Un sogno realizzato (dopo 50 anni)

di Marco Pedretti


Non è da tutti realizzare un sogno dopo cinquant'anni, desiderare di fare una cosa e aspettare così tanto tempo prima di compierla; eppure, come i ragazzi del film “Un mercoledì da leoni” che attendono bighellonando sulla spiaggia per giorni, settimane o mesi, l’onda perfetta per fare surf, io ho aspettato le condizioni ottimali per fare un viaggio su un percorso che per me, in gioventù, era mitico.
Da bambini aspettavamo con gioia il passaggio del trenino che da Calalzo di Cadore portava prima a Cortina d’Ampezzo poi a Dobbiaco, andava verso terre sconosciute, abitate da gente che, sebbene italiana, parlava in tedesco. Erano gli anni in cui alcuni irriducibili nostalgici del passato impero asburgico minavano i tralicci dell’ENEL e pretendevano di ritornare sotto l’Austria.
M’immaginavo allora quei territori abitati da gente ostile, selvaggia, una terra di frontiera come il West.
Mi ci vollero una decina d’anni per ricredermi, infatti, quando cominciai a frequentare l’Alto Adige, negli anni ’70, le cose erano già cambiate e il turismo, il benessere e una maggiore autonomia alle popolazioni locali avevano fatto il miracolo di smussare un po’ l’intemperanza dei nativi altoatesini per il governo centrale.

Così quel treno che passava quattro volte vicino alla colonia, andava e veniva da luoghi sconosciuti, il desiderio di vedere dove portava era forte, ma allora ero troppo giovane per fare un viaggio da solo, così mi rassegnai ad aspettare la maggiore età.
Mi ricordo che era un piccolo treno elettrico a scartamento ridotto di colore bianco azzurro che portava i turisti dalla stazione di Calalzo a Cortina. Passava attorno alla colonia, dove ero in vacanza, facendo un ampio giro.
Alla stazione di Calalzo i treni provenienti dalla pianura erano ancora a vapore e sbuffavano e fischiavano lanciando urli acuti all’uscita dalla stazione, lui invece usciva silenzioso come un tram di città e si faceva notare con il suo fischio più acuto ma meno potente.
Era carico di turisti, politici, intellettuali e attori che, provenienti da Roma con un wagon-lit, arrivavano la mattina riposati alla stazione di Calalzo, scaricavano le loro valige, pronti per il trasbordo sul piccolo trenino che li avrebbe portati a Cortina giusto in tempo per l’ora di pranzo.
Quel treno lo si può ancora vedere nel film “La pantera rosa” quando David Niven accompagna Claudia Cardinale alla stazione e lei sale sul vagone, era il 1962.
Poi nel 1963 ci fu il disastro del Vajont e tutte le vie di comunicazione furono cancellate; strada e ferrovia, nei pressi di Longarone, non esistevano più per una decina di chilometri.
Così per tutto quell’inverno i turisti usarono le autocorriere.
Era stata data la precedenza al ripristino della strada asfaltata, mentre la ferrovia rimase inattiva per tutto quell’inverno. Fu quindi inevitabile, nel 1964 la piccola ferrovia per Cortina fu abbandonata e soppiantata dal più flessibile mezzo su gomma. L’Italia era diventata più ricca e il boom economico faceva vedere i suoi effetti; sempre più persone avevano l’auto e snobbavano i mezzi pubblici.
Così noi in quell’estate del ‘64 non fummo più allietati dal vivace suono del trenino.
I binari incominciarono ad arrugginire e in certi punti furono tolti per lasciar posto alla strada asfaltata.

Passarono gli anni e l’oblio s’impadronì della strada ferrata, furono asportati i binari e recuperato il ferro dei tralicci dell’alimentazione elettrica. Rimasero solo le gallerie, i viadotti, i terrapieni in pietra, la massicciata in ghiaia e le piccole stazioni in stile mitteleuropeo. Nei pressi dei paesi la massicciata fu asfaltata come strada urbana con il poco originale nome di Via Ferrovia. Fuori dai centri abitati invece i contadini continuarono a utilizzare il percorso come tratturo per i loro spostamenti tra i campi. Per fortuna non è facile cancellare un’opera così importante.
Solo in alcuni punti l’incuria ha cancellato l’opera, ma si tratta di poche centinaia di metri.
Sono passati tanti anni da allora e il turismo e diventato più esigente, più vario, non solo sci e passeggiate nei boschi, ora si fa jogging, si usa la mountain-bike, ecc. e, per certi sport, la strada statale è troppo pericolosa e trafficata, meglio un percorso riservato lontano dal traffico.
E allora che cosa c’è di meglio del sedime di un’ex-ferrovia? Nulla o quasi.
Così da qualche anno l’ex-ferrovia è stata riciclata come pista ciclabile.
Io dovevo solo trovare il mio “mercoledì da leoni”.

Di solito quando programmo una gita a piedi, in bici ecc. preferisco compiere un giro ad anello, raramente torno in dietro per la stessa strada. Studiando le carte, le pendenze e le distanze avevo deciso che l’ex-ferrovia si poteva sposare con la salita al Lago di Misurina e la discesa ad Auronzo, cosicché da Calalzo si faceva un bel giro completo e ad anello, appunto. Cento chilometri totali, cinquanta di salita costante da Calalzo al Passo di Cimabanche, una breve e ripida salita al Lago di Misurina e una vertiginosa discesa fino ad Auronzo, infine un falsopiano a chiudere l’anello. Perennemente al cospetto delle Dolomiti più belle.
Nessuno dei miei amici era disposto a tanto. Troppo lungo, troppo dislivello e troppo faticoso, dicevano.
Inoltre prevedeva la sveglia alle 5:00 con partenza alle 6:00 al massimo.
Per fare il giro così le giornate dovevano essere sufficientemente lunghe ed estive, ma non troppo calde.
Meglio forse i mesi di settembre, maggio o giugno.
Infine, la condizione più importante era il tempo meteorologico: doveva essere una giornata senza nuvole, serena come di solito solo in settembre ci può essere. Non è facile incastrare tutti questi input.
Cosicché quando la prima volta decisi di fare la gita era una splendida giornata di luglio, nessuno mi volle seguire e qualcuno mi sconsigliò di farlo da solo, alla mia età. Così quel giorno cambiai programma, ma solo perché era forse, effettivamente, un po’ troppo caldo e con molto traffico in giro.
Non per questo avevo rinunciato, avevo solo rinviato di un po’ la gita.
Il 12 settembre le condizioni erano propizie, temperatura, meteo e traffico, erano ottimali.
Partenza ore 6:00, cielo terso e ancora buio, solo a Est un leggero chiarore.
Arrivo a Calalzo ore 8:45 senza forzare l’andatura. Parcheggio di fronte all’ex-colonia vicino alla Stazione FS dove inizia la pista ciclabile. Foto di rito alla colonia e alle montagne circostanti.
Partenza in bici poco prima delle nove.
Appena fuori dal centro abitato l’ex-ferrovia entra nel bosco, il fondo è perfettamente asfaltato e scorrevole.
Sale lentamente seguendo l’orografia della montagna, si adagia al suo fianco con curve sinuose, qualche costone roccioso viene bucato dalle gallerie e all’uscita vista del lago di Calalzo di Cadore e della diga sul Piave.
Perdo un po’ l’orientamento non capisco dov’è la statale, qui si vede solo natura.
Fa un giro strano per arrivare a Tai, è un percorso che non conosco, abituato come tutti a fare la strada asfaltata. Dopo una curva, supero con un viadotto la statale; ecco dov’era la strada: esattamente sotto di me.
Il percorso prosegue sul fianco della montagna quasi dentro la gola del fiume Boite.
Sulla mia sinistra riconosco l’insellatura della forcella Cibiana e il Monte Rite.
Ora l’ex-ferrovia sale costantemente in direzione Nord-Ovest, esce dalla gola e passa ora di qua e ora di là dalla statale toccando i paesini di Valle, Venas, Vodo, Borca e San Vito di Cadore tutti sotto le imponenti pareti dell’Antelao e con davanti il Pelmo.

A Dogana Vecchia dopo San Vito la valle cambia aspetto e si allarga verso la conca Ampezzana, non ci sono più paesi importanti. Di fronte le Tofane a destra il Sorapiss, qui l’ex ferrovia è stata cancellata dall’allargamento della Statale 51 e la pista ciclabile corre su terra battuta in mezzo a boschi di pino nero cresciuti sugli sfasciumi scesi anticamente dal Sorapiss.
Il Boite sulla destra si è ridotto a un torrentello e il colore verde delle montagne piene di boschi prevale sulle rocce rosate della Croda da Lago e delle Cinque Torri.

All’uscita dal bosco compare Cortina d’Ampezzo con dietro il Pomagagnon e il Cristallo.
Qui da tempo l’ex-ferrovia è stata trasformata in una promenade illuminata da lampioni, un percorso pedonale tra ville e vecchi tabià ristrutturati con panchine e fontanelle.
Supero il viadotto sulla strada per Misurina ed entro in stazione a Cortina, sono le 12:30.
Proseguo quasi subito, il giro prevede poche pause ed io sono solo a un terzo del viaggio.
Guardo sulla sinistra, per l’ultima volta, l’insellatura del Passo Falzarego tra le Tofane, l’Averau e il Nuvolau.
Qualche chilometro ancora d’asfalto poi la pista diventa di terra battuta e sale costantemente avvicinandosi paurosamente alla parete del Pomagagnon tra boschi di pino nero anch’essi cresciuti sugli sfasciumi della montagna. Sento delle voci sopra la testa; sono quelle degli alpinisti impegnati a salire la Ferrata Strobel.
Sulla sinistra vedo le Dolomiti di Fanes e di fronte la Croda del Becco. Finalmente qui il percorso entra nel vivo della natura selvaggia. Il primo pezzo di pista tra Calalzo e Cortina è molto bello, pulito ben segnalato e attrezzato, con le vecchie stazioncine leziose fatte per attirare i turisti naïf di un tempo e di adesso.
Non era quello che m’immaginavo nei miei sogni giovanili. Ora invece comincia a piacermi, qui non si vede traccia di civiltà, anche le stazioni sono sobrie fatte per i boscaioli o i militari della caserma di Cimabanche.
La caserma era l’ultimo presidio italiano in terra italiana, come l’avamposto del tenente Drogo (quello del Deserto dei Tartari di Buzzati), e serviva a tenere sotto controllo le velleità indipendentiste degli altoatesini dopo la prima guerra mondiale.

Una curva secca verso Nord-Est dentro una galleria illuminata e d’improvviso si sbuca in un altro mondo.
Qui la ferrovia corre sull’orlo del burrone, lo attraversa su un ardito ponte in ferro e prosegue per un po’ sull’altro versante dell’orrido. Sfiora le rocce friabili della montagna, entra in un’altra galleria e sbuca nel fitto bosco.
La galleria riquadra con il suo profilo il monte di fronte, ma non lo riconosco da quest’angolatura.
E’ una visuale ignota e solo chi percorreva la ferrovia poteva averla.
Anche qui la statale è lontana corre sull’altro versante della montagna. Poco più in alto ci sono i ruderi del castello medioevale di Botestagno a chiusura e controllo del passaggio nella gola.
L’insellatura del passo di Cimabanche s’intravede in lontananza, la ferrovia è già in quota, attraversa boschi maestosi pieni di pozze d’acqua poco profonda. Sul fondo sabbioso e limaccioso le impronte dei cervi e forse degli orsi. Ti aspetti di tutto in un posto così, anche l’assalto al treno da parte dei banditi.
Questo è quello che avrei sicuramente pensato se il viaggio lo avessi fatto cinquant'anni fa.
Sulla sinistra la Croda de r’Ancona con il suo foro in cima fatto dal Diavolo e a fianco la Croda Rossa, mentre sul lato destro il fianco del Cristallo e del Vecio del Forame. La strada sale ora quasi in piano e si avvicina alla statale.

Al di là della strada c’è la caserma citata, poche centinaia di metri più avanti il Passo che segna il confine tra il Veneto e l’Alto Adige, tra il Cadore (ex Repubblica di Venezia) e il Sud-Tirolo (ex Impero Asburgico), tra i boschi e le montagne ladine e i boschi e le montagne tirolesi. Qui il senso di confine è palese, non c’è nulla per chilometri, prima e dopo il passo, solo boschi, magri pascoli e cime rocciose.
Mi fermo al Passo a mangiare qualcosa (sono quasi le tre del pomeriggio).
Cerco di immaginarmi come poteva essere cinquant'anni prima: esattamente uguale.
Non c’è nulla tranne una piccola stazione, una casa cantoniera sulla statale e una baracca fatta di tronchi di legno intrecciati che avrebbe potuto costruire John Wayne nelle foreste dell’Oregon.

Riparto subito dopo mangiato, sono solo a metà percorso e mi aspetta una breve e ripida salita verso il Lago di Misurina. Da Cimabanche però c’è ancora una breve discesa nei boschi incantati fino a incrociare la strada asfaltata che porta al Lago di Landro. Abbandono l’ex-ferrovia, mancano solo una decina di chilometri a Dobbiaco, ma mi porterebbero troppo fuori strada.
Mi auguro di riprendere da qui il prossimo giro in bici verso Lienz e lungo la Drava.

La salita sulla statale è al 12% nei tratti più ripidi e li faccio a piedi, ho ancora quattro ore di luce, posso permettermelo. Il Lago di Misurina è splendido, ma troppo affollato per i miei gusti, faccio le foto alle Tre Cime, ai Cadini, al Sorapiss e al Cristallo dalla parte opposta a quella che ho fotografato la mattina.
Sono sudato per la salita e allora mi metto la felpa e il k-way. La discesa sarà veloce e tutta all’ombra dei boschi e del Sorapiss. Tocco in certi punti i 60 all’ora, mi viene la pelle d’oca nelle gambe dal freddo e allora rallento un po’. Anzi mi fermo a fare le foto alle Marmarole da dietro. Anche queste le avevo fotografate alla partenza dall’altro lato. La strada si fa più dolce, il bosco si dirada, la valle si apre con prati e pascoli ai lati.
Anche qui pochi abitanti, rare malghe e tabià antichi punteggiano i prati.



Di fronte la Croda dei Toni e le Dolomiti di Sesto, la strada ora punta verso Est.
Mi fermo ad Auronzo a fotografare le Tre Cime in controluce.
Mancano gli ultimi venti chilometri, li faccio con calma, c’è traffico che viene dal Comelico, la strada è monotona: fabbriche di occhiali dismesse, qualche grande segheria ancora attiva, molte case vecchie abbandonate.
E’ la parte meno bella del percorso, non si può dire lo stesso del paesaggio.

A sinistra verso il Passo Mauria vedo il Monte Cridola e subito accanto i Monfalconi con gli Spalti del Toro dalle mille guglie, al mio fianco quasi sopra di me incombe il Tudaio, mentre a destra in controluce di nuovo le Marmarole.
Tutti i monti di là dal Piave si stanno tingendo di ocra e rosa.
Le rocce chiare risaltano sui boschi sottostanti quasi neri. Vedo il Lago di Calalzo, sono quasi arrivato.
Mentre carico la bici vedo partire un treno, è un locomotore diesel, fischia ma senza entusiasmo e allora penso ai macchinisti del trenino bianco e azzurro. Per me hanno pianto quando la linea è stata soppressa, io lo avrei fatto. Dopo aver ripercorso, anche se in bici, la tratta ferroviaria, ho provato a immaginare lo stupore dei macchinisti e dei passeggeri quando, ad ogni curva, il paesaggio gli cambiava davanti agli occhi.
Tutte quelle montagne, quei boschi e quei paesini variopinti si alternavano senza soluzione di continuità.
Ogni stagione aveva i suoi colori e i suoi profumi; caldi e intensi in autunno, brillanti e pungenti in primavera, variopinti d’estate e accecanti d’inverno con il sole basso sulla neve candida.
Magico deve essere stato anche il viaggio durante una tormenta di neve dalle parti di Cimabanche nell’orrido tra le cascate ghiacciate.
Purtroppo un viaggio che non si può più fare in treno, ma nessuno vieta di andarci con le ciaspole.
Perciò la prossima volta, non so ancora quando, ritornerò certamente in quel posto incantato.

Marco Pedretti
Un sogno realizzato (dopo 50 anni)
Ferrara, settembre 2014