Ho visto cadere un capocordata
di Gabriele Villa
Ho visto cadere un capocordata, a cinquanta metri da me.
L’ho visto cadere sulla cengia inclinata e continuare la caduta, proiettato verso il basso, fino a scomparire dentro ad un camino le cui rocce me ne hanno precluso la vista.
Non so quindi come se la sia cavata, come si sia potuta concludere quella rovinosa caduta.
Sono fermo, impietrito, lì, attaccato alle rocce della via che sto scalando, con mille pensieri che mi girano nel cervello ed il cuore che ha istantaneamente accelerato i suoi battiti.
Le mani ora stringono gli appigli con maggior forza, non commisurata alle difficoltà della parete, certamente eccessiva: una reazione istintiva e inconscia.
La cosa migliore che posso fare è quella di stare calmo e sforzarmi di ragionare.
Personalmente, nulla posso fare per portare aiuto a quello sconosciuto; devo invece pensare ai miei secondi di cordata, dei quali ho la responsabilità. Sono allievi di un corso roccia ed io sono il loro istruttore.
Tutto è cominciato con alcune grida, tante volte sentite in montagna: “sassi ... sassi”.
Lo ha gridato dapprima una voce concitata, e subito si sono sentiti i rumori sordi dei sassi rimbalzare sulle pareti.
“Sassi ... sassi”, hanno ripetuto altre voci allarmate, provenienti dal basso.
Nonostante sia impegnato nell’arrampicata mi giro istintivamente nella direzione dalla quale provengono le grida, anche perchè là sotto ci sono le altre cordate del nostro gruppo. Una cinquantina di metri a sinistra vedo cadere sassi sulla cengia inclinata e rimbalzare per proseguire la loro corsa verso il basso.
Improvvisamente, dallo spigolo vedo uscire una sagoma scura in veloce caduta verso la cengia.
E’ una visione inaspettata, rapida e fugace, ma capisco subito che non è un sasso, bensì una persona che cade sulla cengia inclinata con un rumore sordo e, in parte, metallico, causato dal materiale appeso all’imbragatura che impatta a terra nel momento in cui le gambe si piegano ad assorbire l’energia di caduta; quella stessa energia che proietta la sagoma scura verso il basso.
La vedo sparire poco sotto, dove si apre un largo camino sotto la cengia.
Ho visto cadere un capocordata, ma non ho la possibilità di fare altro che prenderne atto.
Sto a mia volta arrampicando, devo completare il tiro di corda ed ho due persone legate alle mie corde. La mano corre veloce alla mazzetta dei friends, il più grosso dei quali finisce in una sana fessura proprio lì, davanti ai miei occhi. Dopo avere rinviato la corda nel moschettone, mi sento un pò più tranquillo, ma quella sagoma scura che cade sulla cengia mi ripassa davanti agli occhi.
Non so chi sia, ma sono certo che non se la sta passando bene, perchè la caduta non è stata di poco conto e dentro il camino può avere impattato in maniera traumatica, se non irreparabile.
Guardo giù verso i miei secondi di cordata e chiedo loro se posso proseguire o se è meglio che scenda. Sono relativamente tranquilli e mi dicono di non avere problemi; per quel che ne so potrebbero anche non avere visto nulla. Riprendo a salire impiegando la massima concentrazione.
“Abbiamo visto cadere un capocordata”. Sento la voce del secondo della cordata che ci precede sulla nostra stessa via; è sopra di me una decina di metri ed ha allertato il Soccorso Alpino.
Lo sento distintamente scandire il nome della cima sulla quale ci troviamo e quello della via sulla quale è avvenuto l’incidente. Poco dopo lo sento ripetere una serie di numeri; non possono essere che quelli del cellulare dal quale ha chiamato, evidentemente di proprietà del suo primo, che è una donna. Sento, infatti, una voce femminile che glieli detta dalla sosta. Poco dopo torna il silenzio sulla parete.
Proseguo nell’arrampicare per guadagnare il terrazzino di sosta; per fortuna la roccia è solida e le mie mani continuano a stringere gli appigli con una forza assai superiore al necessario.
Arrivato al terrazzino della sosta cerco i chiodi, ma non li vedo.
Capisco di essere ancora agitato. Troppo.
Penso che vorrei essere a casa, seduto sul divano davanti al televisore a guardare un qualsiasi stupido programma, senza dovere pensare a nulla, ma sono qui in parete; devo reagire.
Mi impongo di ritrovare la calma necessaria e finalmente vedo i due chiodi e li posso “triangolare”, mettendomi in sicura. Do una voce ai compagni che mi confermano che se la sentono di proseguire.
Poco dopo che Patrizia si è messa in movimento, percorrendo i primi metri del tiro, sento un rumore aumentare progressivamente e vedo la sagoma colorata dell’elicottero stagliarsi sopra il verde delle abetaie della Val Zoldana.
Ben presto l’elicottero arriva nella nostra direzione, il muso puntato dritto verso la parete. La mia felpa è gialla, penso che dovrei essere ben visibile per cui mi sembra corretto fare dei segnali al pilota.
Non alzo le braccia, ovviamente, perchè non sono io a chiedere soccorso, ma faccio cenno con il braccio destro per indicare il punto dove è avvenuto l’incidente.
Probabilmente lì qualcuno avrà alzato le braccia nel modo convenzionale e si sarà reso visibile.
Poco prima ho sentito anche battere dei chiodi, segno che qualcuno ha rinforzato il punto di sosta.
Sono fermo con le corde in mano e guardo l’elicottero avvicinarsi alla parete; le pale quasi rasentano le rocce e il soccorritore si affaccia al portellone laterale, già appeso al verricello.
Ho sentito descrivere più volte l’abilità degli elicotteristi del Soccorso Alpino, ma quelle pale ad un metro dalla roccia mi danno una certa ansia, perchè se dovesse spostarsi in avanti di quel solo metro e impattasse, sarebbe un strage.
La mia compagna intanto si è bloccata, la corda è tesa e i miei sforzi di tirarla, inutili.
Cinquanta metri più in là, il soccorritore viene calato alla sosta dove sono i compagni del capocordata caduto che, presumo, sarà lì nei pressi.
Appena si sgancia, l’elicottero si allontana per andarsi a posare sui prati del Passo Duran.
Ritorna il silenzio sulla parete, non si sentono lamenti di persone ferite.
Lo reputo un buon segno, ma potrebbe anche essere pessimo.
Sono, infatti, convinto che le cose possono essere evolute in modo positivo con conseguenze contenute, ovvero in maniera drammatica, ma mi pare più probabile la prima ipotesi.
Approfitto del ritrovato silenzio per dare una voce a Patrizia e sollecitarla a raggiungermi alla sosta.
Sale con comprensibile lentezza e, non appena fa un innalzamento, mi lancia un “recupera” senza nemmeno darmi il tempo di tirare la corda. Le cordate sotto, intanto, hanno già iniziato a scendere proprio per mettersi al riparo da eventuali sassi smossi dalle pale dell’elicottero che, nel frattempo torna ad avvicinarsi.
Questa volta a scendere è il medico e, appena calato, di nuovo l’elicottero si allontana per tornare a posarsi giù al Passo, in attesa di essere richiamato.
Appena ritorna sufficiente silenzio sollecito Patrizia a darsi una mossa e salire veloce e nel contempo do il via a Marco, il terzo della cordata.
Quando finalmente arrivano alla sosta li assicuro con il massimo dell’attenzione.
Sono un pò agitati, ma mi confermano che se la sentono di proseguire.
La voglia di scendere e lasciare perdere tutto ci sarebbe, ma al punto in cui siamo arrivati è più saggio proseguire perchè è meglio fare cento metri in salita piuttosto che duecento in discesa a “doppie” con il rischio di tirarsi qualche sasso in testa al momento del recupero delle corde. Pure la cordata di Francesco, l’altro capocordata che ci segue sulla stessa via, se la sente di proseguire e concorda con la decisione.
Mentre facciamo questi ragionamenti l’elicottero ritorna e vediamo calare un altro soccorritore con un sacco-barella e poi, quando si allontana, lo vediamo portare due persone appese al verricello. Deduco che uno sia il medico in quanto ha ancora nelle mani i guanti di lattice che, verosimilmente, ha usato per le prime medicazioni sul posto.
“Questo che portano via è certamente il secondo di cordata – dico ai ragazzi in sosta – quello che non ha ferite o sospette lesioni, altrimenti non lo avrebbero agganciato in quel modo”.
Ho notato che non ha il casco e penso che forse se lo è attaccato all’imbragatura, anche se la cosa appare un pò strana. Riparto per il tiro di corda successivo.
La parete è ancora verticale e le difficoltà di quarto grado; dopo alcuni metri trovo un chiodo e ne sono contento, anche se la roccia è ben articolata e non è difficile reperire qualche buona clessidra, nè posizionare dadi e friends.
Cerco di fare presto per essere alla sosta al momento del ritorno dell’elicottero.
Dopo avere percorso quaranta metri trovo un cordone di sosta su di una robusta clessidra, sulla quale mi assicuro iniziando a recuperare i ragazzi.
Sulla prima cengia, quella in basso sopra lo zoccolo basale è un notevole brulicare di persone e un incrociarsi di voci; chiedo ripetutamente se qualcuno dei nostri si sia fatto male, colpito dai sassi caduti, ma non riesco ad avere risposte precise. E’ evidente che da sotto non sono riusciti a vedere cosa sia successo esattamente perchè qualche strapiombo della parete ha impedito loro la visuale.
Ho la precisa sensazione che non abbiano percepito la gravità dell’accaduto.
In quanto a me, non mi ha ancora sfiorato il dubbio che a cadere sia stato uno dei nostri, convinto che sia una cordata “estranea”, partita prima, così come quella che ci precedeva sulla nostra via.
I ragazzi arrivano abbastanza velocemente: un pò tutti abbiamo ritrovato nei gesti dell’arrampicata una sorta di distrazione dall’ansia indotta dalla caduta e dai successivi momenti del soccorso in parete. Riusciamo a vedere i caschi dei soccorsi e dei soccorritori al punto di sosta, ora a circa cento metri da dove ci troviamo e, per quel che se ne può capire, regna una certa calma, la qual cosa mi fa ritenere che nulla di irreparabile sia successo.
Motivo in più per stare tranquilli.
Giù al Passo Duran, intanto, le pale dell’elicottero si sono rimesse in movimento; tra poco sarà a cento metri da noi in linea d’aria, meglio attendere il completamento dell’operazione di soccorso.
Lo vediamo arrivare con il cavo del verricello a penzoloni, già allungato in modo da poter giungere a tiro dell’operatore, giù sul terrazzino; un braccio si protende e la mano, dopo un paio di “allunghi” non riusciti, riesce ad afferrarlo. L’elicottero, sopra di loro, è fermo immobile tanto da sembrare appoggiato ad una invisibile piattaforma. Quando, poco dopo, si allontana rapidamente porta con sè un grappolo umano: un tecnico soccorritore, il sacco-barella con l’infortunato e un terzo alpinista, forse ferito in modo lieve. Bastano pochi secondi e la montagna ritorna silenziosa.
Sulla cengia sopra lo zoccolo basale, gli alpinisti rimasti al riparo nel timore della caduta di sassi, si rimettono in movimento per scendere e poter rientrare al Passo Duran.
Io proseguo per quello che sarà l’ultimo tiro con passaggi di quarto grado, poi seguirà un bonario caminetto di secondo e terzo grado che ci porterà proprio al sommo della Torre Jolanda.
I miei secondi arrivano rapidamente e mentre attendiamo l’arrivo di Francesco, do un’occhiata intorno per individuare il percorso della discesa. Quando arriva a sua volta non possiamo fare a meno di scambiare qualche impressione sulla caduta alla quale lui pure mi dice di avere assistito. Afferma anche di avere riconosciuto nel primo portato via dall’elicottero, Marco, uno dei capicordata del nostro gruppo.
Dunque mi ero sbagliato, ma non avevo ritenuto possibile che dopo quella caduta il capocordata potesse essere portato via senza barella. Questo spiega anche il fatto che fosse senza il casco, evidentemente perso o rotto durante la caduta. Sono colpito e sollevato al tempo stesso da questa notizia: colpito nel sapere che è volato uno dei nostri, con tutto quel che ne consegue; sollevato perchè se lo hanno portato via appeso al verricello significa che non ha lesioni importanti, nè fratture di rilievo e, valutata la caduta che ha fatto, la cosa ha del miracoloso.
A questo punto non ci spieghiamo il trasporto del “barellato”: l’unica risposta che riusciamo a darci è che sia uno dei secondi colpito dai sassi in caduta.
Per il momento, ci consola sapere che sono tutti in buone mani, certamente già in ospedale.
Iniziamo la nostra discesa con tutte le cautele del caso, facendo gruppo unico.
Prima settanta metri in cordata su di una cengetta inclinata e friabile che collega la Torre con il corpo della montagna, poi in discesa su di un ripido ghiaione che ci fa perdere rapidamente quota, infine tra i blocchi di un tormentato canalone.
Se fossimo sereni sarebbe anche divertente, perchè l’ambiente è suggestivo e selvaggio.
Su di un salto ripido butto una corda doppia e controllo che tutti scendano facendo le manovre corrette. Dopo ci tocca risalire un ripido pendio di ghiaie e detriti che ci porta alla forcella di Torre Jolanda, duecento metri sopra al punto nel quale abbiamo attaccato la nostra via di salita.
Finalmente posso recuperare il cellulare per chiamare Michele giù al Passo Duran ed avere notizie certe, che confermano quello che avevamo visto e, in gran parte, intuito.
E’ Alex il trasportato in barella, Alberto, il terzo della cordata, l’altro trasportato con l’elicottero e Marco il capocordata volato. Ora, quasi tutti i ragazzi del nostro gruppo sono andati all’ospedale di Belluno, mentre qualcuno ci aspetterà al Passo con le due auto necessarie per rientrare a casa.
Michele ci invita a scendere con prudenza, cosa che facciamo, arrivando quasi all’imbrunire.
Con l’ultima luce del giorno dividiamo il materiale e buttiamo tutto nei bagagliai per partire subito.
Non abbiamo mangiato a pranzo, oggi, nè abbiamo voglia di mangiare a cena, solo il desiderio di arrivare a casa.
Durante il viaggio di ritorno ci giunge una telefonata con notizie rassicuranti dall’ospedale di Belluno: Alex, il “barellato” è stato dimesso perchè non gli hanno riscontrato lesioni, ma solo contusioni e le condizioni di Marco sono soddisfacenti; sarà trattenuto in osservazione a scopo precauzionale.
A noi che abbiamo assistito al volo, sembra impossibile che le cose siano potute andare così “bene”.
Mentre ci scambiamo le impressioni sulla giornata trascorsa, l’auto corre veloce verso la pianura.
Poco meno di un paio d’ore e saremo a casa, poi ognuno di noi cercherà di dormire e dimenticare questa lunga e difficile giornata.
Gabriele Villa
Passo Duran, 19 settembre 2004