Vento fino vento del mattino
di Massimo Anile
C’è un’ora, sui nostri monti, in cui il vento si impadronisce della notte e la scaccia.
Le cime slanciate delle conifere, nell’aria metallica, si flettono e danzano.
Ballano la canzone del sole, della luce.
Della speranza.
Il volo per Linate era stato cancellato.
Matteo rimase attonito per una decina di secondi davanti al timetable di Heathrow.
Tutto lasciava supporre che la prossima notte sarebbe trascorsa in aeroporto, dormicchiando sulle seggiole stinte davanti alla Gate 13, un numero a cui aveva sempre associato l’idea di fortuna e che negli ultimi anni guardava invece sempre più con sospetto.
Lista d’attesa.
Persone pallide, forse manager afflitti dall’andamento insoddisfacente dei loro budget, formicolavano ovunque trascinando stancamente i loro troller Samsonite.
In un angolo, una famiglia araba sedeva composta davanti ad un Hiddish con l’immancabile kippah sulla testa.
Londra è tutto questo e ancor di più, pensò Matteo.
Ma aveva in mente un altro luogo.
Anche se non riusciva a concentrarsi su di esso.
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Glielo aveva insegnato sua nonna: quando le cose non vanno per il verso giusto, bisogna uscire dai cattivi pensieri prendendo la porta della fantasia.
Anche il dolore può essere abbandonato alla sua sorte, con questo piccolo trucco.
Nelle fredde notti d’inverno, quando il vento soffiava implacabile come un lama di ghiaccio insinuandosi tra i serramenti poveri della loro dimora, lei lo vegliava paziente, solida, con lo scialle appoggiato sulle spalle.
“Pensa all’estate” gli sussurrava quando la tosse gli lasciava un varco di respiro “pensa ai fiori nel campo, agli animaletti che fanno la nanna all’ombra di un bell’albero”.
E lui piano piano si rasserenava, usciva da quella notte gelida per la porta della fantasia e piombava in un piccolo paradiso immaginario, dove il freddo e il male non si avvertivano più, perché avevano lasciato il posto alle cinciallegre e ai garofanini di montagna.
La nonna gli aveva messo tra le mani un amuleto prezioso, che poteva essere estratto come ultima risorsa prima di darsi per vinto.
Aveva avuto paura, e tanta.
Aveva provato dolore, e tanto.
Nelle piazze, nelle risse, sui campi da gioco, nelle situazioni in cui diventava difficile immaginare una via di fuga.
Un giorno, sul Campanile Basso, stava risalendo il lungo ed ideale diedro della via Fehrmann.
L’aria era ferma, come fosse ghiacciata.
Enrico era appena partito dalla sosta quando all’improvviso s’era avvertita una vibrazione dell’aria.
Era stato un attimo, un attimo.
Più che un sibilo, un frullare di aria, e poi la botta tremenda sulla spalla.
Meno male che era ben assicurato, e la corda non aveva subito lesioni.
Erano ancora bassi, per carità di Dio, ma perdeva sangue e aveva fitte terribili.
C’erano volute tre ore prima che il soccorso raggiungesse la cengia, un tempo assolutamente accettabile, ma per lui infinito, eterno...
La nonna, invece, era arrivata subito: l’aria si era scaldata e il tempo era trascorso lento, ma in una dimensione dove c’erano caprette e pascoli, alpeggi da cui si levava un confortante odore del fuoco.
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Nella riunione del Consiglio di Amministrazione c’erano i presupposti per una furibonda lite.
Da quando s’era affacciato sul mercato quel disgraziato competitor, le cose erano andate sempre peggio.
Avevano provato di tutto, davvero, ma le quote calavano a vista d’occhio e bisognava decidere in fretta qualcosa di realmente efficace, prima che le perdite si facessero tali da impedire qualsiasi ripresa.
Le banche erano affar suo.
Aveva cercato di tranquillizzare, di seminare serenità e fiducia, come era nel suo stile e come faceva sempre coi collaboratori.
Ma poi qualcuno aveva detto basta e gli investitori lo avevano seguito.
Tornava a casa con le ossa rotte.
E sapeva che era finita davvero, stavolta.
Dieci anni, tante cose fatte, tante idee ancora da concretizzare.
Sapeva però che i sogni, senza un piano, senza un sostegno fiduciario o una copertura politica, sono solo piccoli impulsi nervosi che scaricano l’energia accumulata nel nostro sonno.
Tornava a casa.
E il suo delirio ricomposto, il suo io ridimensionato a misura di sconfitta, gli pesava meno sulle spalle, dal momento che si era preso tutte “le responsabilità del caso”.
Brecht scrisse “ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”, ma questa amarezza, alla fine, era persino liberatoria.
Lo faceva un tempo anche in montagna: scegliere e assumersi la responsabilità della decisione.
Scendendo dall’Aiguille del Savoie, ad esempio, aveva detto “di qui”, ed aveva risolto il dedalo di seracchi verso il rientro mettendosi in testa, analizzando con tutti i sensi accesi quel percorso rischioso, giungendo al rifugio stremato, ma fiero della propria caparbietà e della propria intuizione.
Ma prendersi “le responsabilità del caso” in una società a capitale privato dove le cose non vanno bene, significa anche accettare di pagare un lauto prezzo in cambio della propria dignità.
Così si era dimesso.
Sapeva che la sconfitta avrebbe pesato negativamente sul suo curriculum, che la situazione in famiglia sarebbe peggiorata, che i suoi figli avrebbero simulato inizialmente una solidarietà che poi, alla prima rinuncia concreta di una moto, di una vacanza, si sarebbero rimangiati, accusandolo di avere fallito.
Ma è la vita.
Ci sono momenti felici che paiono ordinari e scontati, finchè il vento non gira.
Così l’esortazione al carpe diem di Orazio a Leuconoe, non ha nulla a che vedere con l’interpretazione che oggidì va per la maggiore.
Tu non domandare - è un male saperlo - quale sia l'ultimo giorno che gli dei, Leuconoe, hanno dato a te ed a me, e non tentare gli oroscopi di Babilonia.
Quanto è meglio accettare qualunque cosa verrà!
Sia che sia questo inverno - che ora stanca il mare Tirreno sulle opposte scogliere - l'ultimo che Giove ti ha concesso, sia che te ne abbia concessi ancora parecchi, sii saggia, filtra il vino e taglia speranze eccessive, perché breve è il cammino che ci viene concesso.
Cercò di dormire.
Ma sapeva che non sarebbe stato facile, non tanto per la confusione esterna, che a volte gli conciliava addirittura il sonno, quanto per l’accavallarsi dei pensieri.
A volte nella testa si sentiva un groviglio inestricabile, peggio di quelli che combinava da ragazzo durante le sue prime battute di pesca.
Allora, poteva darsi un tempo e provare a scioglierlo, ora c’erano i timing imposti da una società che corre una corsa senza fine, a perdifiato, verso chissà quali obiettivi.
Buttare via, dimenticare, cambiare marcia e schema di ragionamento.
Qualche volta gli capitava di raccontarlo nelle riunioni, per incentivare l’impegno dei suoi uomini, ma finiva sempre per introdurre dei meccanismi correttivi, perché quella filosofia proprio non gli piaceva.
Così come compativa le persone che buttavano all’aria i loro progetti di vita solo per capriccio.
Quanti matrimoni aveva visto distrutti per l’ansia di rincorrere un sorriso nuovo?
Troppo tempo e troppa fatica per ricostruire, per dirimere la matassa, meglio buttare via tutto e ricominciare...
La natura non butta via mai nulla, si diceva.
Tutto si rigenera in un ciclo eterno dove atomi e molecole si ritrovano ora nutrimento, ora consumatore.
E questo equilibrio, sorretto da una magia più grande cui non possiamo dare sempre una spiegazione, è il vero mistero.
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Doveva restare lì, attendere d’esser chiamato per il prossimo volo.
Magari la compagnia avrebbe individuato un tragitto indiretto, per abbreviargli l’attesa.
Doveva restare là, per tornare prima, insomma.
Anche questa era una contraddizione, no?
Ma si alzò ugualmente.
Fuori dalla vetrata c’erano alcune piante che agitavano le fronde e sentì il bisogno di prendere un po’ di quel vento per sè, di riempirsene i polmoni.
Uscì e vide che ormai stava per albeggiare.
Allora fece una cosa che non faceva più da quando era ragazzo.
Sfuocò volutamente le immagini, per sfumare i contorni, per addolcire le cose.
Così vide in quelle fronde le cime dei suoi pini d’infanzia, quelli che non erano ancora diventati abeti rossi o picea excelsa, semplicemente i suoi “pini”.
E si ricordò la nenia reiterata, ma per nulla triste, di una vecchia canzone francese.
Si concentrò e ritrovò la chiave segreta che non aveva più usato negli anni di falsa consapevolezza che la gente comune chiama stupidamente “maturità”.
Rivide la sua malga, lo sfumare lontano delle dolomie del Brenta.
La nonna che mitigava il suo mal di pancia bonario con quella canzone, la canzone del vento fino, del vento che soffiava e danzava e giocava e lo trascinava lontano, dove si poteva cercare di esser ancora felici.
Massimo Anile
Cusago, 3 agosto 2005