Il nonno prigioniero del virus

di Gabriele Villa


- Dai nonno, raccontaci ancora di quella volta che sei stato prigioniero del virus.
- Guardate che non è mia una favola allegra da riderci sopra, eh?
- Dai... è una storia così incredibile… sei sicuro di non essertela inventata?

Mi domando perché i miei nipoti non giochino con il tablet e i video giochi come tutti i bambini invece di chiedere al nonno di raccontare loro delle favole di virus. Mi sa che sono bimbi un po’ all’antica.

- Dunque … intanto il virus si chiamava Covid-19, poi io non ero prigioniero, ma come tutti in quel periodo dovevo stare in casa, si poteva uscire solo per fare la spesa e bisognava mettersi una mascherina sulla bocca e sul naso per proteggere le vie respiratorie.
- Una mascherina come quella di Zorro?
- Ma no ..., Zorro doveva non farsi riconoscere e si copriva gli occhi, noi dovevamo evitare di trasmettere il virus con l’alito e i piccoli sputacchi che escono dalla bocca quando si parla. Inoltre, per non contagiarsi l’un l’altro si doveva stare a distanza di almeno un metro.
- Beh, dai, non era una cosa così difficile
- Per i primi due o tre giorni non è stato difficile farlo, ma pensate di doverlo fare per due mesi. I grandi non potevano andare a lavorare, i bambini non andavano a scuola, tutte le automobili erano ferme, tutti i bar erano chiusi, tutti gli sport erano sospesi, perfino il campionato di calcio. E quelli che prendevano il virus e si ammalavano finivano in ospedale, rischiando di morire per mancanza di respiro e altre malattie interne, come le polmoniti e le trombosi.
- Allora solo i bambini piccoli potevano andare a giocare nei parchi e nei giardini
- Eh, no! Troppo comodo. Nemmeno loro potevano uscire di casa. Nemmeno voi, se ci foste stati, ve la sareste cavata.
- Che brutto. Quando ce ne hai parlato, l’altra volta, non ce lo avevi detto questo.
- Ognuno ha dovuto fare le sue rinunce, così chi non ha potuto andare a lavorare non ha guadagnato soldi, i pensionati e gli anziani hanno dovuto rinunciare, chi a giocare a carte, chi a giocare a bocce, o anche solo ad andare a camminare sulle mura della città. Si può dire che sono stati avvantaggiati solo i più pigri, perchè loro leggevano il giornale e guardavano i film in televisione.
- E tu nonno? Non potevi andare sulle montagne a camminare come ti piaceva, vero?
- Beh… non ero ancora vecchio come adesso, così avevo dovuto rinunciare ad andare in palestra e niente montagna nei fine settimana, niente Dolomiti e anche voi avete visto quanto sono belle.
- Eri diventato come un bambino che non poteva andare a giocare sui giardini …?
- Bravi, vedo che avete capito il concetto. Per sostituire la palestra andavo a camminare sui marciapiedi perché tutte le aree verdi erano state chiuse e non ci si poteva allontanare a più di duecento metri da casa, quindi facevo il giro a quadrato attorno al rione. Inoltre uscivo solo dopo cena, con il buio, perché non volevo dare il cattivo esempio perché tutti dicevano di stare in casa e io volevo essere rispettoso di quella regola.
- Ma se era buio e non ti vedeva nessuno avresti potuto andare anche più lontano
- Eh no! C’erano tanti controlli da parte dei Vigili Urbani, della Polizia Stradale, dei Carabinieri e le multe previste erano molto salate. Una sera i Carabinieri mi hanno fermato e mi hanno chiesto dove stavo andando.
- E tu che cosa gli hai detto?
- La verità, cioè che non andavo da nessuna parte e che stavo girando attorno alla mia abitazione. Loro mi hanno chiesto dove abitavo e quando gliel’ho detto hanno capito che ero a cento metri da casa mia, perché eravamo sulla pista ciclabile di Corso Isonzo.

- E’ stato lì dove avevi visto i camosci?
- Ma no! Non ci sono camosci in città, quelli vivono in alta montagna, ero io che chiamavo quel tratto di strada il sentiero dei camosci perché quella pista in mezzo agli alberi mi ricordava la montagna. Quando passavo in Corso Piave lo chiamavo Val Pramper e quando andavo in Piazza XXIV Maggio e vedevo l’acquedotto monumentale, lo chiamavo Monte Pelmo.
- Ma è fatto tutto di cemento, come faceva a sembrare una montagna?
- Sì, però è imponente come il Caregòn del Padreterno. Siccome il giro lo facevo più volte tutte le sere, dare ai luoghi dei soprannomi di valli e di montagne mi aiutava a vincere la noia.
- Andavi sempre da solo?
- Per forza, l’altra parola d’ordine in quel periodo era ”distanziamento sociale” per far capire che per non prendere il virus bisognava stare da soli il più possibile, lontano anche dagli amici.
- Ma che brutto!
- Eh sì. E’ durata più di due mesi questa prigionia, poi hanno detto che il contagio si era un ridotto e si poteva uscire di casa e anche andare un po’ più lontano, ma sempre con la mascherina sulla bocca e sul naso.
- Così tu hai potuto tornare in montagna?
- Eh, magari. Ancora non si poteva, allora prendevo la bicicletta e pedalavo fino ad arrivare nella zona dell’aeroporto per poter camminare in campagna, in mezzo ai campi di erba medica e di grano che cominciava a crescere. Era molto bello ritrovare un po’ di contatto con la natura anche se si doveva usare la mascherina se si incontrava un amico e ci si voleva fermare a parlare con lui.

- Una volta ci hai portato anche noi, vero? C’era un canale con tutti i sassoni bianchi sulla sponda e tu ci hai detto che servivano come rinforzo contro l’acqua.
- Esatto. Però anche lì mancavano le mie Dolomiti e dopo tre mesi senza vederle mi sembrava di avere dei miraggi come succede nel deserto in cui pare di vedere le oasi con le palme. Io invece credevo di vedere una fila di guglie di roccia all’orizzonte, un bel miraggio per me.
- Ma non andava mai via questo virus?
- I medici facevano tanti esami tutti i giorni per scoprire i contagiati e così si poteva capire se il pericolo pian piano diminuiva poi, finalmente, è uscito un “decreto” che diceva che si poteva andare con l’auto dove si voleva, anche lontano da casa.
- Che cos’è un decreto, nonno?
- E’ una legge scritta con urgenza per dire ai cittadini le regole da rispettare. All’inizio diceva che tutti dovevano stare in casa, dopo due mesi che si poteva andare in giro ma solo nella tua regione e dopo tre mesi che si sarebbe potuto andare in tutta Italia.
- E tu, che cosa hai fatto?
- Ricordo che era un lunedì 3 giugno, alle cinque e mezza di mattina ero salito in auto e partito da solo.
Non mi sembrava vero che nessuno mi potesse fermare e quindi tornavo a sentirmi finalmente libero.

- Ma ti ricordavi ancora come si faceva a guidare?
- Guidare l’auto è come andare in bicicletta, una volta che hai imparato a stare in equilibrio non si dimentica più.
- Sei andato a trovare i tuoi camosci?
- No, non ero andato sulle montagne più alte, però non avevo visto nemmeno i caprioli che vivono su quelle più basse. Sembrava che anche gli animali si fossero nascosti per paura del virus.
- Nonno, ma perché ti piacciono tanto i camosci?
- Perché sono animali liberi che saltano sul bordo dei dirupi senza paura, al contrario di me che quando andavo ad arrampicare sulle rocce avevo paura e mi dovevo legare ad una corda, per il timore di cadere. Quindi sono animali che mi affascinano e che ho sempre ammirato.

Mi guardano con occhi interrogativi i miei nipotini, capisco che per loro è più facile comprendere l’amore per il gatto di casa o per un cane piuttosto che per animali che vivono sperduti sui monti.

- Sapete qual è la montagna alla quale ho pensato di più durante i miei giri notturni in città?
- Hai parlato del monte Pelmo, prima
- Fuochino … è molto vino al Pelmo e ha un nome strano, infatti, si chiama monte Penna.
- Che buffo. Meno male che non si chiamava Penna Biro!
- Infatti … è buffo vero? Visto da lontano ha una forma che ricorda un grande ferro da stiro senza l’impugnatura. Ha delle cenge che attraversano le pareti tutt’intorno e una volta ci sono andato accompagnato dal mio amico Pompeo che è di lassù e conosce anche i sentieri più nascosti.
- Nonno, ma perché con tutte le montagne grandi pensavi a quella lì con quel nome buffo?
- Perché sulle cenge del monte Penna vivono molti camosci e quella traccia di passaggio è fatta da loro. Quello era il monte che più di tutti mi ricordava la libertà che il virus mi aveva fatto perdere.
- Chissà quanti camosci avrete visto allora?
- Macché. I camosci di giorno si nascondono perché hanno imparato a diffidare dell’uomo che una volta dava loro la caccia fin sulle cime delle montagne più alte. Però abbiamo visto le capre dal collare nero, c’era un piccolo branco che pascolava su un prato ripido.


- Le capre dal collare nero? E come sono fatte? Vivono vicino ai camosci senza litigare con loro?
- Sono capre che vengono lasciate pascolare liberamente. Sono buffe anche loro, pensate che sono nere dalla testa fino a metà della pancia, poi diventano tutte bianche fino alla coda. Sembra che sia passato un matto con un pennello a verniciarle a casaccio per fare uno scherzo. Noi le abbiamo trovate oltre la metà del nostro percorso, ma il capo branco, purtroppo, si è fermato proprio nel punto più stretto del sentiero, poi si è girato verso di noi, per farci capire che non ci avrebbe lasciato passare da lì.
- E perché non voleva farvi passare?
- Per proteggere i piccoli che brucavano l’erba più avanti assieme alle loro mamme. Era molto più severo dei Carabinieri che mi avevano fermato su Corso Isonzo perché loro, dopo i controlli, mi avevano lasciato andare.
- Lui invece, era cattivo?
- Non era cattivo, faceva solo il suo lavoro di capo branco. Stava fermo immobile e ci guardava per farci capire che non dovevamo passare di lì e spaventare i piccoli.
- Non potevate girargli intorno?
- Il prato era molto ripido in quel tratto e se lui avesse fatto un salto verso di noi avremmo rischiato di ruzzolare a valle finendo nel dirupo sottostante. Abbiamo provato ad aspettare un po’, ma lui era sempre lì immobile.
- E allora come avete fatto a finire il giro della montagna?
- Dopo un po’ il mio amico Pompeo ha detto “Ne tòca tornàr indrìo!” e così siamo tornati un po’ indietro fino ad una traccia che saliva un canale ripido di erba e sassi e per quello siamo sbucati sulla cima del monte Penna. Peccato non avere potuto percorrere tutta la cengia.
- Per colpa del caprone?
- Siamo stati sfortunati a trovare il branco proprio nel punto più stretto e pericoloso, ma è sempre giusto rispettare gli animali che vivono sul posto e sono a casa loro. Sono le regole non scritte della montagna.
- Bravo nonno. E pensi di tornare al monte Penna?
- Se riuscissi a trovare la formula per ringiovanire ci tornerei di sicuro. Mi devo accontentare di tornarci con la mente perchè il pensiero non diventa vecchio e con i ricordi si arriva sempre, anche sulla cima delle montagne.

Gabriele Villa
Il nonno prigioniero del virus
Ferrara, 6 luglio 2020


Nota dell'autore.
Questo racconto è stato scritto a inizio luglio come riepilogo di ben quattro mesi di tempo "sospeso", come un rito liberatorio da un periodo pandemico che aveva stravolto le vite di tutti.
Una specie di favoletta, che la presenza di due fantasiosi nipoti, vivaci e curiosi, rende leggero il raccontare una parentesi di sofferenza fisica e mentale.
Ora, sul crescere di una "seconda ondata" di contagi, da tanti annunciata e temuta, ma senza che ci si preparasse seriamente ad affrontarla, ho pensato di tirarlo fuori dal cassetto per proporlo come gesto scaramantico a scongiurare il ritorno a una situazione di vita che nessuno vorrebbe dover rivivere, né dal punto di vista umano e nemmeno da quello (a)sociale ed economico.