Io sono un albero
di Alessandra Panvini Rosati
Non so che genere di albero io sia.
Credo di non essere un gran bell’albero perché nessuno si ferma mai a
osservarmi davvero.
Soltanto qualche cane mi utilizza e non specifico per cosa.
Ieri un gattino si è arrampicato su fino al mio ramo più alto,
sentendosi molto un tigrotto di Mompracen.
Io però sono cresciuto – si fa per dire – tra due bidoni di raccolta
differenziata, un marciapiede che a ogni inverno si riduce malamente, un
muretto di avanzo di quello che era stato il retrobottega in un
salumiere.
Non sono alto né robusto, anzi, mi sono mancate le vitamine nel momento
del bisogno e credo di essere rachitico.
La padrona del gattino l’ha recuperato senza tanta fatica; una sedia su
cui appoggiare un piede, due braccia tese e oplà…il gattino era già
tornato a fare “miao” (ma in cuor suo ruggiva!).
Mi sento sempre fuori luogo.
Che ci faccio, qui?
Sono inopportuno, do anche fastidio.
Quando passa il camion della nettezza urbana, ne ho la conferma.
A causa mia l’autista non può accostare ma deve fermarsi in mezzo alla
via, creando code tra gli automobilisti costretti ad attendere lo
svuotamento dei bidoni.
E che ci vorrà? Cinque minuti?
Sono le sei del mattino, non è proprio ora di punta, eppure sento che la
colpa è mia, che tutti mi guardano e preferirebbero non vedermi.
Ecco, quello là sulla Smart bianca. Sta pensando: “Perché non lo buttano
giù ‘sto tronco rinsecchito?”.
“Rinsecchito sarai tu”, vorrei urlargli, cioè lo sto facendo ma lui non
può sentirmi!
Posso giusto far cadere tre foglie con spietato orgoglio! Il risultato
non è proprio lo stesso.
Se il buongiorno si vede dal mattino, ho già capito come girerà il fumo
oggi per me.
Si fanno le otto.
La biondina che abita al civico numero quattro passa col figliolo. Lui
sta imparando ad andare in bicicletta ma ancora fa fatica; gli hanno
tolto una rotellina e sbanda tutto a sinistra. Eccolo, eccolo… SBAAM.
Mi ha inferto un colpo tremendissimo con la ruota davanti!
Poi si riprende, piccolo ometto alle prime prove di sconfitta, insegue
la madre, pedalando su tre ruote.
Ripasserà dopo la scuola e mi rifilerà un altro colpo.
Dalle nove in poi transitano davanti a me i passeggiatori canini che si
dirigono verso il parco.
Bello il parco; dove vivono i miei fratelli altolocati e ben pasciuti, è
proprio vero che i ricchi si riconoscono.
Credetemi, non ne sono invidioso. A conti fatti si devono sorbire tutte
le loro deiezioni.
Va bene, sei un faggio tonico e brillante, ma sei immerso in un mare
di...!
Io, al contrario, devo essere talmente brutto che si ferma solo il cane
del Giuseppe, il portinaio del civico numero quindici.
E’ messo molto male povera bestiaccia: displasia dell’anca, mi pare, per
quello che un vegetale possa saperne.
Malattia classica dei pastori tedeschi; solo che lui è un bastardone,
mica un ariano!
Mi fa talmente pena; lo sento quando arriva dal trascinarsi della zampa
che, nella rigidità articolare, gratta le unghie sul cemento.
Cercate di capire, mi piscia addosso… però come potrei dirgli di no?
Io sono un albero e vivo in questa via anonima, di una città che è stata
bella.
Adesso è devastata dai tentativi di renderla “internazionale”.
Una volta i bambini guardavano in alto, vedevano i rami dei miei
fratelli, svettare dai vialoni signorili, dalle piazze e dalle
circonvallazioni.
Adesso, nessun bambino guarda più in là del suo tablet.
Se anche avesse uno sprazzo di curiosità alternativa e guardasse in
alto, vedrebbe solo un succedaneo di panorami “artificiali”.
Grattacieli, palazzi che non hanno un senso, forzature in un contesto
che non è il loro.
E noi alberi – cioè “loro alberi” (io, sono quello che sono) - siamo
ridotti come pigmei.
Forse, avendo una mentalità da pianta, non capisco.
Egoisticamente, non mi lamento. Attorno a me ci sono solo palazzi di
massimo quattro piani e il quartiere è ancora vivibile.
Da anni ne osservo il cambiamento.
Le espressioni di rassegnazione – fatica – tristezza oppure di gioia –
stupore - amore - gaiezza sono le stesse, ma i segni somatici sono
diventati parecchi; la cosa mi incuriosisce.
Osservandoli, trascorro il tempo tra una fotosintesi e l’altra.
Anche noi alberi siamo multietnici, che credete?
Non parlo per me, che non so nemmeno chi siano stati i miei genitori!
Tra la “mia gente” ci sono tipi strambi che vivono al mare, ai limiti
dei deserti e addirittura sulla neve!
Mi pare si chiamino mughi, rododendri … ? Mi piacerebbe vederli almeno
una volta.
Quanto pagherei per vedere la neve, quella vera.
Mi sto esprimendo male: la neve l’ho vista.
Qui, d’inverno, qualche volta cade. Gli umani vivono male questo evento
atmosferico, non capisco.
Pare che vogliano che nevichi solo dove “possa servire a qualcosa di
ludico”, altrimenti ne sono infastiditi.
Bisogna pur ammettere che, dopo mezza giornata, in città diventa una
terrificante poltiglia nerastra.
No, sul serio: vorrei essere sommerso dalla neve, quella vera.
Sentirmi le radici infreddolite ma tenute ben salde dalla fodera bianca,
che tale rimane per mesi.
Sopportarne il peso sui miei sparuti rami e pazienza se qualcuno si
spezzerà; il dolore fa parte della vita ed io so, in cuor mio, che
apparterrei a “quella vita”.
Sogno. Attività gratuita anche per noi alberi.
Immagino i miei cugini, che vivono in montagna e che hanno nomi come
carpino, abete rosso o bianco (come il vino), cirmolo.
Che dire delle betulle? Sono un po’ prepotenti. Arrivano, si piazzano e
si moltiplicano subito!
Ne sentivo parlare da Elisa, la studentessa di agraria del civico numero
dieci che a volte lega il suo scooter al mio tronco (per farvi capire di
che impegnativa circonferenza stiamo parlando).
Dice che le betulle sono piante infestanti; che brutto termine.
Sarebbe bello se una di loro decidesse di nascere e crescere qui, vicino
a me.
Le farei un po’ di spazio, ho radici misere, e me ne innamorerei
perdutamente.
Sogno, a occhi aperti anche se non li ho.
Mi piacerebbe vedere una distesa di abeti, li immagino bellissimi, prima
di un temporale, quando inizia a farsi quel buio strano, quando si
percepisce odore di pioggia elettrica e il vento fa smuovere le loro
fronde ritmicamente, un’indemoniata danza verde.
Ne parlavano Luca e Nik, i due ragazzi appassionati di alpinismo che
abitano al civico numero undici.
Tornando da un’escursione, si erano rintanati in una grotta all’arrivo
di un forte temporale osservando infreddoliti quello che io non potrò
mai vedere.
Anche qui si sente il vento, ma non è la stessa cosa.
Tra i muri e le auto, la sua forza si disperde e l’odore che trasporta
non è da ricordare.
Tuttavia non mi lamento, sono brutto e scomodo (per quelli della
nettezza urbana) ma non mi lamento mai.
Quando hanno dismesso il negozio del salumiere, avrebbero potuto
segarmi!
La salute è buona, nonostante non abbia un humus in cui sguazzare e la
sete si faccia sentire, eccome, nei mesi estivi.
Tra una foglia che cade e l’altra, si sono fatte le cinque del
pomeriggio.
Oggi la via è stranamente più vuota del solito, anche se siamo in
settimana.
Ho rivisto il futuro ciclista tornare pedalando dalla scuola; mi pare
stia già migliorando, con buona pace della mia corteccia.
Il bastardone del Giuseppe si è ritrascinato a svuotarsi la vescica.
Il sole sta calando dietro il palazzo piastrellato, in fondo alla via,
all’angolo con la rotonda che porta verso la zona industriale.
Il tramonto, in inverno, è un momento poco piacevole: senza sole
m’infreddolisco e divento rigido, quella poca linfa che ho si congela.
Da solo, devo affrontare le intemperie senza paura.
Lo scorso Natale, volevo rinsecchirmi di vergogna.
Le maestre della scuola, qui vicina, hanno deciso di addobbarmi da
“albero di natale” (proprio una bella idea), coinvolgendo i bambini di
terza.
E’ venuta fuori una cosa orrenda: sembravo un trans a fine carriera.
Va bene che sono orfano e che non incuto alcun timore, ma mi hanno
appeso quattro palline striminzite!
Le quali, naturalmente, sono rimaste tristemente appese fino a febbraio.
Quando sono state rimosse, la mia gioia era talmente tanta che non
ricordo nemmeno chi sia stato a restituirmi la mia onorabilità.
Al contrario, in estate, quando finalmente il sole scivola dietro le
case, tiro un sospiro di sollievo.
I muri della via sono infuocati, l’asfalto si scioglie, la spazzatura
nei miei due bidoni emana pessimi odori.
Mai nessuno che venga ad annaffiarmi.
A volte sento le forze venir meno. Poi arriva il tramonto e mi
rinverdisco, un po’.
Ricordo un paio di estati fa.
Dopo una primavera eccessivamente piovosa e mite, avevo tirato in piedi
delle foglie pazzesche!
Lucide, grosse, pulite.
Mi sentivo quasi bello.
Quell’estate ho potuto essere utile. Io, umile albero urbano.
La signora Luciana del civico numero sedici aveva preso l’abitudine di
venire verso sera e sedersi con un seggiolino pieghevole sotto di me.
Poggiava la borsetta di fianco, sulla mia pseudo radice e reclinava la
schiena al mio tronco.
Leggeva una rivista, si guardava attorno, come in attesa.
So cosa penserete: stava mica facendo “quel lavoro lì”?
No, non lei e non in quella via.
Luciana voleva solo stare un po’ al fresco, che io (udite udite) le
procuravo.
Sembravamo un faro (un faretto) e il suo guardiano.
Le facevo compagnia per un’oretta, non di più; poi una signora è bene
che rincasi.
Scambiava qualche chiacchiera col Giuseppe che, chiusa la portineria e
messo a cuccia il displasico, andava al bar per un “caffè col resentìn”
di fine giornata.
Ho detto bar: intendo proprio un bar.
Non è un pub, non è un lounge, non si fa l’happy hour, non si guardano
le partite di Champions, non ti danno la birra cruda.
C’è l’odore del frigo dei gelati, quello con lo sportello orizzontale,
il rumore delle stecche che cozzano le palle di biliardo nel retro e, se
chiedi un rabarbaro, te lo servono con il ghiaccio senza guardarti
storto...
Tornando le domandava sempre: “Allora, Signora Luciana, come va?”
“Prende il fresco?”
La risposta era scontata, come lo stracchino il giorno prima della
scadenza: “Buonasera Signor Giuseppe, tutto bene e lei?”.
Non proprio un dialogare sui massimi sistemi, però non potevo
intromettermi.
A volerla dire tutta, secondo me, c’era del tenero tra i due.
Vi rendete conto che cosa sarebbe significato, per me, veder nascere una
cosa bella sotto le mie fronde cittadine, periferiche e sfigate?
Non si sono mai “avvicinati”.
Troppa paura di provare a volersi bene e allungare reciprocamente una
mano.
Col senno di poi, potevo far cadere un ramo in testa a uno dei due,
magari vedeva la luce?
Io sono solo un albero, meglio non intromettermi.
Che bella che fu… quell’estate. Mi sono sentito meno solo.
Adesso stiamo per affrontarne una nuova ma, al momento, credo che non
ripeterò l’exploit di due anni orsono.
Chiamo all’adunata le mie foglie ma le sento svogliate, apatiche.
La verità è che stiamo diventando vecchi.
C’è dell’altro: siamo in odore di riqualificazione urbanistica. AHIA!
Ho visto passare furgoncini strani, geometri del Comune.
Il retrobottega del salumiere fa gola a molti.
Se decidessero di costruire un box, io sarei tagliato fuori – nel vero
senso del termine.
Potrebbero anche valutare l’ipotesi di creare un micro spazio verde:
un’aiuola con due panchine.
Sarebbe un po’ desolante ma farei la mia porca figura!
Magari, Luciana e Giuseppe, potrebbero riprovarci? Non sempre in un
amore è “buona la prima”!
Purtroppo non ho alcun potere decisionale.
Mi dispiacerebbe finire nel camion della nettezza urbana.
Potrei almeno servire a bruciare in un camino oppure a cuocere due
pizze.
Impensabile che venga sradicato e messo altrove.
Se solo potessi scegliere!
Via da qui, trascinerei le mie radici per andare a trovare i miei cugini
al nord.
Che speranza, l’essere piantato in montagna, da qualche parte!
Provare a sentirmi come loro, tra loro, pur sapendo che non resisterei,
non ne avrei la tempra.
Essere piantato vicino all’abete bianco più alto d’Europa, che vive da
noi, in Italia.
L’ho saputo da Elisa, sempre lei, l’agronoma del civico numero dieci.
E’ alto cinquanta metri, una circonferenza di quattro e un’età intorno
ai duecentotrenta anni!
Mi ci vedete? Io si.
Invece devo stare qui e pure da precario!
Si è fatta la notte, io sono un albero, nonostante tutto.
Vi saprò dire…
Nel caso peggiore ricordatevi:
“Se un albero muore, piantatene un altro al suo posto.” (Linneo)
Alessandra Panvini Rosati
Milano, maggio 2015