Neve Rossa

di Mauro Mazzetti

Il febbraio 2004 sarà ricordato per un fenomeno insolito, almeno in Italia; la sabbia rossa del deserto africano avvolse tutto lo stivale, risalendo verso nord le isole maggiori, la dorsale appenninica e la pianura padana, vorticando turbinosamente sulle grandi città e sui piccoli paesi di provincia, planando infine sulle Alpi dopo un viaggio di sola andata lungo migliaia di chilometri.
Il profilo dei monti cambiò aspetto, come se un mago della fotografia avesse creato degli inquIetanti effetti speciali, dando una irriverente sferzata cromatica all’ambiente, ancora sonnacchioso ed avvolto nella sua pigra coperta invernale. I rilievi furono segnati da un sottile tratto rosso, che marcò la linea degli orizzonti verticali; i pianori assunsero all’albeggiare una colorazione quasi violacea, colpiti di sghimbescio dai primi raggi di sole; i canali nevosi mutarono aspetto, più simili agli stretti sentieri lastricati di mattoni cantati da Fabrizio De Andrè che a scivoli bianchi e candidi.
Tutto questo pensavano i due alpinisti che, partiti nottetempo da Genova, stavano risalendo il couloir alla fine della - ed in cima alla – lunga ed interminabile valle piemontese. Una bella gita, preparata con attenzione: un posto dove erano stati tante volte ad arrampicare sulla roccia di quel paio di enormi cilindri accostati, ma mai portandosi dietro piccozze e viti da ghiaccio. La via, evidente e lineare, si snodava dapprima su ampi e dolci pendii, che si raddrizzavano all’improvviso in ripetuti sussulti di ghiaccio tendenti alla verticalità.
I due rallentavano man mano, riducendo il ritmo e macinando sempre più stancamente il dislivello che avevano sottovalutato, affondando fino all’inguine nella neve non trasformata e battendo faticosamente pista tra un risalto ghiacciato e l’altro.
Il tempo stava passando veloce, e loro erano ancora in alto mare (ma forse i due non avrebbero apprezzato questa battuta, presi e compresi nello sforzo di togliersi al più presto da quel pantano nevoso). Infine, dopo un ultimo traverso effettuato senza tenere conto della pericolosità del pendio valangoso, erano sbucati al colle, alla fine delle difficoltà e della giornata.
Il ritorno si presentava lungo e faticoso, tortuoso nell’andamento della sua logicità orografica; il sole stava calando dietro il massiccio alle loro spalle, mentre la temperatura se ne infischiava del tramonto e si manteneva su livelli primaverili.
Dopo aver scollinato, erano scesi lungo facili distese innevate, sprofondando incessantemente nel largo canale che portava all’altopiano, da cui sarebbe cominciata la delicata discesa sulla valle principale.
Ogni tanto, in assenza di tracce, si avventuravano su placche rocciose con neve appoggiata, fiutando il percorso giusto che li avrebbe portati al bivacco appollaiato sul bordo del dirupo; da lì la discesa sarebbe stata evidente, anche se pericolosa.
Sarebbe stata evidente.
Ma intanto il buio scendeva veloce e li colse durante un passaggio delicato di arrampicata in discesa.
E’ strano come, durante l’azione e sotto lo stimolo dell’adrenalina, si perdano la nozione e la cognizione del tempo che passa. Presi dalla discesa e concentrati sui loro passi, non si accorsero del crepuscolo; erano ancora in mezzo alle difficoltà – forse trovate senza averle cercate – quando si accorsero che non ci si vedeva più. Per soprammercato, stava scendendo la nebbia, portata da un grigio vento freddo.
Strinsero i tempi, ormai consapevoli dell’incolmabile ritardo accumulato, prima durante l’infinita salita, più simile ad una laica via Crucis che ad una marcia gloriosa e vittoriosa, poi durante l’eterna e spossante discesa alla vana ricerca di una traccia decente e rassicurante.
Fu solo fiutando e percependo con gli occhi della mente che intuirono il bivacco, di una sfumatura di grigio appena appena più chiara dell’avanzato crepuscolo in cui si stavano muovendo da ore ed ore (così a loro sembrava).
Con le piccozze scavarono un cunicolo, ma forse “trincea” sarebbe più indicato, ripensando alla battaglia che avevano combattuto per arrivare fino a lì. Giunsero esausti e senza fiato alla porta dell’ingresso invernale, che si aprì con difficoltà ed a prezzo di grandi fatiche.
Dentro non c’era niente da mangiare, esattamente come nei loro zaini, preparati per una salita in giornata ed impreparati ad una notte all’addiaccio.
E’ vero, non erano sotto le stelle ma al riparo del bivacco; eppure non erano contenti, lontani da casa ed impossibilitati a comunicare con le famiglie per avvertire del non programmato ritardo nel rientro. Senza “tacche” sul cellulare, lontani ancora parecchie ore da telefoni e reti internet, fecero buon viso a cattivo gioco.
Cominciarono così a prepararsi per passare la notte, tormentati non tanto dalla fame quanto dalla sete che si portavano dietro dal mattino.
Niente attrezzature – che diamine, alle sette di sera siamo a Genova! Niente bevande pseudoenergetiche, paratonificanti, metaintegratrici. Niente acqua di borraccia, la più dissetante che ci sia dopo una grande sudata. Persino niente alcolici e vino, perché erano due veri asceti puristi.
Avrebbero voluto essere meno integralisti sulle bevande, meno talebani nei confronti dei liquidi (peso in più da portare sulla schiena, ma adesso indispensabili).
Il ricordo dei racconti di Bonatti non li aiutava certo a sentirsi meglio. Chi se ne frega della tragedia del Freney, della salita al Dru, del bivacco della morte sul K2; loro adesso avevano sete, sete davvero e non per averlo letto sui libri.
Un colpo di fortuna: dentro il bivacco c’è un fornelletto. Ci fossero anche i fiammiferi sarebbe il massimo. Certo, i due “talebani” non fumavano e figuriamoci quindi se si portavano dietro fiammiferi e/o accendini. Ma il bivacco rispose positivamente alle loro mute preghiere: due “Minerva” due, non di più, da centellinare e da tenere da conto, da salvaguardare quanto e meglio del panda minore e dell’uccello dodo.
Con estrema attenzione, con gesti lenti e misurati, accesero il fornelletto: di acqua non ce n’era, ma di neve quanta ne volevano.
Solo, quella neve aveva uno strano colore, ben diverso dalle sfumature cangianti ed affascinanti che coloravano delicatamente i perfetti cristalli geometrici,  che creavano seducenti ed abbacinanti riflessi, che muovevano ad auliche considerazioni letterarie: quella neve era rossa, impastata con la polvere del deserto, giunta fin lì dopo un interminabile viaggio.
Dapprima si rifiutarono di sciogliere quel pasticcio per farne bevanda; gli stomaci si chiusero al pensiero di dover ingerire il liquido prodotto da quell’inquietante mistura, da quella strana poltiglia, da quell’infernale somma di elementi contrastanti.
Poi però la sete fu più forte, intensa e sferzante. Si decisero, ed a occhi chiusi, come se ingurgitassero una cattiva medicina, si fecero coraggio.
Alla vista sembrava uno strano the, color arancia e cannella, o piuttosto l’aromatico e dissetante karkadè; al gusto invece, masticarono sabbia in quantità, fra i sospiri di rassegnazione e gli scricchiolii dei granelli fra i denti.
Comunque qualcosa avevano mandato giù, e si apprestarono a passare alla bell’e meglio la notte, nera e cupa di nuvole che nascondevano la luna, senza il conforto delle pile frontali con batterie ormai esaurite.
Passò un po’ di tempo (un’ora, o forse più, chissà); poi uno dei due si alzò, in preda ad un bisogno impellente ed improcrastinabile. Uscì nel silenzioso buio assoluto che avvolgeva il bivacco, cominciò ad armeggiare con la cerniera della salopette e si ritrovò a temere i risultati di quella bevuta fuori ordinanza e fuori ogni logica.
Soffriva infatti di calcolosi renale, e certo tutta quella sabbia ingerita con la poca neve disciolta non avrebbe portato beneficio al suo malanno. Quasi presagendo e preavvertendo il dolore, urinò un liquido che gli sembrava di uno strano colore, altro che il canonico giallo paglierino delle analisi mediche. La tensione si allentò un poco al termine dell’operazione, suggellata da un grugnito di soddisfazione: era andata meglio del previsto, e sembrava che la sabbia avesse addirittura svolto il compito di diuretico.
Grugnì di nuovo, anzi no: il rumore veniva da dietro il bivacco, ed era accompagnato da strani fruscii incomprensibili.
Pensò che anche il suo compagno avesse effettuato una notturna gitarella diuretica, perché una rapida ricognizione all’interno della costruzione ne confermò l’assenza; ma il grugnito si ripetè, adesso simile ad un ringhio sommesso e rabbioso, emesso certamente da animale più che da umano.
Una leggera apprensione lo colse, proprio come quando era sfuggito ad una scarica di seracchi sotto la goulotte Cherè al Triangolo di Tacul; allora aveva riportato a casa la pellaccia solo in virtù di uno shining, di una premonizione irrazionale ma salvifica. Gli si drizzarono i peli sulle braccia, gli si chiuse la bocca dello stomaco, e forse si risvegliò in lui l’istinto animale sopito in ogni uomo; impugnò una piccozza e, dopo un profondo respiro, fece il giro del bivacco, pronto ad ogni incontro.
Ma non era pronto a quello che vide.
Accucciato (o accasciato?) di fianco ad un enorme masso, stava un essere informe, senza connotati definitivi per l’identificazione: poteva essere un cinghiale come un predatore notturno, perché nel buio non era possibile individuarlo e riconoscerlo.
Solo gli occhi brillavano nella notte, colpiti ed illuminati da un raggio di luna piena che si era fatto largo a fatica fra le dense e minacciose nuvole nere.
Tutto il resto faceva pensare ad una bestia, che si muoveva a scatti, attenta al pericolo che intuiva e fiutava nell’uomo davanti a sé; solo gli occhi avevano un barlume diverso, come di persona.
Entrambi percepirono la rispettiva paura, un odore forte nelle narici, un gusto amaro in bocca, un ronzio inquietante nelle orecchie; poi l’uomo, fino ad allora basito come dopo l’incontro con un basilisco, abbozzò un impercettibile movimento, alzando il braccio armato di piccozza in un gesto automatico di difesa e di offesa insieme.
La bestia ringhiò, mostrando zanne acuminate ed appuntite, ruggì la sua rabbia – e la sua paura; indietreggiò, muovendo asincronicamente le quattro zampe, infine assunse una stazione semieretta e scivolò senza rumore fuori dall’esile cono di luce lunare.
Restò solo la puzza di selvatico, dentro cui l’alpinista fiutò, o gli parve di fiutare, altri odori ed altri sudori, che gli ricordarono il suo compagno sparito.
Scrollò la testa per scacciare cattivi e strani pensieri, ma non riuscì nell’intento: la sottile inquietudine che aveva provato all’uscita dal bivacco si era trasformata in paura profonda, la paura dell’ignoto ancestrale, della morte ineluttabile, del mistero insondabile. Corse dentro l’effimero riparo della baracca, consapevole che la bestia avrebbe spazzato via tutto, che nulla la avrebbe fermata; chiuse la porta, ansante ed impaurito, solo aspettando l’attacco di quell’essere mostruoso e sanguinario.
Ma i minuti passavano senza che niente succedesse; e questo vuoto di azione era ancora più lacerante ed angosciante. Stretto su se stesso, l’uomo contava il tempo che non passava, spiando ogni piccolo suono, ogni infinitesimale rumore che proveniva da fuori. La piccola porta del bivacco rappresentava le sue colonne d’Ercole, oltre le quali la terra finiva, oppure il mare nostrum, dopo cui – ricordava nitidamente una antica carta geografica – c’erano i leoni, hic sunt leones.
Lui non aveva leoni da affrontare, bensì un mostro strano e che purtroppo gli sembrava di aver conosciuto sotto altre forme.
Finalmente, verso est comparve una sottile e fiduciosa lama di luce, che lo colse semiaddormentato e riverso sul pavimento spoglio del bivacco. Attese finché il chiarore divenne palese e riconoscibile, poi si decise ed aprì la porta.
Attorno erano evidenti le tracce della bestia: resti piumati e brandelli di carne, miseri avanzi di qualche animaletto sorpreso dalla ferocia del mostro. E poi, poco più in là, un mucchietto arancione, lacero rimasuglio della salopette del suo amico.
Non resistette alla terribile pressione che gli opprimeva il petto, mozzandogli il respiro e comprimendogli i polmoni, piegandogli le gambe e irrigidendogli le mani. Cominciò a correre, senza voltarsi indietro, a capofitto per il sentiero esposto e pericoloso, la gola colma di nausea e di terrore. Non gli usciva alcun suono dalla bocca, le fauci secche sembravano avvicinarsi sempre più a terra, mentre si aiutava nella corsa con le zampe.
Dal fondovalle stavano risalendo alcune persone vestite di rosso, volontari del soccorso alpino alla ricerca dei due dispersi.
Fermate le motoslitte, proseguivano lungo la pista di fondo che si incuneava sulla destra orografica della valle; dopo un’ascesa faticosa, si lasciarono alle spalle il bosco ed i pendii innevati, raggiungendo il sentiero che i due dispersi avrebbero dovuto percorrere per rientrare alla loro macchina, ferma e visibile alla fine della strada asfaltata.
Proprio sopra di loro, stagliata contro il blu cobalto del cielo, videro una strana forma animale, che ruzzolava tra pendii nevosi e sfasciumi di roccia, saltando agilmente di pietra in pietra. Per un attimo, la bestia li fissò, poi sparì alla vista, inghiottita dalla montagna.

Mauro Mazzetti