Qualcosa che svanì
di Luigi Negri
"Sous une lumière blafarde
Court, danse et se tord sans raison
La Vie, impudente et criarde.
Aussi, sitòt qu'à l'horizon..."
La fin de la journèe, C. Baudelaire
Accadde molto tempo fa, tra il tramonto e l'accendersi delle luci, in quel breve periodo di tempo grigio e tranquillo.
Era estate e l'ultima luce infiammava la cima della montagna che si ergeva di fronte al mio sguardo, come una sfida o un invito.
Sfida ad una lotta leale.
Invito alla conquista.
La vidi seduta sul muretto di sasso che cingeva il rifugio.
C'erano due attempati ciclisti e lei parlava con un uomo pallido e magro.
Mi sedetti vicino a due uomini stempiati che discutevano di case, e la guardai.
Aveva i capelli mossi, dai riflessi brillanti, una camicia larga e un corpo che sembrava essersi dimenticato di invecchiare.
Ricordo che viveva in una bassa casa rosa, circondata dai larici, appena fuori dall'abitato, dove iniziava il bosco.
Era una casa fresca che profumava di vaniglia, di vino e di cipria.
L'accogliente penombra veniva rigata appena dalla luce che filtrava tra gli scuri accostati.
Il silenzio, sottolineato dall'allegria ovattata dei suoi passi.
Prima di scendere in paese metteva sempre un velo di rossetto.
Ad un tratto mi guardò e ci sorridemmo.
Senza distogliere lo sguardo, venne verso di me.
Mi chiese se c'era la possibilità che ci conoscessimo.
Non la vedevo da oltre vent'anni.
Le dissi il suo nome e dove abitava, e poi il mio.
Ridendo disse che non ricordava niente.
Aveva gambe magre e scuoteva i capelli mentre rideva.
Le parlai dei nostri amici di allora.
Qualcosa affiorava confusamente, molti non c'erano più.
Cercavo di attaccarle ricordi che scivolavano via come l'acqua sulle foglie delle ninfee.
Con naturalezza infantile mi chiese se fossi stato suo compagno di scuola.
Lentamente, la malinconia mi fiorì in un largo sorriso.
Restammo in piedi al vento, come vesti ad asciugare, mentre mi parlò di un incidente e di qualcosa della sua memoria.
Credo che ci fosse sparita dentro.
Continuai a guardarla mentre tornava a sedersi, sperando che, improvvisamente, potesse ricordarsi tutto.
Poteva succedere.
Io ero pronto.
Mentre il buio saliva sulle pendici dei monti, salì su un fuoristrada straniero con un uomo alla guida, e si allontanarono verso la valle.
Sparì dopo una curva, dietro un cespuglio di rododendro.
Venne la notte e poi l'aurora di perla, quando il tempo si ferma e si esamina.
Aprii la porta del rifugio e restai un attimo sull'uscio, esitante.
Fuori, oltre il recinto, qualche lembo di nebbia rimaneva attaccato ai tronchi degli alberi come una bandiera lacera. Respirai profondamente.
Chiusi la porta dietro di me e mi incamminai senza voltarmi.
Poco distanti, quattro gracchi sembravano scambiarsi muti, meravigliosi segreti.
Il sentiero che saliva verso le rocce era silenzioso di movimenti e di suoni.
Sparii nella nebbia che, dopo un po' cominciò a rompersi e a mulinare intorno come un esercito di fantasmi sorpresi dalla luce del giorno.
Poi, il sole fu alto nel cielo, ad elencare guglie e pinnacoli, torri e ghiaioni.
E la brezza leggera si diede in pegno ai fiori colorati.
Salii cercando la fune metallica e mi fermai su una piccola cengia.
Rividi il rifugio, più in basso, animato di gente.
Sentii volare nell'aria calma un riso di bimbi, senza una ragione al mondo.
E poi svanì, dove svaniscono le cose e il tempo.
Dove, non saprò mai.
Ci stavo ripensando ora.
Ero alla finestra, guardavo una macchia di rossi larici tra gli abeti del bosco quando ha squillato il telefono.
Cercavano un altro.
Luigi Negri
Milano, ottobre 2010