Il sentiero del Maestro di pietra

di Gabriele Villa


La vita è come un sentiero di alta montagna, all’inizio non vedi la traccia, allora inizi a seguire la direzione orientandoti con gli ometti di sassi, uno dopo l’altro. Quando arrivi alla vetta, come all’età matura della tua vita, guardi indietro e non distingui più gli ometti, vedi però il dipanarsi del percorso che hai seguito, ne valuti le deviazioni, comprendi le ragioni delle scelte che hai subito, di quelle che hai saputo o dovuto fare. Peccato che, a quel punto, non rimanga altro che discendere verso valle. Pian, piano, ogni tanto volgendoti indietro.”

Il primo ometto. Quella mattina, quando aprii la cerniera della piccola canadese che avevamo piantato su un prato a lato strada quando già era buio, guardai fuori e mi apparve in tutta la sua imponenza. Sembrava la prua di una nave gigantesca che si alzava dal bosco per andarsi a conficcare nell’azzurro del cielo. Ne avevo sentito parlare, lo conoscevo di nome, né lo avevo mai visto così da vicino, l’Agner, il gigante di pietra.

Il secondo ometto. Me ne aveva parlato Bruno De Donà dell’Agner, l’estate precedente, quella del 1975. Ero a Pecol, ospite degli zii, lo aspettavo al rientro dal lavoro, arrivava con il motorino tornando da Agordo, si fermava a parlare con me, di montagna e di scalate. Io non avevo ancora iniziato a farle mentre lui, assieme al fratello Giorgio, erano diventati una cordata ben nota nell’ambiente alpinistico, i “fratelli De Donà” per l’appunto.  Una sera arrivò nervoso, “L’è doi triestini su per la Messner, speròn che ‘l piòve, così che ‘l me li destàca”. Si riferiva alla via dei Sudtirolesi all’Agner, all’ora irripetuta dopo otto anni dall’apertura, lui smaniava di compierne la “prima ripetizione”. Non piovve nei giorni seguenti, ma i due triestini ugualmente desistettero e scesero a corde doppie; Bruno ritornò tranquillo, al punto da portarmi ad arrampicare allo spigolo Est del Sass de Stria. Pareva quasi che l’Agner avesse interceduto a mio favore, ne ero felice: grazie monte Agner.

Il terzo ometto. Tornò l’Agner, un paio di anni dopo. Ero in casa di Bruno, era estate, lui era in ferie. Si sentì bussare, si affacciò un uomo alla porta, chiese di entrare, lo seguiva la moglie, appoggiarono sul tavolo alcune bottiglie di vino. Capii dai discorsi che erano un regalo per Bruno che lo aveva accompagnato sullo spigolo dell’Agner (allora Bruno era Aspirante Guida Alpina); l’uomo non faceva che ringraziarlo per quel “regalo” che gli aveva fatto nel realizzare il sogno di quella scalata. Appariva felice come un bimbo e la moglie lo guardava con un misto di affetto e di stupore: forse non lo aveva mai visto così gioiosamente felice, mentre Bruno si scherniva. Mi stupiva l’entusiasmo di quell’uomo, lo collegai all’immagine di quella gigantesca prua di roccia che avevo visto conficcarsi nel cielo della Valle di San Lucano. Compresi di non avere mai provato, nella mia poca esperienza, una soddisfazione così intensa, troppo intrisi di paure e insicurezze erano stati i miei primi anni di alpinismo.

Il quarto ometto. Arrivò il 1982 con il suo inverno in cui non nevicava mai, c’erano le condizioni per un progetto: la prima ripetizione invernale della via Pollazzon-Rudatis alla Torre di Valgrande. Ce l’aveva instillato Paolo, avendo avuto l’imbeccata da Oscar Kelemina, suo vicino nella casa di vacanza a Mareson. Sì, sì, proprio lui, l’autore della “mitica” guida del Civetta. Un’impresa? Per noi lo sarebbe stata. Una prima ripetizione invernale? Per una volta si sognava in “grande”. Iniziammo ad allenarci con la forza dell’entusiasmo e cercando consigli di alpinisti esperti, come Giancarlo Milan, perché noi di esperienza ne avevamo poca. La scalata ci riuscì nei primi giorni di febbraio , quattro giorni che per noi furono vera avventura.  Nei mesi successivi una frase irruppe nei nostri discorsi “questo è l’anno dello spigolo nord” e a pronunciarlo fu ancora Paolo, quasi un proclama. Superfluo dire che lo spigolo citato era quello dell’ Agner, da salire per la via Gilberti-Soravito. Una delle più lunghe, anzi, la più lunga delle Dolomiti, una delle più ambite, per la dirittura, l’esposizione e per tutte le caratteristiche che fanno diventare una salita una grande “classica”. Paolo si era accorto che la sua idea non aveva acceso in me euforie, non che la disdegnassi, ma la giudicavo troppo lunga per noi che fino ad allora avevamo fatto vie non oltre gli ottocento metri e quella era giusto il doppio. Seguirono accese discussioni, io restavo della mia idea, contrariato dal fatto che Stefano, con il quale arrampicavo in sintonia da tre anni, si fosse fatto convincere da Paolo. Dopo l’invernale avevo sofferto per un congelamento ai polpastrelli delle dita di una mano, avevo perso non solo strati di pelle, ma anche “gradi mentali” e non mi sentivo di arrampicare da capocordata. Stefano mi garantiva di essere in forma, l’avrebbe tirata tutta lui da primo. E poi… davanti ci sarebbe stato Paolo, assieme a Daniele… Le difficoltà tecniche erano alla nostra portata…  Alla peggio si sarebbe fatto un bivacco in parete… Anche alla Pollazzon-Rudatis c’erano stati dubbi che poi avevamo superato… Che altro mi dissero per convincermi? Del resto io ogni tanto ripensavo a quella prua che si conficcava nell’azzurro del cielo… Mi arresi e, quell’anno, in agosto, Agner fu.

Il quinto ometto. Ci vollero tre giorni per venirne a capo, ma quante cose imparai dal Maestro di pietra. Emozione alla vista del bivacco Cozzolino, minuscolo, ai piedi di quella parete che pareva non finire, ci sovrastava fisicamente, ma non psicologicamente. Al bivacco si percepiva la tensione della vigilia, io avevo sperimentato la tecnica del “domattina potrebbe piovere”, mentre Daniele accese uno strano sigarino, e ripostolo in un astuccio, se lo pose sullo stomaco… La mattina seguente alle sei e venti eravamo ai piedi dello zoccolo, iniziammo e tutte le manovre erano da fare in fretta. Seguiva una parte facile  che ci avvicinava alla parete, qualche passaggio un po’ difficile, ma niente di che. Non eravamo abituati a quei ritmi e ad un certo punto Stefano mi chiese il cambio. Accettai di malavoglia, faticai su difficoltà che non arrivavano al quarto grado, non avevo la testa per fare il capocordata e in sosta gli dissi che se non se la sentiva di tirarla tutta avevamo il tempo per scendere. Quell’anno andava così. Paolo intanto procedeva ed era meglio non perdere contatto. Ci riprendemmo da quel piccolo impiccio mentale e continuammo ad arrampicare. Sapevamo che la parte difficile sarebbe stata in alto, ma non ci spaventava, era solo quel continuo arrampicare cui non eravamo abituati che creava un certo disorientamento. Intanto l’acqua calava nell’unica borraccia a testa, ma avevamo scelto di mettere nello zaino il sacco piuma. Che errore! Oramai in alto, una sosta con i chiodi posti due spanne sopra il ripiano di un terrazzino, mi suggerì di fare sicurezza sdraiato, non ero ancora stanco, ma la posizione mi rilassava i muscoli. Eccoci al terrazzino esposto sotto il tratto di 5°+, che spettacolo la vista della valle sotto, era pomeriggio, ma bisognava pensare solo ad arrampicare. Poi … vidi Stefano faticare, provare varie soluzioni per superare uno strapiombo, riprovare, poi girarsi verso di me: “non ce la faccio…”. Non ci pensai un attimo e urlai a Paolo e Daniele, che non erano visibili, di tornare indietro per aiutarci. Dopo un po' apparve Paolo e, capita la situazione, allungò il capo di una corda e Stefano uscì dallo strapiombo. Riprendemmo di buona lena, sapevamo di un passaggio di 6°-, ma ci sembrò meno difficile del 5°+ precedente, era solo un poco delicato, forse ci era bastato …trattenere il respiro per superarlo. Ora si vedeva la parete sopra, dritta ancora, ma terminava su di uno spigolo con pendenza decisamente inferiore. Fece morale. Ci eravamo portati le staffe, a scanso di equivoci, e in quegli ultimi tiri non badammo troppo allo stile, ma a fare in fretta perché l’avvicinarsi del tramonto aveva iniziato a colorare di rosso la parete. All’ultimo tiro prima di uscire sullo spigolo appoggiato, ogni due chiodi trovavo una staffa lasciata, ovviamente per velocizzare la progressione, così uscii sullo spigolo a mo’ di omino Michelin, addobbato di staffe e di cordini. Cominciava a fare sera, rimanevano 150 metri di 2° e 3°, ma dovevamo fare più in fretta del buio, le corde non servirono più e i miei “gradi mentali” forse si erano ricomposti. Arrivammo alle 21:20 al sentiero di discesa, il buio era stato più veloce di noi, perdemmo la traccia, tornammo sui nostri passi, guardammo meglio e arrivammo al bivacco Biasin. Erano le dieci della sera, l’acqua l’avevamo finita nel pomeriggio. Avevamo salito lo spigolo nord dell’Agner, ma il pensiero non ci sfiorò, obnubilati dalla sete. Stefano si mise a mangiare, io non lo feci per paura che mi aumentasse la sete, così Paolo e Daniele. In piena notte ci ritrovammo, io e Paolo, ad aprire la metà superiore della porta del bivacco per poter inspirare l’aria umida della notte, palliativo alla sete. Ma non ci furono alternative a quella sofferenza.      

Il sesto ometto. Della mattina ricordo poco, solo che era bel tempo e ci incamminammo appena possibile, avvertendo ben presto che qualcosa non andava in noi, la testa girava, più o meno, a tutti e quattro.
Ci fermavamo e sedevamo a terra per riposare, respirare e poi riprendere la discesa. Terminarono le rocce, ci avvicinammo ai prati. Ancora una sosta. La rugiada imperlava l’erba del prato e di qualche lichene, fu allora che Daniele si inginocchiò carponi e, con l’aiuto delle braccia, percorse più volte, una traccia avanti sfiorando l’erba con la bocca e aspirando voracemente la rugiada, come un animale. Il rumore di quei risucchi non l’ho mai dimenticato, nemmeno quella scena primordiale. Arrivammo al rifugio Scarpa e vedemmo l’acqua scorrere dalla fontana, non ci parve vero poterci dissetare. A sera, durante la doccia, ricordo l’istinto di chiudere il tappo della vasca da bagno per non lasciare scorrere via l’acqua, un gesto senza senso, ispirato dalla privazione provata. Nei giorni seguenti arrivò la soddisfazione, la consapevolezza di avere concluso una scalata bellissima, su una montagna grandiosa e di avere ripetuto una via da ”curriculum alpinistico”. L’ambizione non prese il sopravvento, pensai che se avessi voluto proseguire con quell’alpinismo avrei dovuto allenarmi con metodo, costanza e determinazione, per essere al passo con le difficoltà e non arrivare al limite fisico. Avevamo arrampicato quindici ore, avevo scattato una dozzina di fotografie appena, guardato intorno soltanto alle soste, passato il materiale velocemente al compagno, mangiato quasi nulla, patito la sete: mi parve non essere quello l’alpinismo cui ambivo. L’anno seguente arrivò la chiamata per il corso di aggiornamento che mi avrebbe portato a conseguire il titolo di Istruttore regionale di Alpinismo con il quale avrei potuto organizzare e dirigere i corsi presso la mia sezione del Club Alpino Italiano presso la quale operavo da sette anni come istruttore sezionale, con molta soddisfazione. L’Agner mi aiutò a scegliere quella strada.

Il settimo ometto. Ci fu un bel novembre nel 1987, così mi ero preso tre giorni di ferie, partendo da solo con tenda e fornello in direzione Dolomiti. Dormii nella tenda al Passo Duran, fui svegliato dalla luce della luna piena, mi alzai, mi vestii e camminai fino a poter vedere la conca di Agordo e la sagoma dell’Agner con il suo spigolo inconfondibile. Il giorno dopo fui a Col di Prà e salii per la stradina di fondo valle alzandomi in quota. I boscaioli avevano abbattuto e scortecciato una pianta e i sole autunnale aveva seccato il tronco. Mi ci sdraiai sopra potendo guardare l’Agner, quasi di fronte al suo spigolo. Mi trasmetteva serenità il pensiero di averlo salito e, come se lo avessi personalizzato, sentivo che gli ero riconoscente.    

L’ottavo ometto. Nell'agosto 1989 con due amici percorsi la ferrata Stella Alpina. Quel giorno, usciti dalla ferrata, dopo la lunga traversata per arrivare al bivacco Biasin, fu strano arrivare là dove avevo dormito all’uscita dallo spigolo nord. Pure quel giorno, come già sette anni prima, si stava facendo tardi e non c’era il tempo sufficiente per arrivare sulla cima, dovemmo prendere la via della discesa.     

L’ultimo ometto. Sono passati quarantacinque anni da quel primo ometto che mi avrebbe indicato il sentiero.
Ora non ci sono altri ometti ad indicare il percorso, capisco che sono arrivato e anche questa volta non ci sarà una cima da calpestare. Nel sentiero della vita non è prevista una vetta, si capisce solo che è tardi per salire ancora, si sentono le forze scemare pian piano, bisogna iniziare a scendere.

E’ stato così anche con l’Agner, verso i quale sono salito due volte senza raggiungerne la vetta. L’Agner, il mio Maestro di pietra, una montagna che non ho mai “conquistato”, forse  perché è stata lei ad avere conquistato me.
 

Gabriele Villa
Il sentiero del Maestro di pietra
Ferrara, 7 dicembre 2020


NOTA. "Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020" di www.altitudini.it