Un compleanno da ricordare

di Luigi Negri



         “...ma chi ci ha rigirati così
          che qual sia quel che facciamo
          è sempre come fossimo nell’atto del partire.
          Come colui che è all’ultimo colle
          e gli prospetta per una volta ancora
          tutta la sua valle,
          si volta, si ferma, indugia.
          Così viviamo, per dir sempre addio.”

          R. M. Rilke




Dicono che lei si fermò alla prima svolta del sentiero, dove la visione si allargava, e spinse lo sguardo oltre i bruschi profili delle cime dove il grigio delle nubi invadeva il cielo.
Dicono che si erano conosciuti sotto i portici, quando già si sentiva l’estate e quando tutto si fermò nel fragore del temporale.

Dicono che lui controllò gli scarponi allacciati strettamente, i chiodi al fianco e il martello, che uscisse facilmente dalla tasca.
Ed attaccò.
Dicono che i capelli biondi le ricadessero sulle spalle coperte da una camicetta di flanella azzurra, strappata al cellophane per l’occasione.
Dicono che quello era il giorno del suo compleanno e che si aggiustò il trucco prima di seguirlo.
E poi i prati fuggirono rapidi verso valli senza fondo, mentre il falco volava alto, con i sogni.
Dicono che su un terrazzino insperato lui vide il vento scacciare le nubi e udì l’allegro colloquio tra lei e un chiodo indisponente.
Una sigaretta, due chiacchiere, qualche fotografia.
Salivano a passo di danza, come ballerini di samba.
Una lacrima di sudore a pungere gli occhi.
Sopra di loro gli ultimi veli di nubi disegnavano preziosi arabeschi.
Dicono che all’uscita di un camino freddo, umido e verticale che lui superò stanco, la vide arrivare accanto al suo piede destro calma e tranquilla come un raggio di luna; sorridente come un soffio di brezza.
Dicono che mentre lui vuotava la borraccia d’un fiato, lei descrisse le sfumature di colore di un fiorellino sbocciato nel vuoto, su un ciuffo d’erba appeso al nulla, qualche metro più sotto.

Dicono che lei gli indicò la cima.
Dicono che lui guardò la mano.
Dicono che quando ormai non c’era più sopra di loro che un cielo senza riparo, avanzassero sorridenti, trascinando la corda sulle ghiaie e che godettero insieme le gioie offerte dalla larga cengia all’uscita della via.
Si slegarono, si sedettero ed aspettarono che i pensieri ritornassero, come le onde del mare.
Lontani, i paesi di terra e di pietra, piccoli e quieti.
Dicono che le ombre si allungarono sul sentiero del ritorno e che installarono le poche doppie con la massima cura, tendendo facilmente le corde.

Dicono che c’era gente davanti a quella casa.
Gente ben rasata, pulita, che si riposava alla fine della giornata.
Nell’aria, con le voci pacate, l’odore del pane e della sera.
E poi poche luci nel buio.
Dicono che la mattina lei trovò una scusa elegante per andarsene via.
Un qualcosa che non aveva orario, ma che non poteva aspettare.
Due lacrime le rigavano il viso.
Dicono che sul finire della bella stagione, lui incontrò ancora la sua dolcezza, chiusa a chiave nella tristezza, sotto un ombrellone, sul lungomare.
Spirava un vento fresco e lei si chiuse la giacca sul petto, rabbrividendo a quel soffio che già lasciava presagire l’autunno.
Odore di salsedine e una carezza delicata gli sfiorò la fronte.
Le labbra sussurrarono un saluto mentre gli occhi cercarono salvezza dove l’acqua incontrava il cielo.
Dico che ancora adesso non riesco a credere che non l’avrei rivista più.
E dico che a me è rimasto un compleanno da ricordare.
Era la via Del Torso, sul Piz Ciavazes, Sella.
Era un’estate di tanto tempo fa.

Luigi Negri
Milano, aprile 2010