La mia corsa contro il tempo
di Mauro Mazzetti
Sono passati parecchi anni da quando ho cominciato
a salire le cascate di ghiaccio.
Attività entusiasmante, pratica
sportiva, falesie di ghiaccio, adrenalina a buon mercato, pericolo
garantito, rischio mortale: tanti hanno avuto (ed hanno tutt’ora)
qualcosa da dire in proposito.
Non sono certo questi il luogo ed il tempo
per analizzare sentimenti e moti dell’animo, né per disquisire su
tecniche di progressione e sviluppo dei materiali.
Preferisco piuttosto vivere alla giornata, salire
ogni tanto qualche flusso – sempre meno, in verità, perché la
“scimmia” è un po’ calata con il passare delle stagioni a favore di
qualche salita di più in montagna.
Appassionato sì, ma certamente non uno con il
“manico”; quindi cascate moderatamente impegnative, che adesso vengono
a ragione declassate e surclassate da quelli “buoni”.
Ogni tanto torno a sfogliare un Alpidoc di
qualche anno fa, dove Fulvio Scotto metteva ordine su numeri arabi e
romani, pendenze e salite, comparando cascate e couloirs delle
nostre parti con prestigiose ascensioni di tutto l’arco alpino
occidentale.
Forse non ci starebbe male anche un bel richiamo alla
volpe ed all’uva, ma passiamo oltre.
Solito appuntamento al casello di Genova Voltri al
solito infame orario.
Questa volta il mio socio mi ha tirato un pacco,
peraltro da me paternamente benedetto, considerato che intende sfruttare
un’occasione forse irripetibile per questa stagione; il couloir
cascata delle Barricate in Valle Stura è fiore effimero da cogliere senza
avere pudore e ritegno di amici tecnicamente meno bravi ed atleticamente
meno preparati.
Lui sa che io sono un inguaribile brontolone di mezza
età, e quindi fa orecchio da mercante alle mie lamentele ed ai miei distinguo,
che spaziano concettualmente ed abbracciano ogni e qualsiasi motivo –
plausibile e no – per convincerlo che quella salita non fa per me, che
è superiore alle mie forze.
Fatto sta che, un paio d’ore dopo e sempre ben
prima dell’aurora, mi trovo a caracollare dietro ai due forsennati che
stanno risalendo di gran passo la scarpata che porta all’attacco delle
“Barricate”.
G. Ghigo/G. C. Grassi, 29 gennaio 1984: coppia e data
storica per quello che allora fu definito cascatismo. La colata a
sud del Monte Bianco più alta d’Italia, 500 metri di dislivello su
altissime difficoltà (almeno per quei tempi), una valutazione di tutto
rispetto (ED inf), la precarietà della struttura, l’effemerità
come la chiamava Grassi, la corsa dei primi salitori non “incontro” ma
“contro” al sole, per poi accorgersi al ritorno che la parte bassa era
crollata, diventando impraticabile.
Ed io, piccolo, acciaccato, attempato ed impreparato,
ventun anni ed un giorno dopo la prima salita, che mi sto fissando i
ramponi alla base del primo salto, scrutando nel buio le sottili lame
luminose prodotte dalle frontali delle cordate che già ci stanno
precedendo, come in una brutta ed onirica copia di Guerre stellari.
Di questa cascata ho raccolto tanta letteratura,
tanti libri che ne riportavano la relazione tecnica e le considerazioni
“filosofiche”, ma adesso ho rimosso tutto dalla memoria, vivendo
l’avventura come in un sogno – e speriamo che non ne venga fuori un
incubo.
Comincia così il viaggio sulle “Barricate”, un
viaggio di fatica e di impegno, di sforzo e di tensione.
E’ un viaggio
importante, almeno per me che certe salite le ho sempre viste lontano e da
lontano, a nutrire un immaginario di sogni proibiti più che di
aspettative non soddisfatte.
Primo tiro, secondo tiro, poi il sole arriva puntuale
ed implacabile a riscaldare ed a sciogliere. Ghiaccio morbido, senza
dubbio; fin troppo, per i miei gusti. Ghiaccio lavorato, a candeline e
spaccature, dove puoi e devi incastrare la piccozza cercando di non
smantellare questo simulacro di architettura glaciale, dove cerchi di
farti piccolo per strisciare tra le pieghe riscaldate di una rigorosa e
severa verticalità.
Si cerca di far presto, velocizzando le manovre ed
applicando ferree strategie accuratamente elaborate “a terra”. Ci
portiamo sotto il terzo tiro, una candela già danneggiata ed estremamente
lavorata, che cola acqua copiosa e fastidiosa; se avessi più tempo e più
voglia, ci starebbe bene una bella foto, da scattare proprio nello stesso
punto di quella che c’è su Ghiaccio dell’Ovest.
Anche noi facciamo così, e procediamo slegati dentro
questa spaccatura del grande castello roccioso, una fenditura che si
allarga e si stringe con il respiro della montagna. Ecco lì, ci sono
ricaduto in queste concezioni animistiche della natura; ma lascia ben
perdere, e guarda dove metti picche e ramponi sui pezzi “pedonabili”
ed “appoggiati” (che a mio parere sono comunque su pendenze
importanti, spesso muretti verticali).
A turno i miei soci schizzano via
verso l’alto; quello dei due che non corre si mette pazientemente e
silenziosamente dietro di me, più lento ed impacciato; forse per
amicizia, forse per rispetto, forse per compassione, segue le mie a volte
incerte evoluzioni sul ghiaccio di fusione, finalmente buono da scalare.
Ancora un paio di centinaia di metri di dislivello
con questo andare, sempre con la pressione psicologica del sole sulle
spalle, poi si comincia a vedere una fetta man mano più ampia di cielo,
sino a quando il canale ormai bonario spiana. Negli occhi e nella voce di
Alessandro c’è la contentezza per la salita effettuata, mentre Luciano
nel frattempo si è sbragato e si gode il sole senza più patemi
d’animo.
Ecco la differenza tra me e loro. Io non sento
niente, almeno per ora, anestetizzato dall’emozione, neutralizzato
dall’aver vissuto a posteriori un piccolo pezzo di storia alpinistica;
loro stanno già discutendo delle difficoltà della via, difficoltà che
ritengono inferiori a quanto evidenziato nella relazione originale.
Non
sono sbruffoni, tutt’altro: giunge infatti doverosa la riverente
precisazione di come le condizioni siano cambiate quanto a materiali ed
equipaggiamento rispetto ai tempi di Ghigo e Grassi.
Sull’asfalto della strada statale mi tocca quasi
correre per non perdere contatto visivo con i miei compagni di cordata,
finalmente liberi di muoversi e di parlare allo stesso passo e con lo
stesso ritmo.
Ma loro sono di un altro mondo, in senso buono. Sono
di ben altro livello, tecnico e fisico; per loro due “le Barricate”
diventerà tra breve un’altra importante e storica salita che hanno
compiuto, una delle tante.
Mauro Mazzetti