Una scelta lunga 25 metri

di Roberto Avanzini



E’ inutile, ci casco tutte le volte!
Mi do arie alpinistiche, compro mezze corde da 60 metri, friends, dadi, chiodi da granito e da calcare, scarpette ampie e comode, rinvii lunghi, anelli di kewlar... ma alla fine tutto rimane in soffitta in cerca di improbabili ascese all’interno dell’armadio. Il motivo di questo capitale mal investito è uno solo, fin da fanciullo sono posseduto da un sulfureo e inestirpabile demone, la cosiddetta “arrampicata sportiva”.
Ormai prossimo alla soglia dei quarant’anni, con molti capelli bianchi e qualche doloretto alle giunture, ogni marzo, prendo imbrago e magnesio per tremebondo cominciare la ricerca della forma perduta durante l’inverno.
Il “Mio Luogo” mi aspetta: pareti più o meno verticali ma accomunate da un’unica e solida caratteristica: dei bei chiodi molto vicini l’uno all’altro.
Perché? Semplice, perché è bellissimo!
Risalire una stradina in mezzo al bosco mentre sulla pelle scorrono d’incanto strani disegni proiettati dalle lame di luce che filtrano tra gli alberi.
La totale, perfetta e spaventosa bellezza della roccia; a volte è come attraversare un quadro, dove le forme rivelano una complessità e armonia del tutto irripetibile.
Percorrere un lungo mare di pochi metri dove gli appigli sono isole che a volte consentono un tranquillo sbarco favorito dall’alta marea dell’armonia motoria, altre ti accolgono un attimo prima del naufragio nel gorgo della gravità.
Le sensazioni tattili dell’arrampicare, il sentire sotto le dita la grana diversa ad ogni metro, la pressione sulla pelle che cambia ad ogni piccola o grande discontinuità della parete; perfino i poveri piedi, tanto dimenticati nella vita di tutti i giorni, hanno il loro momento di gloria e grazie alla lasciva complicità di misteriosi intrugli gommacei inglobano piccole asperità per scaricare quel poco o tanto peso che fa sempre la differenza tra il salire e il fermarsi.
La totale onestà di quello che fai, niente aiuti, scalette, cose da tirare o spingere; solo alcuni rinvii, la corda, l’imbrago e le scarpe, o sali o non sali.
La pazienza e l’umiltà che occorrono spesso per riuscire; sudare e arrivare al limite per fare 4 o 5 movimenti che non conducono da nessuna parte, nessuna cima, nessuna parete dal nome altisonante da inserire nel curriculum, solo la soddisfazione personale di aver composto una sequenza complessa di spostamenti e aver resistito alle streghe che ti sussurrano che si, quel rinvio lo potresti anche afferrare, tanto ormai sei alto e non ti vedrebbe nessuno.
Il vuoto, l’assenza , l’interminabile e indeterminabile momento del volo, quello a cui non ci si abitua mai anche se si conosce già, si conoscono gli occhi sbarrati e il rifiuto del corpo a fare una cosa che non sarà mai naturale per l’uomo. Poi tutto finisce qualche metro sotto e ogni volta ci si stupisce che non è accaduto nulla e che i fantasmi siano spariti, anche se sai già che svolazzeranno ancora attorno a te la prossima volta che ti mancheranno 5 centimetri a quel maledetto buco con i piedi che staranno per partire...
Il confronto con gli altri, dove la gara sempre presente ma mai dichiarata con il tuo vicino di via a volte è palese, ma fortunatamente sempre più spesso diventa un sereno consigliarsi, confrontarsi e divertirsi assieme.
Il sentir parlare 5 lingue diverse ma riuscire in qualche modo a capirsi.
Il vedere 10 vie a destra (e 10 gradi sopra il tuo) il buon Roberto Bassi, Rolando Larcher, François Legrand, Thomas Mzarek, Maja Vidmar, Gerome Mejer, Daniel Dulac, Olga Bibik e ammirarli per la loro perfetta assenza del superfluo, non un frammento di movimento che non sia finalizzato alla progressione.
Vederli, ammirarli ma non invidiarli, sapendo che loro come te stanno cercando il limite che ognuno ha nascosto in fondo ai propri neuroni, anche se il loro è siderale rispetto al tuo.
La natura in cui sei immerso, le foglie multicolori in autunno, il caldo bruciante sulla schiena l’estate, il vento ancora freddo della primavera, la maglia sporca di magnesio, le formiche nelle scarpe, le olive sugli alberi nel primo inverno.
Tutto questo è per me arrampicare e io amo alla follia farlo.
Scusate, so che non sono obbiettivo, so che sotto le basse pareti da cui costellazioni metalliche ci osservano luccicando in ordinate file c’è anche la maleducazione, lo sporco, gli imbrogli, l’agonismo, l’affollamento snaturante, il mettersi in mostra, il sentirsi migliori degli altri, gli appigli scavati, gli spit che invadono le montagne e cancellano a volte il passato, gli atteggiamenti da hippy fuori tempo massimo o, all’estremo opposto, gli atleti da beverone energetico, 50 trazioni con sovraccarico e cortisone da tendinite al seguito... ma non pretendete lucidità da un innamorato.
Ognuno ha scritto il proprio destino motorio, se non fossi nato a 10 chilometri da Arco forse adesso sarei su qualche bellissima e sperduta cima dolomitica, ma l’imponderabile alchimia che nasce la prima volta che metti in contatto la pelle con la roccia mi ha portato a fare delle cose diverse.
Invidio e ammiro molto chi riesce ad essere tranquillo sul quarto grado con 7-8 metri di corda libera sotto, semplicemente e sinceramente io non ci riesco e questo per me, soprattutto nei primi anni della mia attività, è stato anche un piccolo problema.
Forse perché ho vissuto dal punto di vista arrampicatorio in un ambiente in cui tutte le contraddizioni tra l’attività in falesia e l’alpinismo si sono a lungo confrontate e a volte scontrate.
A parer mio una quindicina di anni fa le due strade si sono giustamente separate e anche se i praticanti sono spesso gli stessi le regole del gioco sono talmente diverse che possiamo parlare di due attività sorelle ma non confrontabili.
Adesso quando passo la corda nel moschettone finale, mi appendo alla catena e guardo il lago di Garda in fondo alla valle, accarezzo la roccia, la ringrazio e le sussurro di portare pazienza con gli uomini e tutti i loro contorcimenti mentali.

Roberto Avanzini

Agosto 2006