagunaz.
E’ un errore madornale che costerà loro un’odissea fatta di calate a corda doppia e poi, finiti i chiodi, di difficili passaggi in arrampicata libera, slegati ed in discesa.
Per l’ennesima volta sono costretti a bivaccare, se si possono definire “bivacco” poche ore di riposo dentro una gola e sotto la pioggia.
Al mattino del sesto giorno arrivano sull’orlo dell’ultimo salto prima del breve bosco che li separa dalla strada.
Dopo giorni in mezzo alle nuvole – ricorda Radin - finalmente vediamo sotto di noi la frazione di Col di Prà da dove eravamo partiti. Ma tra noi ed il fondovalle c’è ancora un salto di roccia di quasi cento metri.
Non ci pensiamo due volte: uniamo le due corde fissando l’estremità superiore ad un pino mugo e ci caliamo per tutta la loro lunghezza.
Alla fine tocchiamo terra, lasciamo lassù le corde (che non avremmo potuto recuperare) e raggiungiamo la Baita del Tita dove ormai ci avevano dati per dispersi e già avevano allertato le squadre di soccorso.
I festeggiamenti, in valle prima ed a Vicenza dopo, ci consumarono poi le ultime energie rimaste!
”.


Eugenio Cipriani
Incontro con Piero Radin, il "Pierino" dell'alpinismo
Febbraio 2013


Nota della redazione.

L'immagine in bianco e nero di Piero Radin giovane è tratta da "A due passi dalla cima", libro della spedizione "Everest '80", firmato da Francesco Santon che ne è stato il Capo spedizione.

Le due foto a colori in basso, relative allo Spiz di Lagunaz sono tratte dal libro monografico "Pale di San Lucano", firmato da Ettore De Biasio per Luca Visentini editore.

Il testo dell'intervista è stato pubblicato su "Il giornale di Vicenza"