Notturno in riva al mondo

di Luigi Negri



Ogni generazione, intenta a distruggere i buoni risultati di un’epoca
precedente, č convinta di migliorarli.

                                               R. Musil, "L’uomo senza qualitŕ"


                                                                                     “Non sempre quello che vien dopo č progresso.
                                                                                                         A. Manzoni, "Del romanzo storico"


Nei prati sopra Valongia, alle pendici del Catinaccio, in una localitŕ chiamata Larjč, c’č un posto che si chiama "Pian del Bal".Lŕ, una notte di tanto, tanto tempo fa, si racconta che i Trusani, gente bellicosa e cattiva, vollero saccheggiare due masserie per depredarle di tutto.
In quelle terre vivevano le Vivane di Vačl, gente buona, leggiadre e operose e che potevano librarsi in aria.
Conoscevano il futuro e i gufi portavano loro le notizie dal mondo.
Si dice che fossero anche ottime danzatrici.
Quella notte, le Vivane di Vačl andarono in aiuto.
Dopo che ebbero cacciato i Trusani, fecero una grande festa e ballarono tutta la notte.
Per ricordare quella festa, il luogo prese il nome di “Pian del Bal”.

La prima volta che sono salito sulla Roda di Vačl, la via normale non era ancora attrezzata.
Da allora sono passati molti anni nel corso dei quali l’ho visitata diverse volte, ma da un po’ di tempo non ero piů ritornato, malgrado ne avessi avuto desiderio.
Quella coppia invincibile fatta da impegni e casualitŕ ha sempre avuto la meglio sulle mie buone intenzioni.
Questa volta sono salito quando, oramai, era l’imbrunire.
Qualche pensiero a tenermi compagnia, come un topolino nascosto tra i capelli.
Sulla cima, malgrado l’ora tarda, ancora qualcuno, che da poco si č messo sulla via del ritorno: due atletici giovanotti e una ragazza con gli occhi di bosco e le guance di pesca.
Lontana, ancora qualche parola, portata dalla brezza della sera, ad adagiarsi sulle pietraie, accompagnata dai balletti dei gracchi sulla cima del mondo.
Ora, intorno a me solo le rocce infuocate dal tramonto, abbracciate dal suono dolce del silenzio.
Le ombre si sciolgono piano mentre la luna sale ai miei piedi e Venere č quella luce lontana che ti guarda e ti chiama.
L’incanto č grande.
Sono venuto ad un appuntamento con la notte, qui, su questa riva del mondo, al confine tra la terra e il cielo, portandole i poveri pensieri che pascolano nel mio cuore.
Piano, piano, le stelle si accendono una ad una nel cielo, tracciando sentieri di luce.
Gli ultimi rumori e gli ultimi colori si fondono in una forma vaga e silenziosa che mi avvolge.
Mi siedo a terra guardando l’ultimo chiarore del cielo dietro al sole tramontato.
Si vede appena il fondo della valle, dove le auto scorrono lontane.
Poco piů su i pascoli, prima che il buio li inghiotta.
Ricordo, stagioni di biade trebbiate e masserizie lavate, di aie e fienili, di suoni grevi e ribattuti.
Campane nei giorni di festa e corse sui prati ancora intatti.

Le processioni a primavera senza la ressa dei curiosi, gli autunni colorati, le nevi silenziose.
Ancora, come da secoli, l’uomo, la montagna e i suoi miti si tenevano per mano.
I Trusani di turno venivano respinti e ricacciati.
Le Vivane di Vačl, custodivano i monti, l’uomo e gli armenti, proteggendoli dal male e dai pericoli.
All’uomo donarono la radice della giovinezza e della salute, vivendo con esso in una comunione di sentire e agire che aveva generato un’era di pace e di rispetto che sembra perduta per sempre.
Tutto questo pare ormai senza valore, dimenticato.
Per l’uomo sembra contare solo il possedere e cieco e superbo va incontro al suo destino.
Ora vedo pochi pastori quasi senza pascoli, poveri stranieri sottopagati, violenza ai prati, alle alture, alle siepi dei sentieri e ovunque impianti e antenne che incombono in un paesaggio sporcato da ambizioni meschine e da astuzie infinite e inesauribili.
Dal silenzio sacro di questo angolo di universo mi sembra di vedere un mondo agonizzante, senza gli ideali e il sentire comune che facevano da guida all’agire.
Si alza un po’ di vento in questa notte sola come il mio fuoco.
La fiamma si ravviva, allontanando per un po’ i fantasmi della mia mente.
Qualche luce lontana, in fondo alla valle.
Legato ai miei Dei, ho sottovalutato i nuovi.
O forse sono solo un povero cieco che brancola nel buio di questo mondo senza avere le conoscenze per riuscire a capire come stanno mutando gli uomini e gli astri.
Gli astri.
Con gli occhi asciutti alzo lo sguardo verso il cielo e quello che mi accoglie č un valzer di luci, eseguito da un’orchestra di stelle.
Penso alla mancanza di stelle che spaventava i naviganti.
Andare senza gli astri che ti indicano la strada.
Ne inventarono il nome: Disastro.
La commozione mi prende la gola e il velo che mi si stende sugli occhi mi regala l’illusione che le poche nuvole passino dietro la luna, per non offuscarla, per pudore, per non frapporsi tra noi e il cielo.
Piano la notte scivola verso i confini dell’aurora.
Fa freddo ora sulla cima del monte, oppure sono io, vecchio e malandato che sento le braccia gelare.
Ancora uno sguardo al creato e un inchino e un ringraziamento alle stelle, punte di spillo.
Mi stendo con l’orecchio sulla pietra, per unirmi al respiro della montagna e mi copro il capo con la coperta.
Tra non molto sarŕ l’alba, fresca e scura.
Il tempo ridarŕ inizio al gioco rimescolando le carte e la corsa ripartirŕ per chissŕ dove.
Ognuno a caccia di se stesso, cercando di distinguere tra luci false e buio vero, gli astri che ci illuminano il cammino.
Mi infilo nell’ultima feritoia della notte e mi addormento ora, sotto le stelle lontane, nostre speranze per la lunga notte che ci attende.

Luigi Negri
Milano, luglio 2008