Patrizia
di Eros Pedrini
“Sai chi ho rivisto?”
“Chi?”
“Patrizia”
“???”
“Patrizia, Patty, ... A Mandolino!”
“Nooo!, sul serio? E come l’hai trovata?”
“...Bellissima!”.
Ora siamo in due, davanti a una birra, a pensare, ognuno per suo conto, a lei, a Patrizia.
O, per meglio dire, a ...A Mandolino.
Di lei si era persa traccia.
E’ storia di qualche anno fa.
Si era iscritta ad un corso di roccia, partito con premesse non del tutto entusiasmanti in un fine settimana di maggio. Cielo grigio, arietta freddina, tutti a pestare i piedi nel piazzale del parcheggio sotto la fascia rocciosa della palestra.
Prima ancora di lei, dalla macchina scese il suo sorriso; fu come una folata di vento fra i peschi in fiore in un film di Kurosawa.
E arrivò subito primavera.
Rischiò di arrivare, con notevole anticipo, perfino l’estate quando, assegnati gli allievi agli istruttori, misi a fuoco che lei sarebbe stata con me.
Emozioni dovute all’età, insinuò qualcuno.
Ma la verità è che io, di fronte a certi spettacoli, resto ancora incantato.
E così, per tutto quel fine settimana e per altri ancora ci frequentammo, su e giù per placche, camini e fessure, in un gioco continuo in cui ci si lasciava ad una sosta per ritrovarsi a quella successiva: lei con quel sorriso luminoso, io con la premura di chi sa di avere a che fare con un pezzo da collezione di porcellana Ming.
In tutto quel viavai di salite, discese, traversate e riposi alle soste, si sa, l’istruttore precede e l’allievo segue.
Fu solo in occasione di una “moulinette” che ebbi la consapevole visione di ciò che altri, istruttori ed allievi rigorosamente maschi, andavano osservando da lungo tempo.
Parlo, beninteso, di quella parte anatomica di Patrizia che fa sì che ogni arrampicatore si auguri di averla da prima nella sua cordata o da seconda nella cordata che lo precede.
Mi riferisco al suo ondeggiante, armonioso, proporzionato, seducente fondo schiena che non mi era ancora capitato di poter ammirare con la calma e la consapevolezza necessarie.
Mi scoprii a sussurrare, a bocca aperta, nel corso di un esame meticoloso e circostanziato “...a mandolino, è proprio a mandolino...”, quasi potessi vantare l’esperienza di un liutaio cremonese del XVII secolo mentre fiuta i suoni nel tronco vivo di un abete rosso del Bosco di Paneveggio.
Da allora “a mandolino” fu il suo nome; anzi, “A Mandolino”, con le maiuscole dovute ad una così alta espressione di perfezione. Con l’approvazione entusiastica e plebiscitaria dei maschietti.
Lei lo sapeva, ma non ci disse mai nulla.
Continuò a distribuire i suoi sorrisi con generosità e naturalezza.
Ad arrampicare, poi, ci prese gusto e fece coppia fissa con Franco, uno degli allievi più attivi e affidabili.
Noi istruttori li seguivamo un poco “a vista”; si capiva che Franco ce l’avrebbe portata via, prima o poi.
E ci eravamo quasi abituati all’idea.
Come in tutte le storie, la svolta inaspettata giunse, per l’appunto, inaspettata; e fu una svolta triste per tutti noi.
La coppia si sciolse.
Franco riprese, dopo un paio di settimane, a frequentare le riunioni del giovedì sera, A Mandolino non si rivide più.
Fosse successo il contrario l’avremmo sopportato con maggiore disponibilità.
Ci sentimmo orfani di un luminoso sorriso e, arrampicando da secondi, ci scoprimmo ad osservare a lungo, con un certo disgusto, i polpacci pelosi dei nostri compagni, sospirando.
Poi, si sa, il tempo fa il suo lavoro.
Qualcuno dei miei cosiddetti amici insiste che è anche effetto dell’età.
Comunque sia, il ricordo, poco a poco, si fa leggero e meno urgente.
Non la dimenticammo (e come avremmo potuto...); solo cercammo di rendere meno penoso il distacco, ammorbidendo i contorni dei nostri ricordi. Insomma, provammo a pensare ad altro.
Vennero le cascate, poi lo scialpinismo e infine la solita primavera.
Venne perfino il nuovo corso di roccia, e tutto il resto ancora.
Si può quasi dire che mettemmo il cuore in pace.
Almeno fino a ieri, quando il suo sorriso ha svoltato l’angolo ancor prima di lei, venendo a sbattere sulle lenti non esattamente cristalline dei miei occhiali; l’ho proprio sentito stamparsi sopra, con il solito profumo di frutta e l’arietta frizzante. E dietro c’era lei, tutta intera.
“Mi ha perfino abbracciato!”
“Ti invidio un po’. Ma, le hai detto di venire a trovarci?”
“Le ho detto che ci manca, molto”
“Allora, forse, si farà rivedere, speriamo...”
“Oh, sì, certo..., magari...”.
Finisco la birra, Aldo finisce la sua ed usciamo.
Ma come faccio a dirgli che sarà davvero difficile che si faccia rivedere?
Sì, perché sta ripartendo proprio ora per l’Africa: ritorna al lavoro, in una piccola missione, in un piccolo villaggio, in un grande paese di fame. Dove non c’è una montagna nel raggio di 400 chilometri.
Dice che ha scoperto di colpo che quella è la sua vita.
E l’arrampicata, e la corda, e i chiodi?
Tutto finito. Bello, sì, mille grazie, ma tutto finito.
Eppure io so che cosa ci unisce, ora, abitanti di quello sperduto villaggio e noi, istruttori ed allievi del “suo” corso roccia.
E lo immagino muoversi, attorno ad un fuoco, in un tramonto da favola, mentre prende lentamente l’avvio al suono ritmato di un tamburo; sinuoso, flessuoso, esaltato da un drappeggio batik dai colori sorridenti come le bocche degli abitanti di quello strano villaggio che ce l’ha portata via.
...a mandolino, naturalmente, ...proprio a mandolino!
Eros Pedrini
Brescia, maggio 2008