Ofioliti fra leggenda e realtà
di Roberto Belletti
A volte l’Appennino, a chi si prende la briga di cercarle, regala autentiche
perle.
Due di queste sono incastonate nei pressi del Passo della Raticosa, un
“punto triplo” di confine fra gli Appennini Emiliano, Romagnolo e Toscano.
Si tratta del Sasso di San Zanobi (o Zenobio) e del Sasso della Mantesca (o
Sasso del Diavolo), due formazioni di rocce ofiolitiche che si ergono come
sentinelle dai prati circostanti e che poco sembrano aver a che fare con la
geologia del territorio in cui sono dislocate.
Complici i riflessi particolari della roccia ofiolitica e l’apparente totale
estraneità all’ambiente che le circonda, queste formazioni hanno da sempre
solleticato la curiosità dell’uomo.
La
ricerca di una risposta alla spontanea domanda “ma chi le avrà messe lì?” ha
dato vita alle più disparate spiegazioni, fra le quali c’è una affascinante
leggenda popolare legata a San Zenobio, vescovo di Firenze tra il IV e il V
secolo, della quale le popolazioni locali conservano memoria ancora oggi.
La leggenda narra che San Zenobio, in visita pastorale nei pressi di
Pietramala, stesse ottenendo numerosissime conversioni fra le genti che
allora abitavano la montagna.
Il Diavolo, alquanto irritato da questo fatto, convocò un concilio infernale
per trovare un modo di porre fine alle attività del santo e propose a San
Zenobio una sfida.
Chi avesse portato il più grosso macigno dal torrente Idice fino alla cima
della collina sarebbe stato il vincitore e avrebbe preso tutte le anime.
Zenobio accettò il patto e la competizione ebbe inizio.
Il Diavolo si caricò un enorme macigno sulle spalle e iniziò a salire lungo
il sentiero che percorre il fianco della montagna.
Zenobio, invocato chi di dovere, ne individuò uno molto più grande e
sollevatolo senza fatica tenendolo sul dito mignolo, disse al Diavolo:
“Porterò il mio sasso così lontano dal tuo che non riuscirai a vederlo”.
Dopo aver fatto un bel po’ di strada, il Diavolo iniziò a essere stanco e
pensò: "Zenobio non potrà mai portare il suo sasso talmente lontano che io
non riesca a vederlo quindi ho vinto la sfida”, e posò il suo sasso lì dove
si trovava.
Allora
Zenobio, che era in prossimità di un crinale, lo superò e posò il suo poco
lontano, ma dall’altra parte del crinale, in modo da nasconderlo alla vista
del Diavolo.
Tornato sui suoi passi, Zenobio fece notare al Diavolo di aver vinto la
sfida perché aveva portato il suo sasso fin dove lui non poteva vederlo.
Il Diavolo, resosi conto di aver perso non solo nella prova di forza ma
anche nei confronti dell'astuzia del santo, perse il controllo: si avventò
sul suo sasso e lo fece a pezzi con calci tremendi per poi sparire in una
nuvola di fumo e di zolfo, dando così origine al Sasso della Mantesca.
Ai giorni nostri vengono ancora tramandate diverse versioni di questa
leggenda, tutte basate sull’eterna lotta fra il bene e il male rappresentati
da San Zenobio e dal Diavolo.
In tempi più recenti si ipotizzò anche che i due sassi fossero frammenti di
meteorite caduti per caso in quella zona, e qualcuno è convinto ancora oggi
dell’origine extraterrestre di queste due singolari formazioni rocciose.
Ma la scienza e in particolare la geologia hanno assolutamente smentito
questa teoria.
La
spiegazione data dalla scienza, è che le rocce ofiolitiche in generale sono
sezioni di crosta oceanica e parti del mantello terrestre sottoposte a
sollevamento da parte dei movimenti tettonici fino ad affiorare in
superficie.
Il nome “ofiolite” deriva dal greco ophis = serpente e lithos = roccia,
letteralmente roccia serpente, ed è dovuto ai particolari riflessi
caratteristici di questa roccia, che ricordano la pelle di molti rettili.
Il Sasso di San Zanobi e il Sasso della Mantesca sono entrambi ofioliti, in
particolare il primo appartiene a una varietà chiamata Serpentinite mentre e
il secondo (più raro) è un Gabbro.
Come altre ofioliti che si possono trovare in Appennino, sono brandelli del
mantello e del fondo dell’oceano Tetide, che anticamente separava la zolla
tettonica settentrionale (Laurasia) da quella meridionale (Gondwana).
Durante il Giurassico, la zolla Eurasiatica e quella Africana si
allontanarono, dando origine a eruzioni magmatiche lungo le spaccature sul
fondo dell’oceano che formarono il “materiale di base” delle future
ofioliti.
Successivamente iniziò una lunghissima fase durante la quale questo
materiale venne coperto da un deposito sedimentario di grande spessore.
Nel
frattempo le due zolle avevano ripreso ad avvicinarsi, fino allo scorrimento
di quella Africana al di sotto di quella Eurasiatica e al conseguente
sollevamento di quest’ultima a formare la catena degli Appennini.
Il sollevamento coinvolse gli strati sedimentari ma anche il materiale
ofiolitico, che venne così disperso all’interno dei sedimenti, andando
finalmente ad affiorare qua e là e creando quelle caratteristiche formazioni
che oggi ci appaiono così estranee al resto dell’ambiente che le circonda.
Incuriositi quindi da leggenda e geologia, ma anche attratti dalla
peculiarità di queste due formazioni, ci siamo finalmente decisi ad andare a
vederle di persona.
E così, superati i tornanti che salgono al Passo della Raticosa e imboccata
la strada per Piancaldoli, dopo pochi chilometri ci appare la massa scura
del Sasso di San Zanobi.
Il sasso si trova proprio ai bordi della strada, e davanti c’è un comodo
spiazzo dove parcheggiare l’auto.
In effetti esso, così nero e tormentato, appare completamente fuori posto
tra i verdi e tondeggianti pendii che sono invece caratteristici del nostro
Appennino.
La parete che ci sovrasta è strapiombante e ha i riflessi verdi
caratteristici della serpentinite.
Peccato che non sia naturale, bensì creata dalla mano dell’uomo, che in
tempi passati ha in parte scavato questo sasso ricavandone materiale per
pavimentare le strade dei dintorni.
Esattamente
alla base, ci accoglie una faccia scolpita nella roccia: che si tratti del
volto di San Zenobio?
Osservo bene la parete, ma non mi sembra di vedere tracce di attrezzature da
arrampicata, catene, spit o cordini penzolanti.
E’ strano, ma evidentemente questo tipo di roccia non attira i “climbers”
locali.
A me invece non sembra poi così male: l’aderenza degli scarponi alla
superficie rugosa è ottima, basta solo stare un po’ attenti ai punti più
friabili.
Mi piacerebbe salire sulla cima, quindi individuo a destra degli strapiombi
una via di salita più abbordabile e inizio la “scalata”.
Nulla di più di passaggi di primo o, volendoli proprio andare a cercare,
secondo grado, quindi facile e divertente.
In breve sono alla croce, posta su una selletta un poco più in basso della
“vetta”.
Esplorandolo, il sasso offre tantissime possibilità di salita fra paretine,
diedri e piccoli camini, tutti benignamente appoggiati e appigliati.
C’è solo l’imbarazzo della scelta e non posso fare a meno di pensare che
“qualcuno” troverebbe questa formazione assai “didattica”.
Per completare l’esplorazione decidiamo di compiere l’intero giro alla base
del sasso, seguendo una traccia di sentiero poco battuta ma evidente.
Così poco dopo ci troviamo sotto all’incombente “parete nord”, che è
completamente ricoperta di muschio e vegetazione. Da questo lato, una
curiosa formazione rocciosa nei pressi della cima ricorda vagamente una
testa umana.
Concluso
il periplo del Sasso di San Zanobi, resta ancora da visitare il Sasso della
Mantesca.
Ma dove sarà?
Secondo la leggenda non dovrebbe trovarsi molto lontano, però invisibile da
qui, nascosto dal crinale che Zenobio aveva superato prima di posare il suo
sasso.
Il crinale di cui parla la leggenda non può essere che il Colle di Canda,
che separa il posto in cui ci troviamo dalla valle dell’Idice.
Risaliamo quindi in auto e procediamo sulla strada per Piancaldoli fino a
raggiungere un vicino bivio.
Qui imbocchiamo la strada a sinistra per
Spedaletto, nome che probabilmente deriva dalla presenza in zona di un
ospedale militare durante la guerra.
La strada, stretta e un po’ accidentata, risale il fianco del colle e
diventa in breve più adatta a un 4x4 che alla nostra Smart da città, quindi
parcheggiamo nei pressi di un cippo commemorativo dei Caduti della II Guerra
Mondiale e proseguiamo a piedi.
Poco più avanti, ecco apparire in lontananza il Sasso della Mantesca,
abbastanza diverso da quello di San Zanobi ma anch’esso “estraneo”
all’ambiente circostante.
E’ completamente immerso nel fitto di un boschetto e appare completamente
frantumato, con grandi blocchi sparsi su di un’area abbastanza vasta. Ed è
ovvio che sia così: è stato preso a calci dal Diavolo…
Avvicinandosi alle pareti, ecco una catena arrugginita e una vecchia
piastrina di fattura chiaramente artigianale, segni inequivocabili di come
in passato questo luogo sia stato utilizzato come palestra dagli
arrampicatori.
Ora però tutto appare abbandonato, senza nessuna traccia di visite recenti.
Vorrei salire in cima anche qui, tuttavia non riesco a scorgere alcuna
traccia da seguire per la salita.
C’è però un bello spigolo che mi sembra abbordabile e mi piacerebbe provare
a salire in cima seguendo quella direzione.
Da pensare a fare, il passo è breve e così mi ritrovo ad arrampicare sullo
spigolo.
Anche se le difficoltà sono contenute, c’è però una buona dose di
esposizione e il percorso è tutto da inventare.
Questo, unito al fatto che non sono legato, fa ugualmente un certo effetto e
aiuta a tenere alta la concentrazione e a misurare bene appigli e appoggi,
che qua non tutto è stabile come sembra.
La salita comunque è breve e scopro con soddisfazione che lo spigolo termina
effettivamente sulla cima, così come avevo immaginato.
Le cime in realtà sono due, collegate da una comoda cresta dalla quale si
può ammirare un bel panorama dei prati circostanti e della pianura.
Dalla sella fra le due cime si stacca uno stretto sentiero che sale dal
versante opposto attraverso il bosco e che prima non avevo notato. Posso
così ridiscendere comodamente alla base e porre termine all’esplorazione del
Sasso della Mantesca.
Sulla via del ritorno un’ultima sorpresa.
Incrociamo una persona del luogo che, in auto, sta compiendo un vero e
proprio slalom fra le buche della strada e che si ferma per salutarci. E’
praticamente una maschera di sangue, con braccia e viso completamente
ricoperti di graffi ancora sanguinanti.
Un brivido ci corre lungo la schiena: avrà mica incontrato il Diavolo?
Si
dice che frequenti questi luoghi…
Forse senza neanche rendersi conto del proprio aspetto, ostenta un sorriso
soddisfatto e ce ne mostra subito la ragione: un paniere zeppo di funghi.
Capiamo così il motivo del suo stato e ci tranquillizziamo, salutandolo dopo
qualche scambio di battute.
Alla fine è stata proprio una bella giornata, trascorsa sulle ofioliti, fra
leggenda e realtà.
Roberto Belletti
Bologna, Maggio 2012
Nota dell’autore.
Le immagini di San Zenobi, del Diavolo e del frammento di ofiolite sono
tratte da Wikimedia e sono di dominio pubblico. La spiegazione della
formazione delle ofioliti è tratta dalla rete. Imprecisioni, semplificazioni
ed errate interpretazioni sono errori miei, dei quali mi scuso con i
geologi.