Il viaggiatore inglese

Un racconto di vacche e turisti nel 1938

di Angelo Longo


Io e Stefano ci troviamo di giovedì. Stefano abita da solo, all'entrata del paese di Siror, nella casa che era del padre e prima ancora del nonno e del bisnonno.
E’ un edificio lungo e giallognolo, già segnato nel catasto napoleonico del 1814, dove stalla, abitazione e scantinati formano un tutt’uno di tre piani con finestre irregolari e tetto in lamiera; ad un terzo della facciata principale sale, coperta da una vite, la scalinata di pietra che porta al primo piano.
Stefano è classe 1931, allevatore, possidente, bacàn; dimostra tutti i suoi anni con occhi umidi in un viso tondo, pulito, solcato da rughe nette e geometriche; i capelli corti e bianchi, le mani grandi e nodose sempre strette alle ginocchia. Mi aspetta accanto alla stufa verde smeraldo, ingobbito sul divano, con addosso un grembiule dal blu intenso sopra a camicia a quadri e pantaloni di velluto.

Io e Stefano ci troviamo per parlare, abbiamo 52 anni di differenza; sono ormai dodici i nostri dialoghi registrati, dodici interviste per una “storia di vita”.
Di giovedì salgo le scale ed entro in soggiorno senza bussare. Siedo al fianco di Stefano e di fretta accendo il registratore, ho appena il tempo di salutare che le sue mani e i suoi occhi iniziano a inquietarsi: sono le parole a premere, a diventare prima sguardi e gesti, poi racconti lunghi e gonfi.
Stefano racconta del passato, della vita da contadino: è memoria, ricordo, rievocazione del suo mondo antico segnato da avventure giovanili e attività lavorative. Racconta per aneddoti Stefano, narrandoli tutti d’un fiato, quasi in affanno come sommerso dalle parole, mettendo sé per l’alto mare del racconto. 
È l’11 febbraio 2016, l’ottava intervista, quando Stefano mi racconta del siór inglese.

Stefano e l’inglese
È l’estate del 1938 a Malga Ces, Stefano ha sette anni ed è lì con il padre Giovanni, capomalga.
Ces è un alpeggio poco distante da San Martino di Castrozza, è una zona ampia e comoda, la più importante malga del Priorato: capace, nel 1839, di ospitare 200 bovini e 400 pecore. Un secolo dopo, nel 1938, i capi bovini sono meno numerosi: al mese di giugno pascolano circa 140 vacche, manze e vitelle provenienti dai prati di mezza quota. Hanno seguito la stagionalità del prealpeggio, el tramudhàr da un prato privato all’altro inseguendo l’erba: brucano e concimano, poi cambiano prato, e l’erba poi ricresce per essere falciata. D’autunno avviene l’inverso: il postalpeggio dall’alto al basso.
Gli animali della famiglia di Stefano tramùdhano per nove volte da marzo a dicembre, su quattro pràdhi differenti, ognuno dotato di casèra e stàla e tabià: dalla stalla di Siror ai Danói, poi Camp, poi Còl, quindi malga Ces; per il rientro si ripassa da Còl, Camp, Danói, poi si sale a Polìna, infine alla stalla di paese.
Il padre di Stefano è capomalga dal 1934, e lo sarà fino al 1943. A lui vengono affidati animali di Siror e Tonadico, provenienti da piccole stalle a gestione familiare: a Tonadico, in quel periodo, sono allevati 424 bovini distribuiti in 143 stalle, poco meno di tre capi ognuna. In malga sono poi cargàdhi maiali, galline, pecore e queste vengono segnata con una “c” rossa sulla schiena e lasciate brade fino a settembre sulle creste erbose del Colbricon assieme a quelle delle malghe limitrofe.

In quegli anni, oltre a Stefano e al padre, c’erano come malgari el Nicoléto Pégro: uomo magro, cupo e fumatore, svelto nella mungitura; e Anséle, un ragazzo poco più giovane di Stefano, timoroso e remissivo, intriso da una leggera svogliatezza. Stefano e Anséle sono addetti alle vitelle e manze, circa ottanta capi.
L’estate del 1938 promette male, appena giunti in malga un’improvvisa nevicata provoca la morte di una vitella.
La neve ha spinto gli animali lontano, e lei, debole e spaurita non ha resistito: paura, stanchezza, isolamento. Stefano l’ha trovata morta sotto un grosso abete. È una tragedia la morte di un animale. Soldi persi, un investimento andato. E con l’andar della stagione estiva le cose vanno sempre peggio: poca erba, poco latte, formaggio e burro scarsi di conseguenza. Il padre di Stefano è preoccupato.
Ma, un pomeriggio d’agosto, arriva l’inglese. È da solo: ben vestito, alto e fiero, curato; Giovanni gli offre un bicchiere di latte. Stefano e Anséle accorrono incuriositi. I due adulti parlano, fanno gesti, indicano i monti e i valichi circostanti. La conversazione dura pochi minuti e dopo un silenzio di parole e gesti Giovanni si rivolge al figlio: «Vieni qua, porta quest’uomo ai laghi di Colbricon, non sa la strada».
Stefano scatta come punto, quei luoghi li conosce benissimo: verso i laghi a volte scappano i vitelli, tra i massi del ripido sentiero si gioca spesso alla guerra, quella passata piuttosto che quella che verrà, la guerra è guerra.
Si parte: Stefano cammina un poco avanti e l’inglese dietro. L’uomo è lento, subito i suoi passi sono pesanti, affannati, e Stefano si ritrova spesso seduto su un masso ad aspettarlo, col mento sul palmo della mano e i talloni nudi a ticchettare leggeri sulla pietra.
Più di un’ora per raggiungere i laghi e poche e incomprensibili le parole scambiate.

Ai laghi c’è Adriano Zignòt, in una piccola baracca vende qualche bibita.
Sull’acqua c’è una barchetta.
E mentre l’inglese beve seduto su una panca Stefano decide di salire e remare un poco, qualcuno gli scatta una fotografia. È una visita breve quella ai laghi di Colbricon, il pomeriggio avanzato costringe al rientro e si torna quindi silenziosi alla malga.
È quasi notte quando Stefano e l’inglese arrivano a Malga Ces.
Le manze sono nel recinto, la màndra e le vacche già in stalla; la mungitura è iniziata: Nicoléto è seduto sullo sgabello, scàgn, con le ginocchia a stringere il secchio e la fronte appoggiata all’animale; Anséle porta avanti e indietro il latte munto. All’arrivo dei due Giovanni interrompe il lavoro, si avvicina all’inglese e fa segno di entrare nella casèra. Stefano quindi si allontana, non una parola e non uno sguardo, prende sgabello e secchio e si mette nella tettoia, teàth, per aiutare nella mungitura. L’inglese se ne andrà di lì a poco, senza salutare.

Inesorabile scorre l’estate e viene il mese di settembre, la stagione è ormai finita assieme all’erba: è tempo di valutazioni. Le candele rimangono accese fino a tarda notte, il lapis traccia righe e numeri sui quaderni contabili. Formaggio prodotto, burro venduto, soldi da avere o dare ai proprietari del bestiame: i quali pagano l’alpeggio per una manza o vitella perché non produttiva, ma pretendono prodotti o soldi per le vacche buone da latte.
Mentre Giovanni scrive e riscrive numeri e cifre, Nicoléto fuma in silenzio, Stefano e Anséle dormono.
«Qua» dice Giovanni «co se à pagà le spese no resta pì nient: ò ciapà de pi quela òlta che se à menà su el siór ai laghi che no fà tut el guadagno de la malga» (quest’anno i soldi bastano solo a pagar le spese: ho guadagnato più soldi da quel signore accompagnato ai laghi che dall’intera stagione d’alpeggio).

Io e Stefano
Stefano smette repentino di parlare, le mani tornano lente alle ginocchia e gli occhi si placano.
Mi guarda: guarda me, forse guarda l’intera mia generazione; e io guardo lui e la sua.
Sono passati quasi ottant’anni dal passaggio dell’inglese e molto è cambiato: gli animali, le malghe, il territorio; il sistema agricolo sostituito da quello turistico. Malga Ces è oggi un rinomato albergo-ristornate: una larga traccia erbosa corre davanti agli edifici e un impianto di risalita collega le creste al grande parcheggio che sta più a valle, nessun animale pascola d’estate in quella pista da sci.
Non chiedo però nulla: la vicenda dell’inglese è così chiara, esemplare; uno spartiacque: la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Rimango quindi muto a guardare Stefano; senza capire se c’è rimpianto o soddisfazione nei suoi occhi e senza capire se c’è spaesamento o meraviglia nei miei. Niente da aggiungere.
Dunque, ci diamo appuntamento per il prossimo giovedì.

Angelo Longo
Il viaggiatore inglese
(Un racconto di vacche e turisti nel 1938)
     
Valle del Primiero, febbraio 2016