La forza della natura e … della passione
di Gabriele Villa
Ad un certo punto della
serata, nell’oscurità della sala, guardando la testa bianca dell’uomo
che parla in piedi al mio fianco, che sto seduto in mezzo a cento altre
persone, ho netta la sensazione di assistere ad una di quelle proiezioni
che rimarranno, non solo vive nel ricordo, ma scolpite nella mente. E non
pare nemmeno una proiezione, almeno non in senso classico, ma più un
colloquio nel quale
l’oratore non solo presenta le sue imprese alpinistiche, ma offre allo
spettatore uno spaccato della sua vita, lo fa entrare nel suo vissuto.
Avevo letto il libro “La forza della natura” e mi aveva conquistato,
non solo perché ben scritto dall’autrice Luisa Mandrino, ma soprattutto
perché ne usciva la vita autentica di un alpinista autentico, Franco
Miotto, la cui fama mi era conosciuta. Inoltre
il titolo dato alla serata era quanto mai intrigante: “Un alpinismo
lontano dalle luci della ribalta, ma vicinissimo alla leggenda”.
Quando siamo arrivati nella sala Aurora del Cai Imola, grazie al largo
anticipo abbiamo potuto scegliere il posto e non a caso lo abbiamo scelto
proprio a fianco dell’impianto di proiezione dove, presumibilmente, si
sarebbe posizionato l’oratore. Così, infatti, è stato e questa
vicinanza ha aumentato la percezione del personaggio, consentendo quasi di
palparne le emozioni, la passione alpinistica, l’entusiasmo nel
raccontare le sue imprese.
“Vengo volentieri a fare queste serate nelle vostre terre perché qui
mi sento fra gente che in gran parte condivide quella che è stata ed è
la mia fede politica”.
Ma lui, figlio di un antifascista inviso al regime, non la ostenta
quella fede, tuttavia ne parla con l’orgoglio dell’appartenenza, lui
che abituato a forgiarsi i chiodi da roccia da usare nelle sue scalate, a
fianco delle iniziali stampigliava una falce con martello.
E racconta, durante la serata, di un amico alpinista che era andato a
trovarlo a casa mostrandogli un chiodo da roccia recuperato in parete: “Gò
trovà un ciòdo dei polacchi, vàrda …”. (Ho trovato un chiodo
dei polacchi, guarda).
E lui senza dire nulla era andato in soffitta a prenderne uno uguale e
glielo aveva mostrato.
L’amico sorpreso gli aveva chiesto: “Asto trovà anca tì un ciòdo
dei polacchi?” .
E lui aveva risposto, quasi canzonandolo, che quel chiodo era suo, ma
quali polacchi, fatto da lui stesso: “No te vede le iniziali del mè
nome, e in quanto alla falce e martèlo, vàrda che i polacchi i è tùto
forchè comunisti”. (Non vedi le iniziali del mio nome e in quanto
alla falce e martello, guarda che i polacchi sono tutto fuorché
comunisti).
La serata era iniziata con una consistente serie di diapositive che hanno
illustrato quel magnifico percorso di croda, figlio della sua attività di
anni di caccia di frodo, che è il Viàz dei camòrz e dei camorzieri.
Cenge sospese su pareti a strapiombo, ripidi pendii di rocce miste ad erba
(le loppe), passaggi su vuoti da vertigine, forse non troppo difficili
tecnicamente, ma impercorribili senza l’istinto del cacciatore, il piede
fermo dell’alpinista autentico, la saldezza di nervi del montanaro “usà
a caminàr sul vuoto”, consapevole che un piede in fallo vorrebbe
dire una caduta irreparabile.
E così racconta episodi di caccia, di inseguimenti ai camosci, di
arrampicate con la preda legata a tracolla, come fosse un pesante zaino,
su per pareti impervie per sfuggire a quell’altra caccia di cui
avrebbe dovuto essere lui l’ambita preda, quella dei finanzieri e
delle guardie forestali: prima cacciatore inseguitore di animali e poi
“cacciato” inseguito dagli uomini in divisa, lui che aveva una taglia
sulla testa, come bracconiere.
“Su per queste crode ho fatto la mia scuola di alpinismo, quella
migliore, quella che mi ha consentito di fare le mie imprese quando ho
smesso con la caccia ed ho cominciato a salire le montagne con le corde e
tutti gli altri attrezzi per la sicurezza”.
E racconta di come si era avvicinato al mondo dell’arrampicata,
scoprendone subito forse il lato peggiore, quello dell’invidia fra gli
uomini, della competizione per primeggiare in quella gara, mai dichiarata,
a chi fosse il più bravo.
Sì perché, siccome la sua fama era notevole, il suo nome veniva portato
all’attenzione degli arrampicatori locali come di quello che, senza
corde né chiodi, andava per le montagne salendo pareti che loro non
avrebbero mai affrontato senza le attrezzature di protezione.
Per questo ricevette un invito ad andare in palestra di roccia,”così
per provare”, ma l’intento era quello di portarlo sulla via più
difficile tecnicamente, per vederlo in difficoltà e quindi poterlo
mortificare.
"Era venuto a casa mia
Riccardo Bee a mettermi in guardia della trappola, ma io non ci avevo dato
tanto peso, perché non avevo mica mai fatto niente di male a quelli là”,
dice con tranquilla innocenza. Così si era accorto dell’invidia degli
uomini, lui che aveva sempre solo inseguito animali selvaggi per farne
cibo per la sua famiglia in anni difficili e di scarse risorse economiche.
Da quell’episodio emerge la nascita del sodalizio alpinistico con
Riccardo Bee, giovane studente di ingegneria, con il quale costituì una
delle cordate più forti in assoluto e con il quale salì le montagne più
impervie, nascoste e selvagge attorno a Belluno.
“Non sono mai andato in giro ad arrampicare, ma ho preferito sempre
andare a scoprire le montagne e le pareti vicine a casa, quelle che avevo
visto durante le mie cacce e che, mi ero detto, non salirò mai”. E
lancia una frecciata all’alpinismo himalayano nel quale gli alpinisti
occidentali sono andati in terre lontane in cerca di fama personale,
ostentando possibilità economiche e ricchezza a “gente che viveva di
“una dignitosa povertà”, facendo violenza culturale e alla fine
lasciando solo un sacco di immondizia”. E lo dice senza retorica, con lo
spirito di chi, per i lunghi anni di attività sindacale con tessera
C.G.I.L. (e lui ci tiene a sottolinearlo) è sempre stato dalla parte dei
più deboli per aiutarli a rivendicare i propri diritti di lavoratori. Sono
tanti flash di vita che emergono con naturalezza, magari con la stessa
diapositiva ferma sullo schermo per alcuni minuti (roba che se lo fa uno
“normale” la gente va via tra l’annoiato e lo schifato) e invece con
lui rimane lì, partecipe, ad ascoltare presa dall’entusiasmo del
racconto.
E fa vedere immagini delle sue salite più impegnative, di quelle vie che
per lunghi anni sono rimaste irripetute perché, nonostante l’evolvere
delle tecniche e dei materiali di arrampicata, non era facile trovare una
cordata dotata di altrettanta decisione, capacità ed audacia di quella
formata da Miotto-Bee. Così viene fuori il racconto della parete del
Burel, più volte salita e per vie diverse sempre nuove, anche in inverno,
e di quello Spiz di Lagunàz, in Valle di San Lucano, che, corteggiato per
anni dalle migliori cordate e dagli alpinisti più forti, ha visto la
prima ripetizione soltanto nel 2004, a giusti venticinque anni
dall’apertura.
E Miotto parla di Ivo Ferrari e Silvestro Stucchi, di come avessero
tentato di ripetere “La via dei Bellunesi” ed avessero rinunciato e
lui allora avesse telefonato a Ivo incoraggiandolo a ritentare e
fornendogli qualche indicazione sul superamento di quei due tetti che lo
avevano fermato ed indotto alla rinuncia.
“Quella ripetizione mi ha reso giustizia, perché siccome non erano
passati i più forti alpinisti aveva cominciato a circolare la cattiveria
che non era passato nemmeno Franco Miotto con Bee. Così io sono grato a
Ivo Ferrari e sono andato in Val di San Lugàn (e lo dice così, all’agordina) a seguire la sua
ripetizione, andandogli incontro al ritorno”.
E mostra una diapositiva che lo vede in mezzo ai due ripetitori, tutti
e tre sorridenti.
“A Ivo voglio bene come a un figlio – dice – e sono
contento che i giovani continuino quell’alpinismo che abbiamo fatto noi
di un’altra generazione e che ripetano le nostre vie: non sono come
quelli che vogliono essere passati solo loro e addirittura rompevano gli
appigli con il martello per rendere ancora più difficile la vita ai
ripetitori”. E non fa nomi, ma gli scappa un accenno polemico verso
gli Scoiattoli di Cortina che “erano quelli che lo facevano più
spesso”.
Racconta anche di Piero Rossi (giornalista, scrittore, amico e
alpinista a sua volta), di come lo seguisse nella sua attività e di come
“a modo suo”, molto colorito, lo avesse invitato alla prudenza nelle
sue scorribande alpinistiche, con un: “vàrda che se te te còpa,
vegno al cimitero e te pìse sòra” (guarda che se ti ammazzi, vengo
al cimitero e ti piscio sulla tomba).
Il pubblico ride divertito, il tempo passa veloce, ben oltre l’ora
canonica nella quale, di norma, si concludono le proiezioni di questo
tipo, ma Franco Miotto ha ancora caricatori da far vedere, “se non vi
siete stancati”, dice e per lenire la gola irritata dalla tracheite e
dal lungo parlare, beve a collo da una bottiglietta che, sapremo dopo,
contiene del buon vino rosso, lasciando intonsa la bottiglia di acqua
minerale che gli era stata portata.
Così vediamo anche le immagini dell’invernale al Burel, ne racconta la
meticolosa preparazione, l’allenamento fisico a cui si era sottoposto
assieme a Bee (ci alleniamo sempre assieme per avere la massima fiducia
l’uno dell’altro – aveva detto al suo più giovane compagno),
l’episodio del douvet (la giacca in piuma che avevano comprato per
l’occasione) finita in fondo al dirupo quando gli si erano agganciati i
lacci degli scarponi facendolo cadere. Racconta che se l’era cavata
fortunosamente, fermandosi su di una cengia e di come il giovane ed
entusiasta Bee lo avesse convinto a continuare la scalata pur potendo
disporre di una sola giacca in piuma, proponendogli di indossarla
mezz’ora per uno.
“Alla fine mi ha convinto e ho detto, ma sì, andèmo – ride
divertito Miotto e aggiunge subito dopo – ma quanto freddo che
abbiamo patito in quei giorni”. E’
mezzanotte quasi, quando quel fiume di ricordi si placa e la gola di
quell’uomo dai capelli bianchi e dall’intatta energia vitale trova
pace in alcuni sorsi di buon vino rosso.
Poco dopo, mentre stiamo per lasciare la sala, con un ultimo sguardo
vediamo alcune persone, attorno a Miotto, passarsi la bottiglietta per
bere, a turno e tutti rigorosamente “a collo”, un pò di quel buon
nettare che, probabilmente, oltre ad indubbie ottime caratteristiche
organolettiche, possiede anche buone virtù terapeutiche.
Gabriele Villa
Imola, mercoledì 8 marzo 2006