Neve
di Nevio Oberti
Si, quest’aria ha proprio l’odore della
neve.
Quello che riempie le narici, messaggero dei fiocchi che scenderanno.
Lassù in alto da qualche parte, forse in quella nuvola, si stanno formando.
Uno ad uno, ancora troppo leggeri per cadere e raggiungermi, come se l’arte
di un tessitore li stesse preparando: un’opera certosina, trama e ordito a
cercare forme irripetibili da qualsiasi altra mano.
Chissà da dove vengono, quali acque li nutrono.
Poi, quando arriva cadendo dal cielo, a
volte sento la sua flebile voce che mi narra del lungo viaggio compiuto.
Mi dice delle acque lontane da cui nasce, degli oceani, della pianure
percorse, dei confini superati, di tutte le creature che ha incontrato nel
suo antico viaggio.
E’ sempre un’attesa del tutto
particolare quella della neve, da bracconiere, un po’ come appostarsi per
cercare di avvistare un animale alquanto schivo e sospettoso.
Anche il colore del cielo è colore da
neve: un poco livido, ma non come quando piove o si prepara il temporale.
No, perché la neve ha una sua personalità unica, una poesia che ci viene a
trovare gonfia di meraviglie, delicata e potente, silenziosa voce
evocatrice, col suo bagaglio di suggestioni.
Ha anche una propria luce, gelosamente sua, intima.
E quel profumo, quel profumo di silenzio morbido che ne sussurra l’imminente
arrivo.
Quando i miei sensi scorgono la presenza
di questi segni è un fremito che mi attraversa, un ancestrale istinto che mi
dispone all’attesa, impaziente: allora mi preparo.
Quasi senza rendermene conto passo il
tempo a guardare in su; indugio a cercare con lo sguardo quei profili scuri
che in contro cielo possono smascherare il primo araldo dei fiocchi; a
indagare i fasci di luce che attraversano la sera per controllare; ad
annusare se nell’aria fredda avanza la sua fragranza.
Il primo fiocco è
l’apparizione di un fantasma.
Non si accompagna mai alla certezza che
veramente mi sia passato davanti agli occhi o non fosse invece solo la
voglia di vederlo a farsi immagine al mio sguardo.
Allora ecco: un attimo di
silenzio.
Era forse solo una chimera?
No, è stata l’avanguardia, la vedetta,
l’apripista.
Non erano chimere, i segni colti
veramente rimandavano a questa epifania, producendo repentinamente la
trasformazione dell’impaziente attesa nella soddisfatta riconoscenza.
Ecco un altro bianco brillio che cala
dall’alto ed entra nel mio sguardo segugio.
I primi arrivano quasi timidi,
imbarazzati e insicuri: timorosi di sciogliersi al contatto con la terra.
Finalmente abbandonata ogni titubanza,
arrivano!
Si aprono i varchi ed è un corteo di
festa che prende il via, una bianca processione che cala ad invadere ogni
spazio tra l’aria e gli oggetti.
Eccoli: uno, poi un altro e un altro.
L’aria si fa scintillio di festa, canzone che scende a cullare la terra.
L’odore riempie ormai le narici, entra dentro e riempie tutto di una gioia
che non ha parole per esprimersi, muta e sinfonica. I suoni tutt’attorno vengono accolti
some in un grembo e rinascono in nuove frequenze, come la luce che
trasformandosi trasforma il mondo e l’aria che ora si riempie della sua
inconfondibile essenza.
Ogni superficie a cui si dona la accoglie e tutto si
trasforma sotto il mantello bianco: trasfigurazione di ombre, profili degli
oggetti, del terreno, linee degli orizzonti.
Muta anche e soprattutto il mio modo di
percepire il mondo, il suo tempo, il suo spazio: i miei.
E’ una parentesi che si apre: prima o
poi si chiude, certo, ma quello che è scritto in mezzo è tracciato con
caratteri di un alfabeto primordiale, semplice ed evocativo: dimenticato o
assopito, non sconosciuto.
I fiocchi che innumerevoli cadono e danzano
nell’aria creando ghirigori e linee che si intersecano e si sciolgono e
cambiano direzione, si contrastano e accompagnano; in un soffio di vento si
scombussolano e frenetici vibrano e scattano in ogni direzione, turbinano
fra i rami scuri degli alberi nudi, negli stretti passaggi fra le case; si
abbandonano in fine sulla terra a coprirla, a ripararla, a mutarla, ad
accompagnarla proteggendola in un abbraccio materno.
Nevio Oberti
Dalmine (Bergamo), febbraio 2015