Ricordo di un'estate

di Rita Vassalli



Era l’estate del 1970.
Benché il vento del ’68 non si fosse ancora disperso, anzi, appena affievolito, io non l’avvertivo.
Di tutto quel cambiamento che pur c’era nell’aria non mi curavo. Ne sentivo parlare, ma era allora un mondo distante da me anni luce. Allora ero poco più di una bambina.
Una ragazzina con tanta fretta di crescere che giocava sempre meno con le bambole e che ancora non aveva ben chiaro perché uomini e donne, ragazzi e ragazzine superbe si scontravano, si prendevano, si ridevano in faccia e ogni occasione era buona per sfiorarsi. Anche quell’estate ero in vacanza in montagna con i nonni.

Nonno Giuseppe, detto Beppe, aveva da sempre cercato di infondere, prima ai suoi tre figli e poi ai nipoti, l’amore che lo legava alla montagna. Aveva sempre nutrito per le svettanti montagne un amore contemplativo e rispettoso.
Alto e austero, in gioventù vantava un fisico asciutto, molto probabilmente anche perché a quei tempi il cibo non abbondava e poi una grave malattia lo aveva debilitato, ma col passare degli anni e il boom economico, il suo aspetto si era notevolmente appesantito. Lo tradiva soprattutto il profilo prominente di pancia e stomaco, indizio che lasciava intuire un suo notevole apprezzamento per la buona cucina e soprattutto il buon vino.
D’origini bolognesi, era nato in città e lì vissuto, o a volte in paesi limitrofi, il cambio di residenza era dettato dal suo mestiere di capostazione di cui andava enormemente fiero. Appena veniva l’estate e le agognate ferie, si catapultava con figli e nipoti (all’inizio eravamo solo io e mio fratello) tra i monti.
L’ho ancora ben presente con la sua camiciona a scacchi, quel buffo cappellino di panno verde e le immancabili bretelle che sostenevano comodi pantaloni di velluto a coste grosse. Ma non era solo l’aspetto esteriore che si modificava tra quei luoghi.Guardavo lui e guardavo le genti di montagna, e lui non aveva nulla di diverso da queste persone che nonostante conducano una vita dura e severa sono sempre serene e disponibili. Anche i suoi occhi azzurri parevano brillare di una luce più intensa e il suo corpaccione emanava una gran voglia di vivere in chiunque gli stesse accanto, era una vera trasformazione!

Prima fu Courmayer, poi Danta, poi, come uno dei tanti treni che comandava, si fermò nella stretta vallata agordina, precisamente in quel piccolo paese chiuso ad oriente dalla Civetta: Alleghe.
Alleghe per il nonno significava anche albergo Polo Nord, dal sig.Paolo.
Quando abbiamo iniziato a frequentare quel luogo, io e mio fratello eravamo veramente piccoli e i ricordi sono ormai sbiaditi. Poiché piccoli, a quei tempi veniva anche mia madre, e la villeggiatura durava meno in quanto mamma non poteva assentarsi per molto tempo dall’attività commerciale che conduceva con mio padre.
L’albergo Polo Nord sorgeva sulla strada statale che porta a Caprile. Come tante costruzioni montane non era stato edificato a livello della carreggiata ma su un terrazzamento.
La stranezza e la bellezza di quell’edificio per me si riassumeva nella sala da pranzo. Questa non era parte integrante della struttura, ma dislocata di là dalla strada e consisteva in una splendida veranda stile mitteleuropeo che si affacciava sull’ameno lago. La veranda proseguiva con un ampio terrazzo nel centro del quale fuoriusciva un grosso albero, la cui chioma l’ombreggiava quasi completamente.
Mi piaceva molto quella terrazza perché i primi anni era per me un posto tranquillo ove poter giocare, mentre in seguito l’apprezzai soprattutto come luogo in cui rifugiarmi, spesso sola, ad osservare quel paesaggio, che ormai conoscevo a menadito, e a tenere a bada, alla soglia dell’adolescenza, i miei demoni.
Il lago si estendeva al di sotto, e ai bordi di quella lingua d’acqua con i sui verdi intensi e giallognoli delle falde che vanno a morire nelle sue acque, si stendeva sulla destra parte del paese. Alle spalle troneggiava maestosa la Civetta e tutt'intorno conifere secolari, cime e vette affascinanti che si alternavano senza soluzione di continuità. Ma era soprattutto lei, la Civetta, frastagliata e rocciosa che svettava tra altissime quinte ricoperte d’abeti e larici.
Un po’ meno mi piaceva l’interno della veranda, per via delle pareti per me inquietanti.
Decine d’occhi vitrei osservavano ogni movimento dei commensali. Decine di palline di vetro incastonate in corpi che avevano saltato, corso, volato tra i boschi o sopra alte cime. Ed ora se ne stavano lì, immobili, e ciò che significava prima libertà ora altro non era che un mero trofeo.
Teste di camosci, caprioli, poi marmotte e forse qualche rapace sovrastavano la sala da pranzo.
Ogni volta, prima di mangiare, li osservavo e mi ostinavo a chiedere a mia madre “se erano veri”.
Ma io sono cresciuta in un tempo, ma più che altro in una famiglia, dove si era convinti che nascondere la verità ai figli, specialmente quella che può turbare, faceva parte di una buon’educazione. E così sono cresciuta credendo che la muffa del gorgonzola altro non fosse che prezzemolo, che la zia incinta si ritrovasse quel gran pancione per via di un’abbuffata di tortellini, che gli animali impagliati altro non fossero che peluche…ma anche in cose molto belle come l’esistenza della Befana!
E poi forse, nel caso di quegli animaletti, era proprio ciò che mi volevo sentir rispondere.

Da un certo anno in poi l’albergo Polo Nord smise la sua attività.
Forse per l’insistenza del nonno ma soprattutto per l’amicizia e l’affetto che lo legava al proprietario, il sig. Paolo, il nonno riuscì a farselo affittare nei mesi estivi.
Avevamo a disposizione tutto il pianterreno che comprendeva anche la grande cucina e alcune camere al 2° piano.
Rivedo le donne, nonna e zie, in quella cucina grattugiare, impastare, scoperchiare…
E ricordo l’odore che si percepiva salendo le scale di legno consunto. La nonna affermava che era odore di muri vecchi, ma per me era odore di mele marce, d’erba secca e di fascine e mi piaceva.
Eravamo gli unici abitanti di quel posto che ogni estate diventava sempre più fatiscente.
Quell’estate fu l’ultima che andai coi nonni. Sia io che mio fratello avevamo tentennato: non volevamo lasciare la compagnia d’amici in città e poi il mare a pochi chilometri ci attirava molto più.
In compenso quell’anno si presentò fin dall’inizio un fatto positivo: mia madre si convinse a non mettermi in valigia quegli odiosi pantaloni di velluto alla zuava!
Fu allora che conclusi che poteva essere un’estate piacevole perché iniziata con spirito diverso, e a quell’età, per me, la mia linfa era costituita dalle novità.

Come sempre la prima cosa che faceva il nonno appena arrivati tra i monti, era procurarci un bel bastone, magari di nocciolo, status symbol dell’avventura. Mio fratello ne approfittava subito per sfoderare il suo coltellino per decortecciarlo ed inciderlo, al mio ci pensava il nonno.
Come rito d’iniziazione si effettuava la passeggiata del lago. Si arrivava a Masarè, si oltrepassava il ponte sul Cordevole e seguendo il sentiero in riva al torrente si passavano le frazioni di S.Maria delle Grazie e Caprile, poi il solito rientro per strada asfaltata.
Non mancò anche quell’anno la puntatina ai Serai a Sottoguda. Tutte le volte che il nonno ci portava ad ammirare quello strettissimo canyon scavato nella roccia si compiaceva a tal punto che sembrava che l’artefice di sì tanta bellezza fosse lui! E io e mio fratello ci divertivamo ad anticipare le lodi del nonno perché ormai le conoscevamo a memoria. Ma quell’anno escursioni vere e proprie non ne facemmo per un insieme di motivi.
Il nonno naturalmente cominciava a sentire il peso degli anni e gli pesava quella sordità che avanzava a grandi passi, inoltre si rendeva conto che sia io che mio fratello stavano crescendo e quello che fino all’estate prima ci aveva entusiasmato ora non ci bastava più.
Fu dopo poco più di una settimana che mio fratello si ammalò. Aveva pensato bene di farsi venire la varicella! Così mamma e papà lo vennero a prendere ed io rimasi coi nonni per non dispiacergli. Ma non mi costò un grosso sacrificio poiché mi ero resa conto di come quell’estate mi affascinassero gli sguardi azzurrini di molti giovani di quella vallata. Sguardi di un azzurro intenso e freddo da ghiacciaio d’alta montagna.
Il nonno capiva che senza mio fratello, solo con lui e la nonna (che spesso disertava), le passeggiate sarebbero per me state più monotone e che io quell’estate più delle passeggiate tra i boschi in loro compagnia ero attratta da nuove amicizie, così spesso trascorreva i suoi pomeriggi sulla terrazza dell’ex albergo a pescare o ad osservarmi con il binocolo quando mi concedeva un giro in barca sul lago con qualche amico occasionale.

Io e mio fratello abbiamo sempre abitato in città e nonostante i nostri genitori conducessero un’attività commerciale che li impegnasse molto, noi trascorrevamo pochissimo tempo con i nonni e ben presto ci abituammo a trascorrere diverse ore in casa o in cortile senza la presenza di un adulto. Quindi dei famosi racconti che i nonni di solito snocciolano ai nipoti ne ho sentiti sempre ben pochi. L’unica occasione per stare con loro ed ascoltare i loro aneddoti erano appunto quei mesi estivi in montagna.
Ma quell’estate il nonno mi sembrava più taciturno, o forse ero io che non prestavo attenzione a ciò che raccontava anche perché erano cose che avevo già ascoltato diverse volte.
Comunque anche quell’anno le giornate trascorrevano tranquille nonostante sentissi crescermi dentro quel po’ d’irrequietezza tipico dell’età, e quasi tutte si concludevano nello stesso identico modo: io e il nonno aspettando ora di cena ci sedevamo sulla panca verde che poggiava al muro dell’albergo.
Gli odori e i rumori che uscivano dalla grande cucina riempivano l’aria.
Rumori di piatti, di tegami, di posate, di scrosci d’acqua, voci di donne…e odori di cibi antichi e nuovi, mischiati ed elaborati nel tempo. Ricordi, sapori, odori legati a quel luogo e quei periodi di vacanza. Ricordo che mai avevo prestato attenzione a percepire gli odori come in quel paese di montagna. Potevo distinguere con chiarezza gli odori emanati dalle botteghe. C’era il fornaio, il salumiere, il droghiere, il falegname, il barbiere dove andava il nonno. Anche il negozietto di ferramente aveva un odore caratteristico! Ma questo perché in città gli oggetti sia alimentari sia non, erano già racchiusi ermeticamente dalla “plastica” e non era più possibile neppure distinguere l’odore di una casa da una scuola o da un supermercato!
Per fortuna che qualche odore impresso nella memoria ancora lo percepisco: l’odore di humus che emana un bosco oppure il profumo speciale che sprigionano un prato o un campo di terra subito dopo un acquazzone!
E cullati da odori e rumori familiari ci facevamo avvolgere dalla luce che si stava affievolendo sempre più e stava assumendo i colori tipici di una giornata di sole giunta al termine. Guardavamo il tramonto del sole che andava morire sulla maestosa parete nord-ovest del Civetta.
Non mi spiegavo perché fosse stato dato il nome Civetta a quel monte simbolo alto più di 3000 metri: da qualsiasi angolazione lo guardassi non ci vedevo nulla che potesse assomigliare ad una civetta!
E ricordo che il nonno quell’estate mi disse: ”Ma sarà come una bella donna che sa di esserlo e fa la civetta e incanta la sua preda... cumpagna tì!”.
Era uno spettacolo ammirarare quella cime rese rossastre dal calare del sole. E restavamo lì a parlare fino a quando una luce liquida, desertica, similmente tibetana avvolgeva tutto accendendo un paesaggio quasi arcano.
Ma il nonno sembrava non sapesse più di cosa parlare con me.
Lui, soggetto attivo di una cultura patriarcale, che aveva avuto due figlie femmine e una moglie vissute da casalinghe, vissute da esiliate come da copione in una cultura maschile, ora ritrovava una nipote che probabilmente lo disorientava. Non ero ancora arrivata a Marcuse, ma stavo maturando quel cambiamento naturale che era difficile non vedere. E lui non riusciva con me ad essere come il suo ruolo d’uomo, maschio, patriarca gli aveva dettato con tutte le altre donne della famiglia.
La vecchiaia? Il grado di parentela che impone più tolleranza? La spudoratezza con cui gli chiedevo di uscire con un ragazzo? Non so, forse questo ed altro. E tra noi erano ormai più i silenzi anche se con gli occhi, con gli sguardi sapevamo che uno capiva l’altra.
Poi il nonno era solito recarsi in cucina per dare gli ultimi tocchi, come un vecchio chef a riposo che però ama lasciar credere che è ancora lui a sovrintendere i lavori e che senza la sua supervisione non si può andare in tavola.
E io rimanevo ancora lì, a guardare i lunghi, lunghissimi cieli provando a fare silenzio dentro alla testa e invece pensavo a tutta quella gente che, come me, sognava nella loro immensità. E mi veniva automatico pensare “stanotte ci saranno le stelle? E Dio magari è l’Orsa Maggiore”.
Sì, era proprio un’estate che si era prospettata diversa fin dall’inizio. Vuoi per la malavoglia con cui ero andata ad Alleghe, ma subito sparita quando mi resi conto che i ragazzotti del paese o quelli lì in vacanza mi guardavano con occhi diversi, vuoi per il diverso atteggiamento del nonno o vuoi perché arrivò la cosa giusta al momento giusto: la signora Gemma.
La signora Gemma abitava di fianco all’albergo Polo Nord.
La sua casa sotto il sole sapeva di gerani. Ne aveva delle pentole alle finestre, e davanti al piccolo spiazzo sopra la strada, l’immancabile rastrello appoggiato all’uscio, mentre all’altro lato cresceva un alberello di vite che ne incorniciava due lati, poi c’era la pianta di rosmarino sull’angolo della casa e il grosso ceppo, tra la casa e l’orto, da dove arrivava lo schianto della roncola contro il legno. Gemma gestiva un chiosco di bibite e gelati sulla riva del lago, proprio poco sotto casa sua, inoltre affittava le barche per gite.
Fu un dopopranzo ad Alleghe, nel brusio delle mosche, che Gemma ed io facemmo conoscenza.
Cominciò a raccontarmi di tutti gli eventi catastrofici che nel passato avevano colpito il suo paese.
Ero a conoscenza di come si era formato quel lago tanto bello che le dava da lavorare. Il nonno mi aveva raccontato anche una delle tante leggende che i paesani vi avevano costruito sopra.
Forse Gemma si accorse che ciò che mi raccontava non mi stupiva più di tanto, anche se ricordo l’enfasi con cui mi parlava, inoltre le avevo sottolineato che sapevo bene cosa si intende per leggenda! Fu così che buttò lì una frase che colpì immediatamente la mia attenzione e stimolò una curiosità che sarebbe diventata giorno dopo giorno sempre più morbosa, accompagnando tutti i pomeriggi di quell’ultima vacanza ad Alleghe.
Ma lì dentro, dentro a quelle gelide acque non ci sono solo i morti della frana…ce n’è qualcuno ben più recente… buttato apposta!
E come il nonno attaccava con cura l’esca più appetibile all’amo e la rimirava compiacendosene, Gemma aveva pronunciato quella frase ed io, come un pesciolino, pendevo da quella lenza.
E fu così che Gemma cominciò a raccontarmi come nel maggio del ’33 fu scoperto, nella stanza numero 6 dell’Albergo Centrale di Alleghe, il cadavere di Emma.
Mi rivedo: gli occhi sgranati ad ascoltare col mento poggiato alla ringhiera della terrazza.
Ho sempre nutrito interesse per i racconti gialli o noir fin dai tempi di... Carosello!
Gli sketch pubblicitari che preferivo erano quelli dell’ispettore Rock, quello della famosa brillantina Linetti!
Poi crescendo ero diventata assidua spettatrice dei telefilm di Maigret e mi ero avvicinata anche alle prime letture del filone, iniziando naturalmente da un’autrice donna: Agatha Christie.
Ma per fortuna ancora non conoscevo Stephen King ed in particolare il suo Shining! Non credo mi sarebbe piaciuto ripensare ai racconti di Gemma durante le notti in quel fatiscente albergo Polo Nord! Salire le scale scricchiolanti di vecchio legno che conducevano alla mia stanza osservando le vecchie riproduzioni e fotografie, ingiallite dal tempo, di quello che era stato l’albergo, di qualche canuto alpinista e magari ex avventore del luogo, lì appese alla carta da parati di cui non se ne riconosceva più il motivo ornamentale!
Già mi inquietava abbastanza la vicinanza così ravvicinata delle acque del lago! Sì, perché in quelle acque probabilmente giacevano cadaveri… come per esempio il corpo di Umberto, presunto figlio illegittimo di Elvira in Da Tos, la proprietaria dell’albergo Centrale. Ucciso nella cantina… e il presunto omicidio scoperto dalla cameriera, motivo dell’uccisione di quest’ultima dai Da Tos.
Ma il cadavere di Umberto non venne mai più ritrovato e Gemma era convinta giacesse là, in fondo al lago.
In quanto ad Emma si sospettava un suicidio, ma Gemma sapeva che le perle ritrovate tra gli interstizi delle scale del Centrale appartenevano alla cameriera e allora mi chiedeva ”perché mai una che si vuole suicidare si strappa la collana per le scale?”.
Gemma parlava a voce bassa e la voce usciva storta sulla ringhiera. E alla sera io ripercorrevo con la mente ogni sua parola. Me ne stavo supina nel grande letto a pensare ed immaginare come potevano essersi svolti i fatti realmente.
La giovane cameriera Emma, uccisa perché aveva visto ciò che non doveva, o per gelosia da Adelina Da Tos?
E l’omicidio di Carolina, moglie del Da Tos, uccisa anche lei da quest’ultimo con l’aiuto della sorella e di un certo Pietro. Naturalmente tutto per assicurarsi l’impunità del precedente delitto! Poi, dopo tredici anni scompare anche Carolina e altri due coniugi sono eliminati perché sapevano troppo.
E io stavo lì, con i pochi indizi datomi da Gemma, le sue ipotesi, le dicerie e le informazioni non del tutto reali ai fatti, a far ipotesi, congetture, a far scorrere nella mente come su di una pellicola le scene di questa catena di sparizioni e omicidi misteriosi nell’albergo della morte.
Mia complice la luna, che molte sere rischiarava il paesaggio ricoprendolo di una sottile pellicola bianco argento per poi infiltrarsi tra gli scuri semiaperti della mia finestra e colpire di luce accecante il catino bianco smaltato, riflettendosi sulle pareti e rendendo paesaggio e stanza un tutto surreale.
Oppure le notti in cui la luna non la faceva da padrona, trovavo il coraggio di sgattaiolare giù dal letto, andare alla finestra ad osservare quel mare di stelle che tentava di riflettersi nelle acque scure del lago; tante quante le voci dei rospi e dei grilli, e quelle stelle e quel lago mi facevano paura. così che al primo rintocco del campanile me ne riscappavo sotto le coperte. Pensando che forse era stato il campanile sommerso dalla frana che aveva formato il lago a battere il tempo. Ma nonostante le mie notti divenissero sempre più agitate, aspettavo con impazienza il momento in cui Gemma avrebbe ripreso la sua narrazione. E immancabilmente ogni dopopranzo, quando i più approfittavano per una pennichella, Gemma ed io discutevamo di questo clan familiare omicida e degli efferati delitti tra l’albergo Centrale e le rive del lago.
Quando Gemma mi vedeva particolarmente turbata mi rassicurava dicendomi che già da qualche anno gli assassini erano stati assicurati alla giustizia, ma poi aggiungeva che non tutti i paesani erano convinti della loro colpevolezza. Quindi potevano essere ancora senza colpevoli quella lunga serie di morti misteriose, e magari i veri colpevoli vagare ancora per Alleghe o che degli innocenti stavano in prigione! E poi ne approfittava per parlare d’altro, di ragazzi per esempio.  Sapeva bene che era un altro argomento che mi interessava, e lei, come un’amica più grande mi raccontava aneddoti o più spesso mi ascoltava ed ecco i ruoli che si invertivano. I misteri di Alleghe sono stati un caso storico che si è risolto dopo trenta anni per la bravura, così sembra, di un carabiniere che come quelli dei gialli, studia e ci mette anni ma ne viene a capo.
Ma ad Alleghe, come Gemma, erano in molti ad essere convinti che Adelina Da Tos non avesse ucciso Emma e che Carolina potesse essersi suicidata. Inoltre il cadavere di Umberto, ucciso perché era venuto a riscattare la sua parte di eredità, stava veramente in fondo al lago, come sosteneva qualcuno, o non era stato ucciso, tanto che qualcuno asseriva fosse invecchiato nel veneziano?
Ma tutto questo, certo e non certo, rendeva ancora più misteriosi ai miei occhi quei fatti di sangue e mi appassionavo sempre più a questo andirivieni di omicidi e complici nello spazio chiuso dell’Albergo Centrale, l’incrociarsi dei sospetti, degli sguardi, delle allusioni; la sottomissione forse di qualcuno al padrone, il consumarsi inerte del tempo, la complicità del paese, non ignaro ma incapace di opporsi all’autorità sociale dei più ricchi e forse l’indifferenza asciutta verso la vita altrui.
Seppi in seguito che questi fatti avevano ispirato romanzieri, giornalisti e registi.
Io avevo già la mia versione appresa né da stampati né da altri mass media ma da una voce narrante che raccontava solo per me. Capii anche col passare degli anni perché tutta quella vicenda mi appassionava tanto. Non era solo l’alone di mistero, i delitti…ma l’intreccio di passioni, di tradimenti e amori che sgorgava da quei fatti. Era come poter conversare con un adulto di cose a me allora proibite. Gemma non mancava ad un appuntamento. Pazientemente lasciava anche i lavori domestici o nell’orto appena sentiva che la chiamavo e mi dedicava quell’oretta o più nella attesa di aprire la sua piccola attività sul lago. Gemma non era più tanto giovane, ma non certo anziana come mio nonno! Al contrario di mia nonna e alcune zie, lei lavorava, era indipendente e capace di prendere decisioni, e per questo l’ammiravo. Incarnava per me la donna determinata, la “donna roccia”.
Viveva da sola e non ho mai notato nessuno andarle a far visita ma direi che non c’era in lei inconsistenza di rapporti umani, quella che fa sentire il vecchio più solo ed isolato come accade nei grandi formicai che sono le città. Lei aveva la sua Alleghe che la proteggeva, dove tutti si conoscevano e si salutavano e in ogni occasione scambiavano quattro chiacchiere. Poi, la solitudine e il silenzio delle cime che l’avvolgevano potevano darle un indizio sulla solitudine d’ogni singolo individuo di fronte alla propria sfida personale. Se poteva essere aspro vivere soli, simbolicamente anche le montagne potevano rappresentare l’asprezza della vita.
Solo a distanza d’anni, e non pochi, ho ripensato a quell’estate.
Non sono più tornata ad Alleghe se non di passaggio e non mi sono mai preoccupata di sapere cosa ne fosse stato di Gemma. Forse sarà l’età matura che mi ha riportato cosi prepotentemente alla mente quel ricordo. Un’estate diversa, un’amicizia fuggevole che mi ha fatto fantasticare notte dopo notte. Che ha tenuto impegnata quella mia testolina dove cominciavano ad affacciarsi già le inquietudini dell’adolescenza.
E adesso vorrei, tra sogno e realtà, rincontrare Gemma, ringraziarla per avermi regalato il privilegio della sua compagnia. Dirle come ha saputo rendere piacevole quella che era un’estate di passaggio per la mia vita, che con i suoi racconti e la sua capacità di ascoltarmi, ha reso indimenticabile quell’estate, che adoravo ascoltarla e che ancora la riascolterei. E magari mi farei insegnare a stare da sola, così non dovrò mai rincorrere la mediocrità, per riempire vuoti, né pietire uno sguardo o un’ora d’amore.

Rita Vassalli

Ferrara, estate 2004