Bibì & Bibò sul “Palo della Cuccagna”

di Angelo Bolognesi e Michele Pifferi



23 ottobre 2005.
Una data che entrerà nella storia dell'alpinismo. Una pietra miliare.
Da ora in poi, sarà questo lo spartiacque tra il Vecchio e il Nuovo.
Nel 1786 il Monte Bianco, nel 1938 la Nord dell'Eiger, nel 1953 l' Everest e ora, il sogno di ogni alpinista, Oetzi compreso, si è fatto realtà.
Grazie alla alchemica combinazione tra tecnica, filosofia e Alzheimer, il free climbing, il clean climbing e pure quel placebo del bouldering sono stati soppiantati dal "Oil Sass Climbing".
Naturalmente usando solo la prima spremitura a freddo.
Questa è la disciplina con la quale abbiamo affrontato e conquistato la vetta del "Palo della Cuccagna" di The Holo nella Valle dello Yovomito, l'inaccessibile cima che ha causato più di un esaurimento nervoso, ma soprattutto diverse enteriti ai più eccelsi scalatori dell'intero sistema solare.
La salita è avvenuta attraverso la via ritenuta, fino ad ora, accessibile solo ai geki: la "Via dello Strutto", il sogno di ogni alpinista stitico. Abbandonata la fase esplorativa, esaurita la ricerca delle difficoltà, eliminate per noia le pareti, terminate le direttissime, consumata l'arrampicata libera, è nata l'Arrampicata Triglicerica.
Una breve e purtroppo concitata descrizione dell'impresa e delle sue prime conseguenze consentirà al lettore di valutare meglio la portata dell'evento. Ancora l'emozione ci fa tremar le vene ai polsi.
Erano le prime luci dell'alba quando, all'attacco dellamitica via, ci attendeva il "Camino del Pinzino Muschiato" per terrorizzarci. Ma l'alpinista C.A.I., non si lascia intimidire facilmente e, soprattutto, non si lascia prendere alla sprovvista. Istantaneamente ricordammo gli insegnamenti avuti da un ballerino invertebrato di Bossa Nova, e ci infilammo gagliardi nella orrenda fessura. In un anfratto, ritrovammo la dentiera di Dulfer, chiusa a morsa attorno ad una maniglia dal vago sapore di brodetto.
Con due passaggi aerei, risolti: l'uno con il contributo decisivo dato dal morso di una tarantola infoiata; l'altro, via fax da un falco nepalese con il Ballo di San Vito, ci ritrovammo, ridotti come flagellanti, sulla prima sosta.
Uno skateboard imburrato di 20 cmq, dove ci sdraiammo a riposare e a conversare con un gallo forcello con regolare certificato di sana e robusta costituzione.
Calate le tenebre, affrontammo il secondo tiro "Brill Cream", dopo aver affondato per precauzione, le mani nel nostro inseparabile sacchetto porta-vaselina. L'aurora ci vide impegnati sul "Diedro della Miazza", dal quale, come caprioli paralizzati, balzammo, disposti anche al suicidio sull’inespugnabile "Spigolo del Tamplone". L'estrema difficoltà, anziché indurci al coma, fece scaturire dalle nostre menti geniali, soluzioni a raffica, come rutti all’Oktoberfest.
Dopo l'invenzione del chiodo ad opera di Fiechtl, quella del moschettone per mano di Herzog, dopo le aspre polemiche di natura etica "chiodo si - chiodo no", il passaggio chiave del famigerato spigolo, un tapis-rulant a doppio otto di 1 km, comprensivo di due "chicane" e cosparso di lardo di colonnata, fu superato nelle prime ore del pomeriggio grazie al posizionamento di 200 spit di pinzone con le olive.
Soddisfatti e felici, ci concentrammo ora sul muro che minacciava il cielo davanti a noi: una parete che, per guardarla tutta, ci fece toccare le scapole con le orecchie: il "Muro all'Amatriciana".
In quegli interminabili istanti, avvertimmo un arpeggio celestiale che ci fece alzare gli occhi al cielo, incuriositi.
Sopra una nube di chiare d'uovo montate a neve, ci apparvero Tita Piaz, Detassis e Comici che, con gli occhi lucidi per la commozione e per la nausea, ci suggerirono di ripassare la "Presa Rovescia del Derviscio Mancino in Pinzimonio". Fino a quel momento, era stata usata solo da due mostri sacri: Bonatti sul Karakoram e Cassin quando rientrava a casa dopo le tre di notte. Era esattamente quello che ci voleva. Con la dritta fornitaci dai nostri accozzi nell'Empireo superammo il muro e organizzammo una sosta con dei salsicciotti di cinghiale insaccati nel kevlar.
Di fronte a noi la vetta.
Ci preparammo per l'ultima orrenda fatica che ci avrebbe portati, primi nel mondo, a "Cima Castrol", meglio conosciuta nell'intero Orbe Terracqueo come il "Palo della Cuccagna ". Solo il nome, annichilisce.
A metà dell'ultimo tiro, l'estremo, terribile ostacolo si frapponeva tra noi e la Fama: il "Tetto dell'Anguilla Epilettica".
Un rebus.
La nostra concentrazione era massima.
Stavamo esaminando lucidamente tutto lo scibile sull'alpinismo nello stesso modo con cui un gatto esamina l’interno di un cassonetto. Una luce comparve, esplosiva, nei nostri occhi, quando ci tornò alla mente la N. 135 del Kamasutra nella variante "...postero-laterale".
Fu un trionfo. Sullo slancio, come scoiattoli scoagulati, percorremmo euforici e saltellanti la breve ma infida "Cresta del Crostolo" con un inebetito sorriso di godimento.
E raggiungemmo la vetta. Sopra di noi una leggera pioggia di brodo di pollo. Sotto, i mortali.
Nel nostro cuore, la consapevolezza di aver compiuto un gesto eroico che vorremmo condividere con quanti ci hanno infelicemente preceduto nell'impresa: da Paccard e Balmat su, su, fino a Messner.
Inviamo a tutti loro una doverosa pernacchia.
In nostro onore, da domani, nella scala Welzenbach, verrà inserito anche il tasso di colesterolo.
Ritornati al campo base dopo esserci calati in doppia a ritmo di lambada, e aver spergiurato su ogni tipo di muschi e di licheni, compresi quelli del Presepio, sono stati approntati i cerimoniali di ringraziamento ai quali abbiamo acconsentito partecipassero anche gli sherpa che ci avevano supportato nell'impresa e che doverosamente, ringraziamo.
Non li dimenticheremo mai...
Sono Mark, Mike, Ricky, George, Frisco e Gabriel, un lama di 400 anni che ha imparato a farla su a spire larghe. Unico neo in tutta la splendida impresa, che ci catapulta di diritto nel Gotha dell'Alpinismo Planetario, la malaugurata tentazione che ha spinto il Biagicus Vorax, attratto irresistibilmente dai miasmi emanati dal monte, a cercare di ingoiarlo per intero.
L'esito raccapricciante del tentativo ci ha spinti a stordirlo a colpi di cotechino per poterlo poi immobilizzare.
Non potendo caricarlo in auto per i motivi che chiunque può ben immaginare, sono stati chiamati gli artificieri, che l'hanno fatto brillare in un campo vicino, sotto il cielo notturno.
Molto suggestivo.
I primi fuochi artificiali unti. Per così dire, tutto grasso che cola.
Comunque, in fondo a tutto ciò, rimane una grande, incommensurabile soddisfazione; quella di poter dire: "E’ stata compiuta un’impresa della quale si parlerà nei secoli. E quel giorno, c’ero anch’io... il prossimo, non lo so. Vamo là!

Bibì & Bibò

Ferrara, ottobre 2005