Con le sue scarpe

di Alessandra Panvini Rosati


Ti avevo detto tante volte che avremmo dovuto trovare il modo di portarlo sul Monte Piana, per un’ultima volta. L’avremmo fatta facile facile, come i turisti in agosto, con la navetta che dal bivio di Misurina risale facilmente i circa mille metri di dislivello e, con panorami mozzafiato, porta a ciò che fu il Comando Italiano nella Grande Guerra ora rinominato Rifugio Bosi, a ricordo del Maggiore Angelo Bosi. Piccolo rifugio con annesso minuscolo Museo ricco di fotografie e documenti interessanti per chi voglia soffermarsi.

Lo avremmo trascinato ancora su quei sentieri sassosi che urlano ricordi.
Emozionante il Monte Piana.
Ogni volta che ci torniamo, in una sorta di pellegrinaggio, rendiamo il nostro tributo privato a ciò che fu.
Liturgicamente, ripetiamo tra noi o per chi ci ascolta sfiorando il nostro camminare, lento ma competente, che quei due interminabili anni lassù, tra stalli invernali e operazioni di primavera, possesso della Forcella dei Castrati e della posizione K e attacco finale del 22 ottobre 2017, non portarono assolutamente a nulla, se letti in un quadro strategico militare.

Retoricamente, ci diciamo, portarono solo famiglie distrutte.
Tra queste montagne che cosa c’era da conquistare?
I Generali Italiani titubarono nell’ordinare uno sfondamento verso Dobbiaco, oltre il confine, dove non avrebbero trovato grandi resistenze.
Infatti, non lo fecero.
Si accontentarono di Cortina, che però fu abbandonata dagli Austriaci perché considerata comunque indifendibile.
Gli Austriaci decisero di arroccarsi tra questi monti per sbarrare loro la strada, soprattutto per distogliere l’attenzione dalla spallata d’orgoglio che avrebbero dato sul fronte carsico: Caporetto.
Ultimo schiaffo inutile.
Non avevano forze per avanzare oltre, né era tra i loro interessi invadere il Regno d’Italia.
Da questa parte, che guarda la Valle di Landro, dove saliamo noi di preferenza, c’erano gli Italiani, svantaggiati dalla posizione più bassa sul terreno, ma certamente più forti in numero e armamenti. Dall’altra parte della grande “pianura” che sta in cima al monte vi erano gli Austriaci, in posizione favorevole per rispondere agli attacchi.
Nessuno ebbe la meglio sugli altri.
Passeggiamo e commentiamo che il vero nemico per entrambi gli eserciti furono le difficilissime condizioni climatiche.
Quando non era la neve con le sue versioni cattive, erano i sentieri quasi verticali che causavano frane e incidenti.
Gli scontri a fuoco veri e propri furono abbastanza brevi dopo l’estate del 1915.
Guerra di trincea con attese senza fine.
A noi piace passeggiare lassù, suonare la campanella che si trova vicino alla Forcella dei Castrati, che porta il suo suono asciutto su tutta la piana brulla.

Sovente ci sentiamo infastidite dai villeggianti chiassosi che, forse solo per ignoranza storica, non riescono a tenere un tono di voce adatto a questo posto e a ciò che rappresenta.
Come se non bastasse, commentiamo l’ultima e davvero poco rispettosa idea di concedere il permesso per girare un film tra questi fiori e queste trincee.
Il Monte Piana è un cimitero e meriterebbe consapevolezza.
Ti ripetevo che sarebbe dovuto salire con noi e lì rimanere.
Tu ridevi amara e triste perché sapevi bene che non avrei mai avuto il coraggio di portare a termine il cosiddetto “piano criminale”, che ti enunciavo nei minimi ridicoli dettagli.
Così il suo momento è arrivato ed “ha fatto tutto da solo”, come mi hai scritto tu… senza bisogno di “spinte giù dal Monte Piana”.
Io cercavo solo di farti ridere, e ci riuscivo, alleviando per trenta secondi il peso di una caduta lenta ma inesorabile.
Però adesso unisco il Monte Piana al suo nome, alla “spinta” che non c’è stata ed alla canzone di Jannacci che non potremo cantare: “Commissario lei capisce ero qui che stavo andando… mi si è aperta la trincea… ho buttato giù l’Armando!”.
Ogniqualvolta ci torneremo il Piana ci apparterrà di più.

Quando risaliremo dalla Valle di Landro, per la ferrata che si attacca poco dopo il cimiterino di guerra, penseremo a un’anima in più che lì, per quel percorso, non ci sarebbe mai salito.
Lui, che correva le maratone e che amava le Dolomiti ma soffriva di vertigini!
Le sue vertigini, ricordi?
Me ne avevi parlato durante una delle nostre prime scalate insieme, ormai tanti anni orsono.
Un’amicizia alpinistica la nostra, che travalica la differenza di età, nata per caso, grazie all’occhio lungo della nostra Guida che trovò il modo di unirci in cordata, conoscendo bene le mie potenzialità, le tue titubanze, la nostra esplosività positiva quando siamo insieme in parete, con lui.
Avevo proposto il Campanile Dulfer, affascinata come sai dalle guglie, dalle pareti a picco e da quell’alpinista che aprì la via nel 1913 insieme a W. F. Von Bernuth, dando il nome all’intero Campanile.
Dulfer, un alpinista così alieno rispetto ai suoi “colleghi” della sua epoca e forse, anche rispetto a molti suoi “colleghi 2.0”.
Mentre salivamo all’attacco, con la Guida davanti ed io subito dietro che sudavo perché, essendo più giovane, portavo la corda, provavo a raccontarti tra un debito di ossigeno e l’altro chi fosse Hans Dulfer.

Da “La Storia dell’Alpinismo”
di Gian Piero Motti.
Volume 1
“Mentre la figura di Preuss domina incontrastata, si fa luce un altro alpinista tedesco di grande valore che, soprattutto sulle Dolomiti, lasciò ampia impronta di sé e dei suoi sistemi modernissimi di arrampicata: Hans Dulfer (1892 - 1915).
Affrontò le Dolomiti nel 1911 ed arrampicò fino al 1914 compiendo numerosissime ascensioni di gran classe, a 20 anni partì per la guerra e cadde sul fronte francese.
Fautore della nuova tecnica, usò i chiodi tanto per l’assicurazione che per le manovre di trazione con la corda.
Senza le sue rivoluzionarie innovazioni la tecnica non avrebbe fatto lo straordinario progresso che fece. (Tanto che ancora oggi si dice per una certa tecnica… “salire in Dulfer”).
Le sue ascensioni sono tra le più interessanti e difficili delle Dolomiti.”

"Lo sai perché alieno” - ti chiesi?"
E ti risposi - “Perché studiò medicina, legge e infine filosofia. Era un intellettuale montanaro".

Innamorato di musica e buon pianista; con quelle stesse mani divenne il miglior scalatore della sua epoca.
Inventò la 'traversata a corda' con discesa in diagonale e la tecnica per calarsi in doppia, cosiddetta 'posizione seduta alla Dülfer', oltre alla famosa tecnica di progressione Dulfer: le mani "tirano" lo spigolo o la fessura verso il corpo mentre i piedi lavorano in appoggio/aderenza sulla parete.
Il corpo è posto lateralmente su una delle pareti, leggermente appoggiato.
Facile a dirsi ma molto meno a farsi, poiché non ci si può riposare più di tanto.

Si dice che non fosse mai “volato” e questo la dice lunga sulla sua sicurezza e precisione in parete.
Volò via il 15 giugno 1915, sul fronte ovest.
Si era arruolato nel 1914, nel Primo Battaglione Bavarese di Sciatori.

Tra un racconto e l’altro sulla storia degli albori dell’alpinismo moderno, arrivammo all’attacco della via.
Iniziammo la vestizione guardando in alto con un certo timore reverenziale.
I gradi non erano fuori dalla nostra portata, ma la verticalità poteva esserci nemica.
La Guida ci rassicurò nel suo italiano innaturale: “Foi potete fare…”

Verticalità uguale vertigini.
Fu così che mi parlasti di lui, del compagno di una vita, del suo essere molto forte in bicicletta sia su strada sia in MTB, delle sue maratone e anche delle sue vertigini che non gli avrebbero mai permesso di affrontare una scalata simile. Ricordo che provai dispiacere pensando a tutto quello che si stava perdendo. Lui, come tanti altri nella sua condizione. Per noi è così spudoratamente liberatorio salire su cime e pareti e guardare in basso chiedendoci: “ma come abbiamo fatto?”.

Affrontammo il primo tiro in una giornata di sole neonato e fresco.
Tu già ti lamentavi perché non volevi stare ultima, terza di cordata, per paura che ti facessi cadere pietre sul casco.
Ho provato a rassicurarti che la via è talmente ripetuta che ormai è completamente ripulita.
Per lanciarti un sasso avrei dovuto cercarlo apposta…
Non ti ho convinta, così ti ho ceduto il passo.
Arrivate al tiro chiave della via, col passaggio di V, chiedemmo alla Guida di scattarci tante belle fotografie da mostrare al maratoneta con vertigini.
Con ritmo cadenzato e con scioltezza, arrivammo all’ottavo tiro (se non erro, qualche anno è passato), sempre con un’esposizione importante, ma chi ci pensava più?
Tu ed io eravamo in sintonia, stava nascendo un sodalizio che tuttora dura.
Eravamo sorridenti e felici, sicure nelle “mani e nella corda” del nostro Bergfuhrer che si dimostrò un “matchmaker” perfetto.
Tu eri contenta perché la nostra cordata si stava rivelando veloce; significava il poter rientrare a baita relativamente presto, tornare dal tuo maratoneta con vertigini.

Ultimo tiro. Il campanile Dulfer sta forse racchiuso qui, un tiro lungo e perfetto.
Esposizione da brividi.
Una placca “divertente” a sinistra, poi riprendere il filo dello spigolo.
A seguire un canalino nel quale tu appoggiasti il piede sul mio casco.
Non ho mai capito cosa sia successo!
Ti feci presente che non vale mettere il piede sul chiodo ma nemmeno sul casco altrui.

Finalmente in vetta! Baci e strette di mano “Bergheil” ed emozioni private.
Ti volevo già bene.

Ricordi le corde doppie?
La prima è nel vuoto per 50 metri circa e fa raggiungere la forcella tra il Campanile Dulfer e la Cima Eötvos.
Poi ancora calate nel canale ovest (verso la Forcella del Nevaio) giù fino a ritornare sul ghiaione e sul sentiero.
E via a toglierci imbrago e scarpette, mangiare un panino e ringraziare il vecchio Hans per quella via rigorosa e logica come solo lui, matematico della montagna, avrebbe potuto aprire.
Io ero alle prime armi sulle Dolomiti mentre tu avevi trascorso una vita tra quelle pareti, per non parlare della nostra Guida, la più brava di tutte.
Ero pure un po’ invidiosa per voi, che avevate una casa tra quei paradisi, mentre io dormivo in ostello con l’ansia ogni stagione di dover prenotare!
Ti dissi che, prima o poi, sarei venuta per rimanere, da viva o da morta.
Tra le mie poche convinzioni, questa perdura.
Con la corda sulle spalle, che alla fine di una giornata aumenta di peso per uno strano fenomeno fisico, ritornammo all’auto. Ognuno rientrava alla propria sera.
Dopo il Campanile Dulfer, io e te scalammo tante vie su tante cime e altre ne saliremo.
Insieme arriviamo in cima con le due ESSE: Sudore e Sorrisi.

Qualche giorno dopo, conobbi il tuo ciclista maratoneta con vertigini.
Davanti ad uno spritz, mi raccontò delle sue avventure su strada, tra bici e corsa, dei suoi arrivi al traguardo cercando il tuo viso e non trovandolo quasi mai perché arrivavi sempre in ritardo.
Si rideva, si beveva in compagnia.
Ore belle profumate di montagna.
Tu e lui, un amore d’altri tempi.

Da quei giorni, per me non esistono Dolomiti senza di te.
Unica persona che ha pianto con me in cima alla Tofana, quando ti ho passato uno dei due auricolari da dove uscivano note di un coro alpino.
Non si piange se non si è sinceri.
La nuova stagione è appena iniziata e sarà la prima senza il maratoneta con vertigini.
Non avrai fretta di rientrare a baita e questa fretta ti mancherà.
E’ andato avanti, ancora senza trovarti al traguardo ma questa volta eri giustificata.

Non desidero scrivere altro.
Calzerò le sue scarpe e lo porteremo al Monte Piana, ormai è lui che lo deve a me!


Alessandra Panvini Rosati
Con le sue scarpe (dedicato a Luigi)
Milano. maggio 2017