Dagli al “caiano”

di Redazione "Lo Zaino"


E’ fuori di dubbio che in questi due ultimi decenni la considerazione che i giovani hanno del Club Alpino Italiano sia assai diminuita rispetto al secolo scorso, nel migliore dei casi rarefatta in un indifferente distacco.
Ciò a dispetto dell’accresciuto numero dei soci, giusto vanto del Sodalizio.
Sarebbe però interessante avere una statistica sull’età media del socio del CAI: io credo che si scoprirebbe che è aumentata di parecchio.
Si è cominciato con le critiche per nulla velate che apparivano sui forum più in vista: è lì che è stato affibbiato, con evidente significato dispregiativo, il nomignolo di “caiano” a quel socio CAI che acriticamente segue le direttive e soprattutto le vetuste mode di un attempato modo di intendere associazionismo e modo di andare in montagna. Se ci si prende la briga di visitare un po’ di profili facebook, con annessi e connessi post e commenti, si vede che la parola “caiano” è ormai diventata d’uso comune: a certuni sembra che l’essere iscritto al CAI sia una nota di demerito. E non è più uno scherzo.

Tutto questo può apparire assai impietoso e inaccettabile a chi ha creduto e crede nel CAI, un’associazione alla quale ha dato e dalla quale spesso anche ricevuto. In questi individui, la conseguenza più immediata è l’allontanamento da ogni tentativo di comprendere almeno qualche perché.
Eppure gli esempi storici che c’insegnano che questo genere di processi è del tutto normale non mancano di certo: ne cito, per brevità, solo due.
1) All’inizio del secolo XX, specialmente subito prima del primo conflitto mondiale, nacquero parecchie associazioni che, a vario titolo, si distaccavano radicalmente del Club Alpino Italiano, rivendicando altri scopi e altri modi di andare in montagna: che diventava quindi anche “operaia” e non soltanto appannaggio di nobiltà e borghesia.
2) Posteriormente ai moti del 1968, le acque dello stagno furono assai agitate dal Nuovo Mattino, che abbatteva il mito della vetta e della conquista ad ogni costo, ma anche dall’articolo di Reinhold Messner "L’assassinio dell’impossibile", che rivendicava senza mezzi termini la necessità di un ritorno immediato all’arrampicata libera e quindi l’abbandono, da parte dell’istituzione CAI, del modo di celebrare le imprese, fino a quel momento impostato sulla conquista (senza badare al come si conquistava).

E’ un dato di fatto che il CAI, da almeno una quarantina d’anni, ha dato ben poca importanza nelle sue pubblicazioni e nella sua attività culturale all’alpinismo nuovo, ai giovani. Se si escludono le serate organizzate dalle Sezioni del CAI in onore di nomi nuovi, accanto a quelli vecchi, non rimane nulla. La mia opinione è che se si trascura l’alpinismo dei giovani, ci sarà (come in effetti è stato) un generale loro allontanamento (anche di coloro che non scalano ma sono appassionati di montagna) da un’associazione che mai potrebbero sentire consona ai loro bisogni. Aggiungiamo la frammentazione dell’alpinismo che si è verificata, con una serie di discipline assai diverse che non sto neppure a elencare. Nessuno, a livello generale, ha seguito con attenzione l’evoluzione di questo fenomeno, neppure il Club Alpino Accademico, che più di tutti avrebbe dovuto farlo. Tanto è vero che oggi il CAAI è tra le associazioni a più alta età media dei soci. Non sostengo che il CAI avrebbe dovuto inseguire tutte queste singole discipline: al contrario avrebbe dovuto (come ha fatto, in qualche caso controvoglia) scortare e favorire il passaggio a organizzazioni più dedicate, intavolando però con loro una seria collaborazione.

Ricordo i Festival di Trento degli anni Settanta, ma anche degli Ottanta: erano pieni zeppi di vita, pochi eventi ma tanti invitati, il fior fiore degli alpinisti da tutto il mondo. Si facevano due convegni, non di più, accanto alla regolare proiezione dei film in concorso. Ma quelle riunioni sono risultate memorabili in più occasioni, con lo scontro appassionato di persone che ci credevano. Oggi un normale Festival di Trento ha anche fino a cento eventi, piccoli e grandi: ma in nessuno si verifica l’accensione di quella scintilla che nel passato portava i protagonisti, dopo essersi massacrati nelle discussioni pubbliche, a fare vere amicizie a suon di birre fino alle tre del mattino e a programmare imprese e scalate assieme. Nessuno di questi eventi ci fa battere le mani fino a spellarcele, tutti in piedi. Altro che “social”! Oggi si preferisce invitare il grande personaggio, quello che fa rumore sui giornali e presso il grande pubblico: e ci si dimentica della base (costituita guarda caso dai giovani): e senza la base che soffia sul fuoco non c’è fiamma, non c’è passione.

Non escludo affatto che il CAI possa recuperare il terreno perduto: si tratta di comprendere i perché, fare autocritica e ascoltare con pazienza. Si tratta di capire che il futuro è in mano ai giovani e che, se vogliamo aiutarli, non è accettabile l’arroccamento su posizioni prestabilite e ufficiali, considerate le uniche possibili.
Non deve cadere nell’errore che basti dotarsi di strumenti social alla moda (LinkedIn, Instagram, Twitter) per mettersi al passo con i tempi. Il cambiamento dovrà essere radicale, al posto di qualche piccola battaglia ego-riferita dovrà essere soffio vitale nelle pieghe di qualunque riunione del CdC, nelle assemblee, nei consigli di Presidenza, nella rivista del CAI, nei comunicati, nei rapporti con le associazioni ambientaliste, ecc.
Nessun giovane ha mai contestato il Bidecalogo ma, guarda caso, questo prezioso strumento è tra i più disattesi nella pratica quotidiana di CAI e Sezioni!

Sarà una via molto difficile e parecchio esposta a errori e fallimenti. Però l’alternativa è la fine del CAI: prima si verificherebbe la progressiva dispersione dell’autorevolezza culturale fino all’annullamento, in seguito la frammentazione totale in un arcipelago di Sezioni, e infine il crollo delle adesioni.

Redazione "Lo Zaino"
Dagli al "caiano"
Autunno 2022


Nota della Redazione intraigiarùn. L'articolo è stato ripreso dal Gogna Blog sul quale lo abbiamo letto e da lì condiviso. Ha avuto 160 commenti dei quali ne abbiamo estrapolato uno che vi presentiamo qua sotto. Successivamente ci è arrivato in redazione un commento di Giovanni Preghiera, legato a questo commento e all'articolo così, per completezza di informazione, ecco quindi articolo de Lo Zaino, il commento di Marcello Cominetti e nella sezione commenti trovate quello di Giovanni Preghiera.
  



COMMENTO di Marcello Cominetti (da Gogna Blog)

Secondo me non si tratta di crisi di associazione ma di carenze in senso pratico.
Non so perché ma molti, sicuramente non tutti, soci Cai si ritengono “arrivati” e non fanno nulla per migliorarsi ma semmai si nascondono dietro a una tessera.
Essendo cresciuto nel disprezzo delle tessere di qualsiasi tipo, la mia frequentazione del Cai è sempre stata sporadica fin dall’inizio. Mi piaceva da matti andare in montagna fin da ragazzino e quando due miei amici si scrissero al corso di alpinismo io partecipai a un paio di lezioni teoriche in sede per vedere di cosa si trattava e capii che non faceva per me.
Entrai in simpatia con un paio di istruttori dissidenti (uno era Andrea Parodi) che mi portavano in giro (io ero minorenne e quindi non avevo l’auto) e mi insegnarono un sacco di cose. Ma anche loro, che erano persone davvero in gamba, non impazzivano per il Cai e parlavano già negli anni ’70 di muffa e arretratezza.
Ovvio che questo mi formò in tal senso e quando divenni guida alpina, notai, e noto ancora, nel socio Cai (che io chiamo caiota più che caiano) una specie di marchio indelebile che lo rende involuto e assolutamente non al passo coi tempi, sia tecnicamente che, soprattutto, mentalmente.
Ovviamente ci sono le eccezioni, ma sono rarissime.
Si riconosce dopo cinque minuti se uno è caiota oppure no.
Dal suo rapporto con lo zaino, da come si atteggia e soprattutto da come pensa.
È come se la situazione in cui il Cai lo mette, dopo un po’ di frequentazione, lo rassicurasse al punto di non volere più fare nulla per cambiarla perché quell’equilibrio rassicurante potrebbe rompersi, aprendo scenari sconosciuti. Quando vengo contattato da un potenziale cliente che mi dice che è del Cai, mi dico, oddio, vediamo cosa si può fare. E sono contento quando mi sbaglio perché succede pure che trovo persone in gamba che….poi mi dicono che il Cai lo frequentano poco o che si sono iscritti per l’assicurazione.
Da quando il Cai ha puntato sulla quantità dei soci e non sulla qualità le cose sono terribilmente peggiorate.
Pur di tirare su gente si fanno cose che vanno contro gli impegni statutari dell’associazione.
Ricordo una volta che in occasione di un’esercitazione del Soccorso alpino, di cui ai tempi facevo parte, che c’era la possibilità per dieci soci Cai di fare un giro panoramico in elicottero gratuitamente. Ebbene, ci fu una specie di massacro per aggiudicarsi il posto. Ma ne potrei raccontare a decine di episodi assurdi e anche molto più gravi.
Insomma il Cai è il Cai, qualcosa di inimitabile.
E non ditemi che non ve l’avevo detto.