Quel millimetro...!!!
di Maurizio Caleffi
Quanto
è piccolo un millimetro, quanto è breve il momento in cui stai per
cadere e, al contrario, quante cose ti passano per la testa in quel
brevissimo istante!
E allora quel millimetro può essere la cosa più grande e importante di
quell’istante.
Che
non fosse la giornata giusta me ne accorsi subito: Cristian, il mio
compagno di cordata di quel giorno, mi stava già davanti di alcune decine
di metri nel breve ma ripido avvicinamento alla cascata che intendevamo
salire quella mattina.
Mi sentivo impacciato nei movimenti e non riuscivo nemmeno a tenere
l’equilibrio sulla neve dura e ghiacciata: davo però la colpa al
pesante zaino pieno di ferraglie che avevo sulle spalle e cercavo una
scusa nel fatto che Cristian fosse più giovane di me e molto più
allenato.
Arrivammo finalmente alla base della cascata: era ormai la quinta volta in
questa stagione!
Le prime tre non mi avevano permesso di salirla completamente, mentre,
nelle due successive, complici compagni di cordata a “prova di bomba”,
eravamo riusciti a scalarla completamente.
L’ultimo tratto presenta una candela tozza e ripida, dove non sempre il
ghiaccio è nelle migliori condizioni: solo tre giorni prima con Albi e
Franz avevamo trovato una situazione ottimale.
Ma si sa…. il ghiaccio!!! La temperatura infatti si era abbassata di
molto ed, in quel frangente, la parte finale era diventata fragile come il
vetro.
Preparando le corde alla sosta sbagliai clamorosamente ad avvolgerle,
segno evidente ancora una volta che la concentrazione era decisamente
scarsa.
Cercai per la seconda volta una scusante a questa mancata attenzione e la
trovai nel fatto che il mio compagno di cordata era niente di meno che il
responsabile della squadra di Soccorso Alpino del Tesino.
Cristian mi ricorda molto Riki: parla poco ma è molto bravo ad
arrampicare. L’essere legato a lui mi fa molto onore: siamo alle prime
esperienze insieme, ma a differenza di Riki, che conosco da più di
quindici anni, lui mi impone un atteggiamento più prudente.
Finalmente, cominciando ad arrampicare, confidavo che, come nella maggior
parte delle volte, ogni nebbia si dissolvesse ai colpi delle mie piccozze.
In effetti, il primo tiro, quello che conduce alla base della candela
finale, si svolse abbastanza bene: ancora rimaneva un po’ d’impaccio,
ma alla fine allestii la sosta su ghiaccio in modo affidabile e mi
apprestai a recuperare Cristian.
Ormai mi aveva già raggiunto e, pochi metri sotto di me, si fermò per
svitare l’ultima vite.
Come sempre capita, piantate le piccozze, liberò una mano dalla dragone
per togliere la vite: innavertitamente però urtò l’attrezzo che si
sfilò dal ghiaccio per rotolare fino alla base della cascata.
Osservai l’accaduto e immediatamente tranquillizzai Cristian dicendogli
che lo avrei calato per recuperare il “ferro”, un’operazione che si
svolse molto rapidamente: dopo pochi minuti eravamo entrambi in sosta.
Dopo uno scambio di battute sull’accaduto, mi apprestai ad affrontare il
secondo tiro e nel passarmi le viti una di queste si sfilò dal
moschettone e prese la strada che aveva preso la piccozza poco prima.
Decidemmo di recuperarla al rientro e a questo punto convenimmo che non
fosse proprio la giornata giusta!
Buttato alle spalle quest’ultimo inconveniente, iniziai a salire e dopo
una breve attraversata a sinistra misi la prima vite per poi cominciare a
salire. Avevo scelto una linea di salita abbastanza diretta e ripida e il
ghiaccio in quel punto si presentava poco compatto e inaspettatamente
fragile. Ogni colpo di piccozza staccava grossi pezzi di ghiaccio e salire
richiedeva una grande attenzione.
Giunti a metà di quella candela era necessario piazzare un’altra vite;
poco a destra era presente un minuscolo terrazzino che mi avrebbe, se non
altro, permesso di eseguire l’operazione in posizione più comoda.
Detto fatto! Al momento di avvitare la vite metà di essa entrò nel
ghiaccio senza il minimo sforzo, segno evidente che aveva trapassato un
primo strato di ghiaccio dietro al quale c’era il vuoto. Era ovvio che
così non poteva andare, e allora decisi di metterne una seconda che
fortunatamente entrò regolarmente dandomi la necessaria fiducia per
proseguire in sicurezza.
Ora mi rimaneva solo l’ultimo tratto: ritornai sulla linea di salita
prefissata e puntai diritto all’uscita.
Quest’ultimo tratto sapevo essere assai faticoso e quindi lo affrontai
con la dovuta grinta: poco prima che spianasse, ero consapevole di dover
mettere un’ultima vite per proteggermi adeguatamente.
Quante volte ho consigliato ai miei compagni di cordata di farlo!
So bene che una buona protezione in uscita è una specie di garanzia per
il buon esito di una salita.
Chissà perché decisi di non seguire questo accorgimento, forse per un
po’ di stanchezza che intendevo alleviare quanto prima possibile.
Ero ormai con il busto all’altezza del punto in cui la colata spianava a
pochi metri dalla sosta; improvvisamente le piccozze piantate di fronte a
me cedettero di schianto.
Quella di sinistra come respinta in alto dal cedimento della crosta di
ghiaccio sulla quale era piantata: quella di destra, dovendo sopportare il
peso dell’altra e sovraccaricata, si staccò anch’essa.
Una sorta d’istinto di conservazione fece sì che concentrai le
rimanenti forze sul polso destro cercando di mantenere disperatamente la
punta della becca conficcata nel ghiaccio.
Ne risultò che, mentre già la forza di gravità sembrava prendermi alle
spalle per catapultarmi all’indietro, la punta della piccozza cominciò
a grattare sul ghiaccio a mò di unghia di gatto Silvestro.
In quei pochi attimi ero già automaticamente convinto di cadere
all’indietro e ricordo chiaramente che stavo già impostandomi con i
piedi, per darmi una spinta verso il vuoto che avevo alle spalle. Si sa,
infatti, che su cascata è consigliabile cadere con i ramponi ben distanti
dalla parete: un minimo contatto con la punta di questi con il ghiaccio,
quasi sicuramente innesca il perno sul quale il corpo dell’alpinista
ruota a testa in giù aggravando di molto la caduta.
Improvvisamente e inaspettatamente la punta della piccozza di destra
fermò la sua graffiante corsa su non so cosa: la pesante mano della
gravità che mi teneva le spalle e mi tirava all’indietro era stata
fermata da quell’esile e graffiante appiglio invisibile, talmente
precario che la testa della piccozza stessa oscillava inquietantemente a
destra e sinistra.
Aggrappato a quest’ultima chance cercai immediatamente di piantare
l’attrezzo di sinistra e mi vollero almeno tre o quattro colpi prima di
riuscirci…. un tempo infinito!!
Prima di ripiantare la destra mi fermai un attimo e trattenni il fiato
come se non volessi lasciare l’esile appiglio che mi aveva risparmiato
il volo… e che volo!
Infatti, l’ultimo chiodo dietro di me era a metà candela e quindi sarei
sicuramente arrivato, in caso di caduta, rovinosamente alla base della
stessa. Se solo avessi messo il chiodo in uscita, come mi ero prefissato
ma non avevo fatto, sarebbe stato meglio… molto meglio!
Accidenti che errore avevo commesso e che razza di fortuna avevo avuto!
Mi vergognai così tanto da non confessare nulla a Cristian, ma giurai a
me stesso che mai più avrei lesinato in futuro nel mettere l’ultima
vite.
“Di se e di poi ne
son piene le tombe” diceva spesso mio padre. Può voler dir tutto o
niente, ma sicuramente ad alcuni giorni di distanza ancora penso
all’accaduto e cerco i perché. Affido a queste righe anche una specie
di confessione dovuta a Cristian al quale, in un primo momento, ho
nascosto l’accaduto. Tutto è successo velocemente e credo che lui non
si sia accorto di nulla. Sarebbe stato giusto avvisarlo e dichiarare il
mio errore nel non mettere quell’ultima protezione!
Se quell’aggancio con la piccozza non fosse intervenuto sarebbe toccato
a lui frenare la mia caduta!
Buona sorte, quindi o forse lo sguardo benevolo e guardingo dell’angelo
custode, ma senza dubbio quel millimetro di ferro della becca della mia
piccozza di destra che qualche giorno prima avevo affilato in quanto
spuntata dall’uso.
Grazie anche a lei!
M.Ice - Sorgazza: inverno 2005