Il cucciolo
di Luigi Negri
" ... sono finiti i nostri giochi. Quegli attori,
come ti avevo detto, erano solo fantasmi e
si sono sciolti in aria, in aria sottile."
Prospero ( La Tempesta )
Era una giornata di vento fresco, dopo una notte di lampi.
Una nuvola nascondeva la vetta della Tofana di Rozes mentre l'uomo
attraversava abetaie folte e scure come
le chiese. Dal basso, un suono d'acqua tra i sassi, risaliva il bosco fino a
scaturire da sotto certe rupi nere in
un ruscello che si faceva strada tra le radici nodose degli abeti.
I tronchi erano ancora rigati di pioggia recente.
Pareva che avessero
pianto.
Fuori dal bosco, lo accolse un grande prato, al suo centro ben rasato in
circolo.
Uomini e donne vi ballavano al suono di un musico che, accompagnandosi con
una fisarmonica, cantava di pugnali, di fiori e di stelle. Si tenevano per
mano, in un girotondo, lungo il margine della radura.
A pochi metri, il rifugio, con le finestre che luccicavano al bel sole di
luglio, il Leone.
Si inoltrò nell'arcipelago di tavoli fino a trovare posto.
Negli occhi, ancora Venezia lasciata il giorno prima, ammantata da una
nebbiolina carica di rintocchi di campane e composta di vapori, caffè e
preghiere. Camminava lungo le Fondamenta Nuove, alla sua sinistra il
più grande acquerello del mondo, alla sua destra un paradiso di mattoni,
sotto una luce privata, discreta, la luce del Giorgione, non quella del
Tintoretto.
Ai limiti del bosco, la brezza modulava una sottile melodia strusciando le
cime degli alberi.
Portava con sé l'odore dei nevai e dell'erba bagnata.
Nel tavolo accanto al suo, si accomodò una giovane coppia con due bimbi
piccoli e una ragazza di terre lontane, poco più che adolescente, cui
spettava il compito di accudirli.
Colpivano i suoi abiti, relitti di mode tanto impellenti quanto evanescenti
di qualche anno prima, quasi certamente donati, con esibita generosità,
dalla signora.
L'aspetto di quest'ultima era, direi, insignificante; occhi freddi, più
furbi che intelligenti e gote scarne.
Il suo sguardo, però, stupiva per la particolare espressione di superiorità;
l'espressione di chi pensa che i propri desideri debbano essere soddisfatti
senza farne espressamente richiesta.
Il trucco e la pettinatura venivano controllati ossessivamente.
Veniva assistita in questa frequente operazione dallo specchietto del
portacipria che estraeva, con la cautela che hanno le donne con le unghie
curate, da una pochette che teneva in grembo. Su questa risaltavano
chiassose sigle incaricate di rimandare l'osservatore ad affascinanti ed
esclusivi paradisi della moda alla quale, peraltro, tutto il suo
abbigliamento era vistosamente sacrificato.
L'uomo distolse lo sguardo e si abbandonò ai suoi pensieri che lo
riportarono ad aggirarsi per le calli, in quel labirinto di spazi stretti
dove non sai mai se insegui uno scopo o fuggi da te stesso; se sei
cacciatore o la sua preda.
Alzò gli occhi verso le cime soleggiate quando, alle orecchie, gli arrivò il
salmodiare fastidioso della signora che redarguiva la giovane con toni acidi
e accenti di disprezzo.
Suo malgrado, lasciò che l'attenzione gli scivolasse ancora verso il tavolo
vicino fino a posarsi sulla giovinetta.
Il linguaggio del suo corpo comunicava soltanto il desiderio di essere
lasciata in pace.
Sembrava caduta lì da un cielo lontano.
Era sola, debole e vacillante.
Di fronte aveva una vecchia antagonista; la vita.
Il cameriere arrivò, posò davanti all'uomo una tazza e dall'alto versò un
liquido fumido con il gesto classico della tolleranza, virtù temporale; poi,
come era venuto, scomparve nell'atmosfera densa di persone, come una freccia
lanciata contro una nube.
La signora, intanto, continuava il suo stridulo recitativo mentre, nella
radura, i balli si avvicendavano.
Altre persone si aggiungevano a quante vi erano già impegnate, sistemandosi
ai margini.
Tra queste, un anziano signore con un cane enorme al suo fianco, batteva le
mani a tempo di musica.
Ad una certa distanza da lui, un cucciolo di lupo scalpitava per liberarsi
dal guinzaglio tenuto dalla sua padrona e poter correre così verso l'altro
suo simile.
Il sole splendeva alto e le cime circostanti, solenni e silenziose, con
bonaria indifferenza lasciavano gli umani a quel che potevano.
La forza rapida nelle parole della signora feriva come un coltello.
Sebbene parlasse con aspetto dolente era nel vibrare della sua voce un
atteggiamento di comando inesorabile.
La giovane gli parve schiava e triste come l'acqua in un secchio.
Continuò ad osservarla, sorridendole, e lei lo ricambiò.
Quel leggero sorriso, benché triste, sul volto della giovane, ne rischiarò
il viso contratto e rese eloquente il suo mutismo e familiare
quell'estraneità. Fu come l'abbandono di un segreto.
Al termine della sua tirata, la signora concesse alla ragazzina il permesso
di parlare.
Nel suo italiano approssimativo, lo fece con tristezza, come se avesse
conosciuto nei suoi pochi
anni, la cattiveria del mondo di fronte alla quale ogni cattiveria propria
vien meno, diventa assurda.
Parlava alla sua padrona come a un compagno di sventura.
La signora, rigida, replicava duramente muovendo le mani in gesti secchi e
perentori.
Non le concedeva scampo.
Il marito, a fianco, che non aveva smesso un attimo di armeggiare con il suo
prezioso e inseparabile telefonino, estraniato da tutto il resto, annuiva
distrattamente.
Due grosse lacrime invasero gli occhi della giovane e ne rigarono il volto
segnato dallo sconforto.
Fu a quel punto che, con la coda dell'occhio, l'uomo notò il cucciolo di
lupo liberarsi per correre vicino a quel cane enorme e cominciare
affettuosamente a tormentarlo, giocando.
Questo, dapprima tentò di ignorarlo ma, dopo poco, perse la pazienza e
afferrò il cucciolo per il collo,
inchiodandolo a terra. Avrebbe potuto spezzarglielo come un ramoscello.
L'uomo gli riconobbe il merito di essersi limitato a non farlo.
Ma quello che rimase impresso nella sua mente e che non avrebbe mai più
scordato, fu la reazione del cucciolo.
La maggior parte dei cuccioli si sarebbe messa a guaire per il terrore;
quello che fece fu, invece, un'altra cosa.
Ciò che uscì dalle sue piccole fauci non fu il brontolio piagnucoloso di un
cucciolo.
Fu un ringhio.
Un ringhio profondo, calmo e sonoro, in contrasto con la sua
giovane età.
Quel ringhio lo colpì perchè era la comprensione che stava per arrivare il
dolore e che in qualsiasi momento della vita qualcosa può spezzarci proprio
come un ramoscello.
Ma era anche l'espressione della volontà di non cedere.
Si dovrebbe essere come quel cucciolo e ringhiare a ciò che ci ha inchiodato
a terra.
Nei momenti in cui la vita avrebbe colpito, avrebbe ricordato quel cucciolo.
Questo pensò.
Pagò il conto, si alzò e colse un fiore.
Si avvicinò al tavolo dei signori, guardò la giovane e le porse il fiore,
dicendole che era per il suo compleanno.
In qualunque data cadesse.
Il sentiero lo riportò verso il bosco accompagnato dal sorriso di
ringraziamento letto negli occhi della giovane e dal silenzio imbarazzato e
perplesso della signora.
Pensò che presto sarebbe ritornato a Venezia dove avrebbe letto e girovagato
a caso.
Due cose, in quella città, più o meno equivalenti, perchè di notte, le sue
stradine di pietra sono come le corsie tra gli scaffali di qualche immensa
biblioteca dimenticata e altrettanto tranquille.
Tutti i libri sono chiusi e puoi capire di cosa trattano solo guardando i
nomi sul loro dorso.
Come le case, guardando i campanelli.
Pensò che forse, il senso di quella città non era la decadenza o la
decomposizione, ma una sorta di dissiparsi delle strutture verso un tempo
dove non contano e dove, forse, le cose, avendo capito quale può essere la
loro sorte,
si ricomporranno per ritornare, qui o altrove, con un aspetto diverso.
E magari migliore.
Rientrò nel bosco, fra i giganti di pietra, lasciandosi alle spalle i
relitti di un mondo finito, confidando nell'alba di un altrove.
Luigi Negri
Milano, settembre 2012