"La via del villaggio"

di Gabriele Villa



Esiste un’unica via che conduce al mio villaggio e, una volta che vi è arrivata, termina sulla piazza, dove c’è la buchetta delle lettere, la brénta con l’acqua corrente e, subito sopra, la giesùola, la piccola chiesetta che al paese nessuno ricorda quando sia stata costruita.
La via è collegata al resto del mondo nel paese di Avoscan, ma dal resto del mondo sembra subito voler prendere le distanze, inerpicandosi ripida verso i Rùi, scavalcando quattro volte il torrente che scorre impetuoso sotto ai ponticelli di legno; a Pian Molin, che tutti lassù chiamano Pian de la Siéga perché una volta c’era la segheria, gira decisamente a destra, intaccando con la sua serpentina il fianco sinuoso della montagna.
Dal paese, guardando verso valle la si vede sbucare a Costa de Mèz, a metà della montagna, per addentrarsi in falso piano fino al ponte, quello fatto tutto di legno, compresa la caratteristica copertura, che scavalca, alto sul fondo, il Rù delle Nottole (con questo nome sono chiamati i pipistrelli, da quelle parti).
Dopo il ponte, la stradina serpeggia seguendo le sinuosità del fianco della montagna salendo con pendenza regolare fino alla curva di Revinàza; da qui un ultimo tratto rettilineo e più ripido raggiunge le prime case del paese.
Se chiudo gli occhi, mi sembra di rivederlo quel paesello tranquillo, fuori dal traffico del fondo valle, con le sue case di sassi, qualcuna rimasta allo stato grezzo così come era stata costruita, altre intonacate in anni recenti.
Entrando in paese, sotto la strada, in ordine e in fila, si trovano la casa della Vizénza, quella di Guglielmo, a seguire quella di Gervasio, poi l’altra dei Dori, i due fienili e la casetta della Carmela, oggi venduta a gente di Padova (forèsti che ne hanno fatto residenza di vacanze estive) e, da ultimo, le case sotto la piazza del paese dove abitavano Nane con i vecchi genitori, Luigi con la madre e Angelo Buòsscon la moglie Noèla.Sopra la piazza si erge Palàz, imponente, e sembra incredibile che vi abitassero una cinquantina di persone, mentre, a guardarlo oggi, è difficile cogliere segni di vita dietro ai vetri delle finestre e sui balconi di legno annerito dal tempo.
Tornando a ritroso, sopra la strada, si trovano prima quattro fienili, poi la casa piccola e gialla della zia Veronica e subito sotto quella della Veneziana, dominata dalla casa recente, costruita, con canoni moderni, dai figli di lei sulle fondamenta del vecchio fienile. Venendo in qua, c’è un po' di prato, un campetto di patate e fagioli fin sotto la sagoma imponente della Cèsa del Ssèl.
Pur essendo di un unico proprietario è grande come Palàz; per metà resa abitabile per i mesi estivi, in tempi abbastanza recenti, e per l’altra metà, rimasta muri di sasso e scheletro edilizio. Dicono che il Ssèl avesse molti figli e, pensando al loro futuro ed immaginandoli tutti assieme in armonia, avesse costruito la casa con un appartamento per ognuno di loro. Ovviamente, come spesso succede, era rimasta una pia illusione, testimoniata da quello scheletro fatto di muri di sasso e travi.
Più sotto, la casa dello zio Mario sembra scomparire vicino a quella sagoma imponente e incombente.
A completare il paese, la casa di Tino e Carla, ove abita ora stabilmente l’Alfonso, dopo avere lavorato una vita nel milanese; a fianco il fienile con annessa stalla e più sopra la casa di Aldo Guardia.
Si fa presto a contare le case del mio villaggio: sono sedici e non c’è pericolo di sbagliare.

A dire il vero ce ne sarebbero altre due, ma non le ho mai considerate facenti parte dell’agglomerato: quella dei Bioli è sotto al paese e lontana circa quattrocento metri, sul sentiero del Triòl del Bèc, quello che scende ad Avoscan, usato in anni passati (prima che le auto entrassero nell’uso comune) per scendere ad approvvigionarsi di pane; l’altra, quella dei Baracchi, con il fienile vicino, si trova sul sentiero che va alla Piaia, a duecento metri di distanza e a metà fra i due paesi, quasi a non voler appartenere né all’uno, né all’altro.
Comunque, che siano diciotto, anziché sedici, non fa molta differenza perchè il mio villaggio non è propriamente quello formato fisicamente da quelle case, quanto quello che ho conosciuto e vissuto soprattutto nelle tante estati adolescenziali passate sul fianco di quella montagna, in mezzo a quella gente di una generazione che, già vecchia allora, in gran parte, oggi non c’è più, se non nei miei ricordi di ragazzo.

Infatti, non c’è più Aldo Guardia, come tutti lo chiamavano, che vedevo ritornare al paese terminato il lavoro e di che lavoro si trattasse esattamente non l’avevo mai capito, ma ricordo che aveva la divisa grigia delle Guardie Forestali e la portava impettito, come si conviene alla massima autorità del paese.
Non c’è più l’anziana Méda Néta che ricordo, per intere estati, china sul suo pezzo di orto intenta ad estirpare erbacce fino a scomparire dentro la stalla, all’arrivo dell’ora della mungitura.
Il marito di lei, Barba Angelìn, girava di continuo dentro e fuori la stalla, anche se sembrava non avere incombenze particolari, se non quello di far uscire le mucche, a sera, dopo la mungitura, per portarle a bere direttamente alla fontana nella piazza del paese. Lo si vedeva spesso, seduto tranquillamente, fumare la sua pipa, con un sorriso sereno stampato sul volto che sembrava dire: “cari ragazzi, io la mia parte l’ho fatta, adesso tocca a voi”.
Anche Barba Cinto se n’è andato da anni; lui e la moglie, Méda Maria, stavano giornate intere nel bosco di faggi, poco sopra al paese, a raccogliere legna minuta, rami e sterpaglie da mettere in legnaia. Non che quel lavoro fosse indispensabile, ma era il loro modo di sentirsi ancora utili alla famiglia e di continuare l’abitudine di una vita, quella di lavorare e fare fatica, esattamente come faceva Méda Néta.

Una figura un po' particolare era quella di Guido Gobbo; così lo chiamavano tutti, ovviamente quando lui non era presente, proprio per via della gobba prominente che gli deformava la schiena. Piccoletto com’era, faceva simpatia ai bambini del paese e ai più giovani, un po' per il suo spirito ironico sempre incline alla battuta scherzosa e, molto, proprio per la sua bassa statura che lo faceva sembrare un “pari grado”, almeno nell’altezza.
La bassa statura lo aiutava, inoltre, quando adempiva alle sue funzioni di barbiere; infatti, stando in piedi, arrivava, giusto giusto, all’altezza della testa della persona seduta davanti a lui per la “tosatura” che, molte volte, veniva effettuata direttamente sulla piazza del paese. Viveva da solo all’interno di Palàz e lo si vedeva al pomeriggio seduto sul balcone, guardare attento i movimenti nella piazza sottostante.
A Palàz abitava anche Méda Rosa, un donnone corpulento, con l’eterno grembiulone nero e il fazzoletto avvolto attorno alla testa e annodato sulla nuca.Era perennemente impegnata a fare la spola tra casa e il porcile, dentro al quale grufolava un grosso maiale; saziato che aveva l’animale, se ne andava alla stalla vicina dove c’erano la mucca e le galline, e l’angolo con le gabbie di rete metallica piene di grossi conigli ai quali preparare erbe e lattughe.

Quando aveva sfamato e accudito tutti gli animali la si vedeva partire per andare a tagliare fieno nei prati di sua proprietà nelle vicinanze del paese e non era infrequente osservarla, immobile per qualche momento, gambe larghe, appoggiata, con fare noncurante al manico della falce.
Ma non lo faceva per riposare, semplicemente stava orinando.
Se n’erano accorte alcune comari del paese e la cosa veniva raccontata come fosse assai scandalosa:
la Rosa no la porta le mudande e la pìsa in piè, come chi omén”.
(La Rosa non porta le mutande e piscia in piedi come gli uomini).
Anche la zia Veronica era un personaggio di quelli che non passano inosservati.
Come Méda Rosa aveva gli animali nella stalla ai quali preparare il mangime, poi le patate da raccogliere, l’erba da segare da qualche parte, le foglie di frassino da raccogliere (“pelàr fuoia”, si diceva in gergo) per nutrire i conigli che ne vanno ghiotti, e l’orto, davanti a casa, da sistemare.
Insomma, tutti quei lavori che la potessero tenere fuori da casa, la quale appariva all’ospite più un magazzino che un luogo dove vivessero degli umani: c’erano sacchi di sementi e farina nel corridoio, altri con mangime vario, piselli da sbucciare, sgabelli in legno (gli scàgn)e, sul tavolo di cucina, uova di gallina, contenitori in alluminio per il latte (le càndole), caspi d’insalata, carote da lavare e cento altre cose ancora.
Ogni tanto la Veneziana, sua vicina di casa, le lanciava il solito richiamo, oh Veriiii..., ma quest’ultima sembrava non avere mai tempo per sedersi a fare due chiacchiere; al massimo scambiava qualche scarna battuta dalla finestra della stùa, nel breve tempo che intercorreva fra la preparazione di un impasto di mangime e l’altro.
Allora la Veneziana si rassegnava a ritornare in casa per sedersi sulla sua seggiolina bassa, vicino alla finestra e con vista sulla strada, immergendosi nell’immancabile lavoro a maglia o nel rammendo di qualche calzino dei figli.
Anche lei aveva l’orto al fianco della casa, come tutte le altre donne del paese, ma, a differenza di loro, vi dedicava assai meno tempo e tuttavia l’insalata e le altre verdure sembravano crescere nell’identica maniera.
Forse, proprio per questa sua “diversità” era sempre stata chiamata con quel soprannome che ne metteva in risalto la provenienza dalla città lagunare e il trascorrere degli anni non aveva diminuito, ma, anzi, rafforzato l’abitudine.
Nella sua parlata tipica veneziana, non pronunciava la “elle”, tanto che questa caratteristica aveva creato una strana situazione al paese, quando il marito di lei, per lunghi anni muratore all’estero, arrivato all’età della pensione, se n’era tornato a casa in pianta stabile.
Capitava spesso, sull’ora del mezzogiorno, che la Veneziana chiamasse il marito a casa per il pranzo; avendo lui nome Celso, succedeva che quella “elle” non pronunciata, proprio nel mezzo del nome, unita alla “esse” insistita per dare forza al richiamo, producesse delle assonanze particolari, dando origine a sorriseti e commenti ironici nel villaggio, ben presto arrivati alle orecchie di tutti.
A lungo andare era venuta a conoscenza della cosa e, rapidamente, vi aveva posto termine ricorrendo ad un piccolo e semplice stratagemma: il nome Celso era stato abbreviato in Elso e, pur se pronunciato senza la “elle” e con la “esse” rafforzata, poteva al massimo richiamare alla memoria, in chi ascoltava, la marca di una benzina, e non già quel luogo della casa nel quale si va rigorosamente da soli e che nessuno lassù al paese aveva mai chiamato “bagno” o “toilette”.
Io l’avevo sempre chiamata con il suo nome, Elvira, e non dimenticavo mai di andarle a fare visita, sia perchè era la madre dei miei amici e compagni di escursioni Bruno e Giorgio, sia per il fatto che non mancava mai di offrirmi un grappino fatto con le pigne di pino mugo e, più di tutto, perchè era forse l’unica persona del paese che si concedeva il tempo per fare due chiacchiere.
Anche la Carmela faceva vita da casalinga, cosa assai inusuale in quel paese dove tutti avevano qualcosa da fare, nell’orto, nei campi, nella stalla o nel bosco; del resto, con il marito e due figli emigrati per lavoro poteva disporre di contante per provvedere alla spesa e quindi non aveva la stretta necessità di lavorare la terra ed allevare animali per campare.

Viveva nella casetta, subito sotto la piazza, che era stata del nonno Celeste, dal quale l’aveva comprata, all’insaputa dei figli di lui.
Soprattutto lo zio Mario era assai risentito perchè quella casa l’avrebbe comprata lui, molto volentieri, anche perchè con i fratelli e le sorelle vi era cresciuto, ma, facendo buon viso a cattivo gioco, intratteneva rapporti formalmente corretti con la Carmela, anche se si percepiva che a lui era cordialmente nemica. Una volta lo avevo sentito borbottare un po' astioso:
"...eh, sài mi come che l’ha fat chéla là a convinze ma pàre a ghe la vende..."
(...eh, lo so io come ha fatto quella là a convincere mio papà a vendergliela...)
e, siccome nel frattempo ero un po' cresciuto non mi sfuggì l’allusione alle lusinghe sessuali cui si riferiva.

Lo zio Mario era una figura di riferimento del paese, vuoi perchè gestiva il negozio di generi alimentari a cui tutti si rivolgevano, vuoi perchè aveva in gestione il telefono pubblico installato sull’angolo di casa sua, vuoi per il suo passato fatto di anni di prigionia in Africa, sotto gli Inglesi, ai tempi della seconda guerra mondiale, e poi di lavoratore emigrante in Svizzera.
Per molti era come un fratello maggiore che aveva un sacco di esperienze e conoscenze da trasmettere ai più giovani che, infatti, spesso si ritrovavano a casa sua, dopo cena, ascoltandolo raccontare le sue storie davanti ad un bicchiere di vino, ovviamente negli anni antecedenti l’avvento della televisione.
Anche per me era un riferimento, la persona che più di tutte mi ha legato a quel villaggio di anime lavoratrici, cresciute a polenta, patate, lugànega e fatiche.

Ricordo un inverno verso la fine degli anni cinquanta.
A quei tempi nessun abitante dei paesi di Pecol e Piaia possedeva l’automobile, quindi, durante i mesi invernali nessuno avvertiva la necessità di sgomberare la strada dalla neve che cadeva abbondante a quella quota, ben oltre i mille metri.
Così il nastro sterrato della via che conduceva al villaggio, una volta ricoperto dal bianco strato, diveniva un’ideale pista di slittino, unico, ma gustosissimo terreno di giochi che impegnava tutti i ragazzini del paese per interi pomeriggi, terminate le lezioni a scuola.
Inizialmente la pista era di circa trecento metri e terminava prima della curva di Revinàza, cioè fin dove al fianco della strada non vi era dirupo.
Il fatto è che, in seguito, giorno dopo giorno e di cinquanta metri in cinquanta metri, si era allungata fino ad arrivare direttamente al ponte di legno, ben un chilometro oltre la curva.
Il fatto che non vi fossero protezioni a bordo strada, se non qualche raro paracarro sulle curve, e, sotto, una scarpata che in alcuni punti raggiungeva i cento metri, non era stato sufficiente, evidentemente, per spaventare quei ragazzini sicuri della loro padronanza degli slittini.
L’unico timoroso ero io perchè venivo dalla pianura, non possedevo slittino e prendevo posto ora con uno ora con l’altro, dovendomi fidare dell’altrui destrezza. Un giorno lo zio Mario, accortosi della mia situazione d’inferiorità rispetto agli altri ragazzini, si chiuse nel piccolo laboratorio di falegname e ne uscì solo a sera, tenendo in mano uno slittino realizzato con tutti i sacri crismi.
Quando me lo porse fece di me il ragazzino più felice del paese.
Ovviamente, non essendo io sufficientemente esperto, non partecipavo alle gare di velocità in cui si impegnavano tutti gli altri, che, mano a mano che si batteva e lisciava la pista, divenivano sempre più accanite e veloci, senza che nessuno pensasse minimamente a quel dirupo che incombeva subito al fianco della strada, anzi sembrava proprio non esistere.
Con l’inasprirsi della competizione, però, prima o poi doveva succedere che qualcuno commettesse un errore e, quando successe, per fortuna non vi furono conseguenze.
Fu verso sera, dopo un pomeriggio di gare accanite, con la stanchezza che cominciava a farsi sentire nelle gambe ed avvenne proprio nell’ultima curva verso destra, alcune decine di metri prima del ponte, nel punto in cui la scarpata precipita, ripida, sul fondo valle ove scorre il torrente: Lino era steso sullo slittino, " in pànza " come dicevano loro, impegnato in un testa a testa, sembrava potercela fare a prevalere ed arrivare primo, ma, improvvisamente, si rese conto di avere impostato male proprio l’ultima curva.
Lo slittino, ad un certo punto, si diresse dritto verso il baratro e il fondo del torrente, settanta metri sotto; ebbe la prontezza di lasciarsi rotolare sul fianco, buttandosi giù per fermarsi a terra, a bordo strada, mentre lo slittino proseguì la sua corsa andandosi a schiantare sotto al ponte.
Fu così che i suoi genitori, quando si accorsero che era ritornato a casa senza slittino, vollero sapere cos’era successo e scoprirono il pericoloso gioco-competizione.
Subito passarono la voce a tutti gli altri genitori che fecero scattare reprimende e divieti, così che la curva di Revinàza tornò a diventare “limite invalicabile”, come era stato all’inizio dell’inverno.

Un altro ricordo, ancora più intenso, mi lega alla via del villaggio.
Qualche anno dopo quell’indimenticabile parentesi nella quale io stesso ero stato abitante del villaggio, seppur per il solo spazio temporale di un anno, mi ritrovai a trascorrere le vacanze natalizie a casa dallo zio Mario.
Nel frattempo, questi, aveva avviato un negozietto di generi alimentari, ricavato sotto casa, dove prima c’era la bottega da falegname nella quale realizzava arnesi da lavoro: rastrelli, gerle, manici per picconi e badili, sgabelli da usare nella stalla alla mungitura e altre cose ancora.
La strada era sempre chiusa e un cospicuo strato di neve lavorata la ricopriva uniformemente; proprio per questo il fornitore di generi alimentari era arrivato soltanto fino ad Avoscan con il camioncino ed aveva telefonato allo zio di scendere a prendersi le provviste: troppo pericoloso salire con le catene per quella stradina senza guard rail.
Lo zio Mario, che ben conosceva le fatiche del tirare una slitta in salita con tanto di carico a bordo, lanciò una proposta a me ed ai cugini che ciondolavano per casa:
...vulèo ve fà ‘na montada con la luòda fin dù in Osciàn, bocie?
(...volete farvi una discesa con la slitta fin giù ad Avoscan, ragazzi?”).

Noi capimmo subito che quel divertimento sarebbe stato pagato subito dopo con la fatica di risalire, oltretutto aiutando lo zio a trainare la slitta con il carico di provviste, ma accettammo ugualmente.
Fu così che, oramai con il buio, salimmo a bordo della grande luòda di legno, lo zio Mario davanti, alla guida con gli scarponi ferrati, noi ben aggrappati alle assi e mio cuginetto Giulio dietro, rigorosamente “in pànza” sul suo slittino.
Furono sensazioni indimenticabili: entrammo nel buio della notte al quale non eravamo abituati perchè, a sera, ci si ritirava in casa e non c’era più motivo di uscire fino all’indomani, su quella slitta che scivolava silenziosa sullo strato di neve compatta, con il freddo pungente dell’aria sul viso e nelle orecchie, gli occhi che dopo un po' si erano messi a lacrimare e noi contenti di essere lì stretti gli uni agli altri dietro allo zio, scivolando su quel nastro bianco con a fianco l’ombra scura e misteriosa del bosco. Dopo il ponte scendemmo e la luòda fu trainata lungo il piano fino a Costa de Mèz, poi rimontammo per riprendere la scivolata fino ad Avoscan.
Finito quel divertimento, aiutammo lo zio Mario a caricare la luòda, poi iniziammo a risalire lentamente trainando il carico, lo zio impugnando le mànteghe, i ragazzi con le funi legate alla slitta, io, dietro a loro, con lo slittino di mio cugino Giulio e relativo carico.
Altre sensazioni, completamente diverse, ma ugualmente indimenticabili: i passi lenti e calcolati per fare in modo che il respiro non diventasse affannoso, il freddo della notte che veniva prima contrastato, poi respinto e infine sopraffatto dal calore del corpo che stava faticando, il particolare crocchiare della neve pestata dalle suole degli scarponi e, da ultimo, la luna uscire da dietro la Mont da Zelàt ad illuminare quel paesaggio che, già di per sé affascinante, diventava quasi irreale, se non magico.
E’ così che quel ricordo è rimasto impresso nella mia corteccia cerebrale, immutabile negli anni e, anzi, a distanza di tanto tempo, credo di poter dire che quell’esperienza mi abbia insegnato qualcosa, oltre che regalarmi quelle indimenticabili sensazioni.
Ripensandoci mi sono convinto che quell’esperienza sia stata come una metafora della vita stessa: la giovinezza vissuta come una discesa divertente, scivolando verso valle, senza responsabilità, su una slitta guidata da mani esperte e sicure, gustandone a pieno le sensazioni e le emozioni, e poi, inevitabilmente, con gli anni della maturità, una salita lenta e faticosa, da affrontare con il giusto passo, consapevolezza e senso di responsabilità.
Credo di avere iniziato ad imparare in quell’occasione, che la vita andava affrontata come se fosse la via che conduce al villaggio; capendo che ciò che importa è il metodo con il quale affrontare le situazioni, avendo una mèta a cui arrivare, un obiettivo da raggiungere: esattamente come quella notte sulla via del mio villaggio.
Probabilmente è proprio per questo che, quando vi faccio ritorno a distanza di tanti anni, pur percorrendola in automobile, senza alcuna fatica se non quella di girare il volante, imboccandola, provo, ancora oggi, quasi un brivido, una sensazione tutta particolare, se non unica.

Peccato che, una volta arrivato, non possa più trovare quelle persone che hanno popolato i miei anni giovanili.
Molto è cambiato.
Sono rimasti pochi i giovani, e sfrecciano veloci per la stradina chiusi dentro l’involucro delle loro automobili per recarsi in valle a lavorare in qualche occhialeria o in qualche ristorante tipico, mentre i vecchi, sempre più acciaccati e malfermi, secondo antica consuetudine, continuano ad allevare galline e conigli e non più le mucche perché è troppo faticoso ed impegnativo, a lavorare l’orto e i campi, almeno quelli che si trovano più vicini al paese.
Così che i campi più lontani diventano progressivamente terra incolta, esattamente come anni fa lo erano diventati i prati di Ciàmp, a quasi 2000 metri e, successivamente, quelli più bassi di Col d’Armente e di Pianpezzei.
Non so se sia giusto rimpiangere tempi oramai passati, ricordare una società agro pastorale che non ha più ragione di esistere oggi nella civiltà dell’automobile, degli aerei, della televisione, di internet, di tutte quelle innovazioni che agevolano e hanno reso confortevole la vita degli uomini; almeno di quelli che fanno parte delle società industrializzate...

Personalmente ritengo che rimpiangere quei tempi non sia giusto, ma averne dimenticato valori e principi sia stato colpevole.


Gabriele Villa
Ferrara, 15 maggio 2006


Piccolo glossario.

Méda: equivale al rispettoso “signora” che si deve alle donne sposate e madri di famiglia. Ne sottolinea la figura matriarcale.

Barba: equivale al “signor” da far precedere al nome dell’uomo adulto, generalmente un po' avanti negli anni. Ne evidenzia la figura patriarcale.

Triòl: è il sentiero di montagna, in genere stretto, tanto da consentire il passaggio di una sola persona per volta.

Stùa: è la stanza equivalente a quella da pranzo, dove in genere c’è il fornello che la scalda e nel quale si raccoglie la famiglia o si intrattengono gli ospiti.

Luòda: grande slitta tutta realizzata in legno; adibita a trasporto di fieno, legname e qualsiasi altro peso non trasportabile a spalla.

Mànteghe: impugnature per consentire il traino della luòda; realizzate con rami di faggio e fissate sul davanti della slitta.

Brénta: fontana caratteristica con le assi di legno sui bordi che consentivano alle donne del paese di lavare il bucato, prima dell’avvento dell’acquedotto e delle lavatrici.

Lugànega: salame tipico del Veneto, non molto lungo e assai sottile.

Càndola: pentolino in alluminio, munito di coperchio; solitamente della capienza di un litro.

In pànza: letteralmente “in pancia”, ovvero stesi a pancia in giù e afferrando con le mani le lame dello slittino per poterlo condurre.

Scàgn: sgabello di legno formato da un’assicella scavata a forma di cucchiaio e con tre gambe. Veniva usato abitualmente nelle stalle per la mungitura delle mucche e delle capre.