Hotel mille stelle
di Luigi Negri
"Il ricordo è l'unico paradiso dal quale
non possiamo venire cacciati"
Jean Paul da 'Impromptus'
Molti anni fa andai per la prima volta a Cima Bocche.
In quel luogo, nel 1916, dopo un inverno particolarmente rigido che causò molte vittime specie a causa delle valanghe incessanti, si combatterono aspre battaglie per il controllo della cima, cardine della difesa austriaca in questa zona del fronte.
Ingenti quantità di truppe vennero qui ammassate con incalcolabili costi in termini di fatica per creare condizioni adatte alla sopravvivenza degli uomini in ogni stagione.
Oggi rimangono numerosi resti di opere belliche, muti testimoni di quel tempo.
Ricordo che, tornato a casa, scrissi alcune righe su di un foglio che poi infilai in un cassetto.
Erano immagini evocate da quelle testimonianze di guerra, come grida che irrompessero nel mondo sottostante attraverso una smagliatura nel tessuto delle cose.
Riporto fedelmente quanto scrissi in quell'occasione:
"Alla forcella di Lusia, pietraie fino in alto, tutt'intorno, come una sorta di diluvio in sospeso, mi sono trovato sulla soglia di un livido e sacro infinito di guerra ingentilito da due piccoli laghetti alpini.
Trincee serpeggianti sul dorso del monte come ferite mai cicatrizzate, resti di reticolati e qualche cavallo di Frisia contorto e arrugginito.
Su quell'altopiano desolato e silenzioso, il vento sembrava spremere il tempo e immagini vaganti si seccavano sulle ghiaie, assieme ai corvi che volteggiavano alti e poi vi calavano.
Alzai la testa per seguirne il volo, in quel vuoto freddo, azzurro e perfetto, lungo il ruvido perimetro di quel mondo.
Feci un passo e mi inoltrai.
Trincee infinite, topaie in fondo a fanghi tenaci senza più colore, vecchi e affaticati.
Ricoveri senza tetto e pavimento, senza inizio e senza fine.
Carni giovani che si trascinano in quei fanghi, immelmati, fino ai margini della vita, per trasformarsi di colpo in ricordi, sbalzati fuori dal tempo da uno scherzo del destino, ad osservare la vera essenza delle cose dall'altro lato del Tempo e divenire facili bersagli per l'oblio.
Piedi vinti dal di sotto, dalla stanchezza gelata, tenuti stretti dal freddo.
Marce insopportabili a passo di sepoltura.
Nebbie cariche di frammenti di voci, di odori, di preghiere, di croste di ricordi.
Anime stanche che respirano tra l'incoscienza e il delirio.
Esseri destinati a dividere in due il mondo che incontrano e a lasciarsi alle spalle, ugualmente estinto, ciò che era stato e ciò che non sarebbe stato mai.
Uomini intenti a guardare oltre quelle cime e quelle pietraie, verso le boscaglie ondulate, le dolci colline e le pianure, verso i borghi dove erano mogli e figli che non avrebbero mai più rivisto.
E notti gelate e silenziose in questo paesaggio preistorico pieno di morte e di follia, dove le vette si stagliavano dure, nere e livide, aliene come terre la cui vera geologia era la paura.
Esistenze otturate con voci di nebbia.
Notti intere a pensare a un saluto, mentre urla il temporale, quando infuria la bufera, quando stringe il gelo, mentre tuona il cannone e passa il fuoco dell'inferno, quando tutte le idee si sparpagliano e vanno a perdersi con le stelle.
E poi infiltrarsi nel giorno grigio, gelati, per ricominciare la danza passando innanzi all'aurora."
Queste furono le parole che scrissi.
Mi sembrava che rappresentassero un omaggio sincero a quanti avevano lasciato la vita in quei luoghi.
Ma sentivo che qualcosa strideva.
Qualche tempo dopo rilessi quel foglio e, evidentemente, qualcosa non mi tornava perchè, quasi fossi nelle vicinanze di una risposta ma non potessi ancora disporne, in calce, in caratteri minuscoli, come imbarazzato, scrissi due parole: ritornarci, ripensarci.
Passarono gli anni e una sera, cercando altro, ritrovai quel foglio.
Fu così che, dopo tanto tempo, in un fresco e soleggiato pomeriggio di fine settembre, ripresi il sentiero che, partendo dalla malga La Rezila, conduce attraverso fitte abetaie, a costeggiare in continui saliscendi le Mandre fino alla forcella di Lusia.
Scesi verso i laghetti e poi risalii verso la cima.
Mi colpisce sempre sapere che un sentiero porta in un posto e lì finisce.
In un mondo così intrecciato, pieno di incroci e di alternative, dove tutto confina con tutto, fa effetto sapere di trovarmi alla fine di qualcosa.
O, magari all'inizio.
Anzi, si, meglio all'inizio, all'origine.
Il sole illuminava i camminamenti accarezzandoli con la luce dell'autunno imminente, filtrata dai rimpianti e dalle nuvole.
Raggiunsi la cima, ripercorrendo quelle trincee sotto un cielo aperto color cobalto dove uno stormo di corvi disegnava neri ghirigori nell'aria fina.
A nord si intravvedeva il fondo della valle di San Pellegrino; alle spalle, le Pale di San Martino, infuocate e maestose.
Ridiscesi poi per quella distesa cauterizzata fino al piccolo ricovero, e fu solo freddo e silenzio.
Il buio presto uscì da dentro le trincee e salì, prima sui sassi e poi contro il bivacco, prendendone i muri che fiammeggiavano dinnanzi all'ombra.
E poi si spensero anche loro.
Forse è questa la vita, un po' di luce che finisce nella notte.
Accesi una lampada a gas e lasciai aperto l'uscio.
Appoggiai la coperta e lo zaino ed uscii.
Da fuori, il bivacco sembrava un lampione di ricordi all'angolo di una via in cui, ormai, non passa più nessuno.
Il cielo era una fontana di stelle con poco spazio nero.
La luna, con i suoi mari freddi e grigi, salì in cielo e rimpicciolì sopra quelle rovine.
Le nubi ne sfumarono i bordi mentre la notte si punteggiò di piccoli rumori.
Dall'uscio aperto guardai transumare le stelle, testimoni di tutto, da sempre.
Rigavano il buio aggrappate a qualcosa di ignoto che roteava nella notte.
In quell'hotel mille stelle capii che la prima volta mi ero comportato come quei turisti che, in visita ad un luogo sacro, si inginocchiano davanti ad un altare con la guida in mano, così, per abitudine, per non avere nulla da farsi rimproverare.
Per sentirsi normali.
Per poter ricamare sui propri volti l'espressione usata del buonsenso.
Un piccolo investimento con rendita sicura.
Un atto per sé stessi.
E pensai allora che, in fondo, anche tutte le fiaccole dei militi ignoti non ardono in onore degli uomini che hanno dato la vita nella follia delle guerre, ma ardono per la tranquillità dei vivi.
Ecco quello che non ero riuscito a cogliere.
La risposta che cercavo.
Guardai le mille stelle sopra di me e pregai la regina del tempo e delle cose, di tutti i numeri e di tutte le lettere, di scusare questo povero musico, venuto ad arenarsi lì, per le sue povere riflessioni, come un piccolo prezzo da pagare per il riscatto della propria coscienza.
E poi ogni pensiero si è perduto, mentre il tempo se ne andava, lontano da tutto.
Mi accucciai sotto la coperta e vidi alcune stelle cadere a caso nel cielo, affrettandosi lungo brevi tragitti dalle loro origini nella notte ai loro destini nella polvere e nel nulla.
Poi, piano, la notte si fece fonda e il buio diventò brina.
Udii rotolare un sasso, il respiro del vento e poi vinse il sogno.
Luigi Negri
Milano, inverno 2011
Nota della redazione
Le foto che accompagnano il racconto sono di Gabriele Villa e fanno parte dell'archivio di intraigiarùn.
La foto del soldato ferito fa parte della ricostruzione storica realizzata in zona di guerra alle Cinque Torri di Averau.
Le foto delle croci di legno sono state scattate sulla dorsale dei Set Sass / Passo di Valparola.