La vita in frantumi
di Massimo Anile
Berto avrà avuto sì e no quarant'anni, quando lo rividi per
l’ultima volta.
Io e mia moglie eravamo ancora senza figli e spesso, nelle domeniche di
bello, ci divertivamo a rivisitare le vecchie mete di vacanza della nostra
infanzia.
Un tempo non c’era bisogno di percorrere cinquecento chilometri per sentirsi
sufficientemente lontani dal lavoro e dai crucci della quotidianità.
I
nostri vecchi, allora più giovani di quanto non si sia ora noi stessi,
avevano alcuni luoghi classici ove trascorrere i pochi giorni di ferie
dell’anno e ci portavano sul lago, sulle Prealpi Comasche, qualche volta in
Valtellina.
Mentre i miei suoceri preferivano le valli Orobiche, nella mia famiglia
c’era un innato senso dell’ovest che faceva deviare l’auto di papà verso la
Val d’Aosta, l’Ossola; la digressione più orientale era forse la Valsassina.
Ma il luogo che mi è restato più caro nei ricordi dell’adolescenza, è quello
della Val Rezzo.
Buggiolo era un paese senza strade, aggrappato allo scosceso versante
meridionale del Grisello, una montagna che prendeva il nome dalle sconfinate
distese di mirtilli, chiamati appunto griseau in dialetto comasco, che ne
ammantavano e forse ne ammantano ancor oggi i sottoboschi.
In questo paese prendevamo in affitto per l’agosto un paio di locali sopra
una stalla puzzolente.
Per strada c’erano solo capre e galline.
Di notte, invece, ogni tanto scoppiava il finimondo, perché quegli erano gli
anni del contrabbando.
Poco sopra le case, in una località detta “la cava”, sorgeva una casermetta
della finanza.
Durante l’estate Berto faceva ufficialmente il pastore.
Era facile incontrarlo sui pascoli di San Lucio, magari al roccolo, dove
c’era una fontana di pietra dall’acqua gelida e un poco frizzante.
Con lui c’era sempre il cane Full, un meticcio agile e intelligente, che
oltre a guidare la piccola mandria di bovini che Berto aveva in custodia,
mostrava una capacità incredibile nel fiutare un finanziere a miglia di
distanza.
"Al ringhia perché ga fan i schers…"
Ringhia perché gli fanno scherzi, sosteneva Berto.
Ma anche noi ragazzi sapevamo che la ragione era un’ altra.
Berto, come tutti i suoi paesani, ogni tanto alla sera spariva, con la
bricolla in spalla, e valicava il confine verso la ticinese Val Colla.
Rientrava nottetempo, con un carico di sigarette sulla schiena, qualche
orologio, magari nascondendo un medicinale vietato, caro o difficile da
reperire in Italia, come la saccarina.
Qualche volta non riusciva a rientrare, perché nel cielo scoppiavano i
bengala della Guardia di Finanza, che illuminavano a giorno quelle faggete,
mentre si scatenava una caccia all’uomo che non era quasi mai troppo
cruenta, ma che teneva svegli un po’ tutti fino all’alba.
“Ci sarà dentro anche il Berto, o suo fratello Daniele?”
- ci
chiedevamo quando iniziava la bagarre.
Poi il giorno dopo, passando davanti alla loro casa, si notavano le due
sorelle - quella sveglia, la Celestina, e quella un po’ suonata, la Titti -
che sorridevano tranquille e allora si capiva che era andata bene.
Berto faceva l’operaio a Basilea - forse la città con la periferia più
avvilente della Svizzera - e quelle erano soltanto le sue ferie.
Le passava tra stalla, pascoli e inseguimenti, quasi fosse la cosa più
normale che un uomo che si spaccava la schiena per undici mesi e mezzo all'anno,
in fabbrica, potesse fare.
Partiva dopo ferragosto, per rientrare al reparto, e aveva gli occhi tristi.
"Ciau mam, mi vu" - diceva alla vecchia matriarca, prima di abbandonare il
focolare di famiglia.
E la madre, gelida come una folata di tramontana, non lo degnava quasi di
uno sguardo.
L’unica che versasse una lacrima era la scema, sua gemella: se ne stava
mogia in un angolo con la testa bassa e tirava su col naso ogni tanto.
La furba, invece, dissimulava la tensione, deviando il discorso su elementi
concreti, come il tetto da rifare o il matrimonio della nipote; ché lo
spazio per i sentimenti, tra quelle mura di montagna, era poco funzionale.
Noi assistemmo solo una volta a quel distacco.
Berto era imbarazzato, perché un uomo non deve avere il cuore troppo
fragile: è un segno di grave debolezza.
Aveva salutato anche noi, che gli avevamo fatto troppi auguri e con troppa
enfasi, aumentando forse il suo disagio.
Ero un ragazzino ancora allora…. eppure tutte le volte che la mia vita mi
appare nevrotica, sempre troppo banale o troppo faticosa, uso il ricordo di
Berto come una medicina.
Una medicina importata di contrabbando nella mia esistenza perché ne
favorisca l’obiettività.
Così, l’ultima volta che lo vidi, era appoggiato a quella fontana di acqua
fredda e frizzante sotto il Passo di San Lucio.
Mia moglie ed io ci eravamo avvicinati circospetti, poiché
non ero ben sicuro di averlo riconosciuto e temevo di fare una gaffe, come
spesso mi accade quando mi lascio trasportare dall’entusiasmo.
Lui, incredibilmente, si girò e mi sorrise.
"Lù … al cunùsi" - disse indicandomi con una verga di nocciolo, ma senza alcun
fare minaccioso.
Restammo a parlare per una mezz’ora, convinto - nella mia presunzione - di
fargli piacere evocando un passato che forse era stato per entrambi
struggente, se non altro per il fatto di avere avuto molti anni in meno.
Avevo avuto ragione, per una volta.
Berto tolse dalla fontana una bottiglia di birra, una birra dozzinale,
certo, che in quel luogo prese un sapore incredibile.
Ne bevemmo un po’ insieme, poi la birra finì e senza che avessi il tempo di
fermargli la mano lui infranse la bottiglia contro un sasso, dicendo, questa
volta non in dialetto, ma in italiano:
"Non serve più…"
Ho ancora in mente quei cocci, come se tutto fosse successo un attimo fa…. e
mi sembra di cogliere nell’aria, in quest’aria ovattata e bugiarda che mi
circonda, il fragore della bottiglia vuota che si spacca sulla roccia e
schizza schegge come una granata impazzita.
E' quello il suono che mi tiene compagnia, quando non riesco a prender sonno
la notte.
Massimo Anile
Rozzano (Milano), estate 2010