Sacro Sarca
di Cristiano Pastorello
La prima via alpinistica l’ho percorsa un nebbioso giorno di marzo sulle Piccole Dolomiti e a parte constatare quanto bravi erano Carlesso e soci non riuscii a vedere nulla, nemmeno la sagoma del Baffelan una volta tornati alla macchina. La seconda è stata la copia della prima, quando delle guglie del Fumante ho visto solo la foto in rifugio.
Alla terza, ormai rassegnato a chissà quali orrori meteorologici, sono capitato sopra Arco, a fare il Missile; mi dicevano che ero in Val del Sarca e anche se al tempo ho “tribolato” non poco a far quella via, una parte del mio cuore è rimasta stregata dall’ impressionante quantità di roccia, pareti, spigoli, diedri e placche illuminate dal sole.
Dopo quella volta tornai e ritornai, sempre accompagnato da fidi compagni, finchè la Valle del Sarca divenne una sorta di “refugium peccatorum” di noi alpinisti sempre restii a metter gli scii e ad impugnare le picche e sempre troppo ansiosi a riporre gli attrezzi invernali per riprendere chiodi e martello.
Valle del Sarca: mitico connubio di splendida roccia dalle meravigliose architetture e ghiaioni verticali che mettono alla prova anche il più saldo dei cuori.
Valle del Sarca: odore di leccio ed erica, odore di primavera che arriva e che fa sognare grandi salite dolomitiche, odore di autunno che, come un viaggio catartico, fa pensare a quello che sei stato, a quello che sei e a quello che vorresti essere.
Sarca, che scorre scintillante e rassicurante che tu sia sul Dain, sul Casale, sul Brento; tuttavia nel suo continuo andare è indifferente e anche un po’ dispettoso, cercando di impedirti l’accesso a quel diedro così regolare che, come un libro aperto, quasi vuole raccontare i sogni e le fatiche di tutti quelli che hanno strisciato tra le sue pieghe.
Sarca, nome che ricorda felicità, gioia, paura, un’ombra che si staglia sulla parete percepita con la coda dell’occhio, un nome gridato, il senso di volare verso il basso per poi ripartire più tenace e forte verso l’alto.
Quanto abbiamo imparato dopo aver superato passi friabili e sprotetti, oppure duri ma incredibilmente belli; quanto siamo cresciuti dopo aver trascorso ore e ore a lottare e a patire la sete solo per bere l’ultima luce del sole che incendia lo scòtano nel bosco; quanto abbiamo sofferto dopo che un tuo sasso ha colpito il più piccolo di noi rendendolo poi il più grande; quanto abbiamo gioito nel ritrovarci tutti assieme ancora una volta sulle tue rocce.
Ogni tua parete è un mondo a sé stante: il Dain con il suo “Drago” che si scorge solo al calar del sole, il Casale, odi et amo, per il primo e secondo pilastro, il Brento dove tutte le dimensioni si trovano a confronto e la Mandrea dove le salite sembrano fatte solo per gustar la bellezza del rientro.
All’inizio eri un ripiego, poi sei diventata un’abitudine, ora sei una necessità!
Pochissime sono le classiche che ci mancano, ma che importa? Percorrendo le tue vie ho capito che quello che cerco non sono le difficoltà, non è la bellezza della roccia, non è il prestigio di aver ripetuto o meno una salita, ma è quell’odore che c’è nell’aria così nostalgico e romantico del quale non posso più fare a meno!
“Luce del primo mattino”, “anniversario”, “fiore di corallo”, “viaggio nel passato”, sono solo alcuni dei nomi che ogni tanto mi tornano in mente e che mi ripropongono ricordi ma non di alpinismo, ma di amicizia, forse i più forti e veri che fino adesso ho vissuto.
E quando decidi che per quel giorno vuoi solo divertirti in falesia, non per superbia ti senti differente dagli altri che vicino a te arrampicano sicuri sugli spit, ma perché ti rendi conto di quanto possono darti quelle pareti, a pochi metri dalla civiltà, e soprattutto ti rendi conto di quanto sei fortunato ad averlo capito.
Un grazie a tutti quelli con i quali ho avuto l’onore di accarezzare quelle rocce e di condividere momenti di profonda amicizia e in particolare Balota, Balotin, Maxi, Riccardo, Bruzi e Alberto.
Cristiano Pastorello
Verona, dicembre 2005