La via degli antichi pascoli

di Gabriele Villa



Il ragazzo si svegliò all’improvviso e aprì gli occhi. Buio assoluto.
Li richiuse e li riaprì subito dopo, senza percepire alcuna differenza. Sempre buio.
Capì di non essere nel letto di casa sua, ma non gli sovvenne dove potesse trovarsi.
Soprattutto quel buio così fitto gli appariva strano, quasi inquietante.
Possibile che non si vedesse nemmeno una piccola luce fioca?
Si alzò a sedere, ma vi riuscì a fatica perché il letto non aveva la solita consistenza. Appena seduto, una folata d’aria fredda lo raggiunse sul viso.
Improvvisamente il buio fitto gli apparve “tagliato” da sottili strisce orizzontali di luce. Era da quelle che gli giungeva l’aria fredda sul volto. Un profumo intenso gli pervase le narici, era odore di fieno e fu quello, subitaneamente, a fargli ritornare tutto alla mente con precisione.
Si trovava in montagna, dentro ad un tabià, avvolto in una coperta, sprofondato nel fieno secco.
Ecco spiegato quel disorientamento iniziale, l’odore intenso del fieno e le strisce di luce a tagliare il buio: erano le fessure fra i tronchi che formavano le pareti del tabià dalle quali filtrava la luce esterna e s’intrufolava l’aria fredda della notte. Un ricordo lontano nel tempo, oltre quarant’anni.
Tanto è trascorso da quella notte, da quel risveglio improvviso.
Eppure quelle sensazioni sono rimaste vive, quasi “scolpite” nella mia mente e nei miei sensi, perché quell’adolescente ero io e questo è il ricordo forse più intenso di un periodo che mi è difficile definire felice, ma cui ripenso tuttavia con piacere.
Probabilmente era soltanto più aspro e disagevole rispetto al vivere odierno, ma tanto più semplice e naturale.

Iniziavano gli anni del boom economico, ma nei piccoli paesini di montagna quali erano Pecol e Piaia di San Tomaso Agordino, gli effetti si sarebbero avvertiti con anni di ritardo rispetto ai centri urbani della società che si andava industrializzando. Lassù si continuava a vivere come sempre si era vissuto.
Gli uomini, quasi tutti, si trasferivano per lunghi mesi all’estero a lavorare, prevalentemente nella vicina Svizzera, e le donne rimanevano nei paesi con i bambini ed i vecchi. Il sostentamento era garantito dai soldi inviati dall’estero, ma non si poteva ugualmente prescindere dal lavoro nei campi e dalla cura degli animali che ogni famiglia aveva nella stalla. Mucche, pecore e capre fornivano il latte che veniva conferito al casèlo, così era chiamato il caseificio, dal quale, lavorato, sarebbe poi ritornato sotto forma di formaggi, burro e pùine, cioè le ricotte.
Più fortunati erano quei paesi stanziati nelle valli ampie e prative perché lì gli animali potevano essere lasciati pascolare liberamente ed erano sufficienti una o due persone a badarvi, cosicché gli altri potevano dedicarsi all’artigianato e alle attività turistico alberghiere.
Ma nei paesi “arroccati” sui pendii delle montagne, com’erano Pecol e Piaia, sarebbe stato quantomeno azzardato condurre le mucche al pascolo perché questi non solo erano esigui, ma anche situati in luoghi impervi, raggiungibili soltanto attraverso strade sassose e sentieri disagevoli, se non pericolosi.
Tutto ciò esigeva una fatica supplementare, quella di andare a falciare l’erba di quei pascoli e trasportarla nei fienili del paese per alimentare gli animali nelle stalle, oltre ad un’organizzazione che coinvolgeva tutti gli abitanti del paese, con compiti e responsabilità diverse, nessuno escluso.
Così, ad esempio, gli adulti, adusi alla fatica e alle alzate in ore antelucane, dopo la mungitura dell’alba portavano loro stessi il latte appena munto con i contenitori in alluminio muniti di basto per il trasporto a schiena, compito che di sera invece era riservato ai più giovani. Avevo assolto anch’io molto spesso durante le estati quel compito faticoso (erano tre i chilometri da percorrere a piedi per arrivare a San Tomaso e altrettanti ovviamente per tornare), ma anche piacevole perché momento d’incontro con i ragazzi che arrivavano dai paesi vicini ed occasione per qualche innocente “scaramuccia “ amorosa con le ragazzine che condividevano l’incombenza.
Ma il momento più interessante ed anche affascinante di quell’organizzazione non codificata, ma perfetta, cadeva d’estate quando la gran parte degli abitanti di Pecol e Piaia imboccava quella che oggi potremmo definire “la via degli antichi pascoli”.
Altro non era se non la strada che, appena sopra il paese, entrava ripida nel bosco di faggi per inerpicarsi sulle pendici del monte Pìz e nella quale, più sopra, confluiva quella proveniente da Piaia. Le dimensioni della strada erano a larghezza di luoda, la caratteristica grande slitta di legno, da sempre unico mezzo di trasporto dei fasci di fieno e dei carichi di legna provenienti dall’alto della montagna.
La strada raggiungeva e attraversava un primo slargo erboso pianeggiante chiamato Piàn Pezzei che, tradotto in italiano, suonerebbe Pian dei pini ed, in effetti, si trovava ad un’altezza alla quale queste piante, più aduse alle quote, prendevano il posto dei faggi. Proseguiva poi verso le Còste de sora dove si trovavano altri prati molto ripidi, subito sopra ai quali prendeva un andamento quasi pianeggiante per arrivare a Cialàde, luogo da tutti conosciuto per la sorgente d’acqua che sgorgava direttamente dalla roccia, tanto da risultare piacevolmente fresca d’estate.
Da lì in avanti c’era soltanto un sentiero perché, dopo poco, si trovava la stretta gola dei Rùi dove non sarebbe stato possibile realizzare la strada per le luode, motivo per cui queste venivano “parcheggiate” e successivamente caricate con il materiale trasportato giù a spalla. Sopra ai Rùi il sentiero compiva un giro largo per evitare una fascia di rocce nere e friabili e finiva con lo sbucare in una conca prativa situata al di sopra del limite del bosco. In quel luogo da tutti chiamato indifferentemente Mont de sora o Ciàmp era stata costruita una serie di fienili con tronchi d’albero, i tabià appunto, al fianco di ognuno dei quali stava una costruzione più piccola, la casèra, nella quale venivano riposti i cibi e dentro cui si poteva accendere il fuoco.
Le donne preparavano nei ciaudrìn, le pentole sospese sulle fiamme, il mangiare costituito in prevalenza da polenta e minestre a base di latte, patate e riso.
Era, in pratica, un paese “fotocopia” abbandonato per lunghi mesi all’anno che ritornava ad animarsi e a vivere nel tempo della fienagione, perché ogni famiglia, o gruppo di famiglie apparentate, aveva la sua casèra ed il relativo tabià.
Quando veniva il tempo del taglio dell’erba dal paese partivano i primi per andare a fare la “base”, cioè quel metro di fieno indispensabile per ricavare le cùze, i posti letto che altro non erano se non dei giacigli formati da “un’impronta” ricavata nel fieno entro la quale si posava la coperta per stendervisi sopra e avvolgersi, coprendosi con il fieno rimosso in precedenza.
Solo dopo saliva dal paese quasi tutta la “forza lavoro” e giù al paese rimanevano solo i più anziani e le poche presenze indispensabili a garantire la cura delle mucche nelle stalle e la consegna regolare del latte munto. Ogni mattina Mont de sora si animava prestissimo poi, terminata la frugale colazione, ognuno partiva per raggiungere il suo prato da falciare ed ogni giorno il rito si ripeteva per arrivare a tagliare l’erba fin sulle pendici del Sasso Bianco, ben oltre i duemila metri di quota.
Era un lavoro capillare e meticoloso che non risparmiava nemmeno i pendii più ripidi e le gole erbose più nascoste e disagevoli: ogni filo d’erba che cresceva sulla montagna era tagliato, essiccato al sole e riposto nei tabià fino a che questi non fossero riempiti completamente.
Per gli adulti erano settimane di lavoro intenso, dall’alba fin quasi al tramonto, che soltanto un improvviso temporale estivo avrebbe potuto momentaneamente interrompere. Per i ragazzi, che poco pratici all’uso della falce venivano impiegati successivamente al taglio dell’erba per girarla con il rastrello in modo che si seccasse ben bene al sole, era in pratica una vacanza poiché era abbastanza facile eludere la sorveglianza e sottrarsi agli impegni per andare in giro.
Il passatempo preferito, il più divertente per i ragazzi ed il più redarguito da parte degli adulti, era scendere dai prati più ripidi con le sciàndole sotto al sedere.
Le sciàndole sono quelle piccole assicelle di legno una volta usate in grande quantità per realizzare le coperture dei tetti delle casère e dei tabià.
Non era quindi difficile trovarne una che fosse un poco incurvata in punta, lisciarne il fondo con qualche preciso colpo di pialla ed inchiodarvi sopra di traverso un’assicella sottile con la doppia funzione di appoggio per le mani e antiscivolo per il sedere.
Era un grande spasso lasciarsi scivolare sui ripidi prati appena falciati e fare a gara a chi arrivasse primo per poi, rapidamente, risalire e ricominciare. Soprattutto dopo un acquazzone il prato acquistava scivolosità rendendo la discesa più veloce e quindi ancora più divertente.
Purtroppo era un gioco destinato a non durare molto.
Non appena il primo adulto si fosse accorto di quanto stava accadendo, avrebbe subito impartito il comando perentorio a smettere perché non si poteva consentire che il gioco danneggiasse anche solo una piccola parte dei preziosi prati.
I ragazzi avevano imparato che era conveniente smettere ai primi richiami, ma si guardavano bene dal rientrare alle casère con le sciàndole perché altrimenti queste sarebbero state “sequestrate”, piuttosto le occultavano in qualche cespuglio, perché fossero pronte all’uso alla prima occasione favorevole.
Dopo svariati giorni di operoso e alacre lavoro i tabià cominciavano ad essere pieni ed occorreva pensare al trasporto del fieno a valle. Negli anni più recenti il faticoso e lento trasporto con le luode era stato sostituito da un moderno ritrovato, molto più rapido ed efficace: la teleferica.
Era costituita da un grosso cavo d’acciaio che, con un’unica campata di circa un chilometro ed uno sbalzo di seicento metri, collegava Crèpe, nelle immediate vicinanze di Ciàmp, con Còsta de sot, poco sopra l’abitato di Pecol.
A monte i fasci di fieno venivano agganciati, nel punto d’incrocio della corda che li teneva legati, con un uncino fissato ad una grossa carrucola di ferro successivamente posata sul cavo della teleferica e lasciata andare con il suo carico attaccato. Nella stazione a valle il cavo terminava su una robusta struttura costruita con grossi tronchi di abete contro la quale i fasci terminavano violentemente la loro corsa.
Era uno spettacolo vederli partire e scendere rapidi a velocità crescente e sentire le carrucole “fischiare” fino al momento dell’impatto contro la struttura di tronchi.
Subito dopo l’impatto gli uomini sganciavano la carrucola e rimuovevano il fascio di fieno dalla struttura. La prudenza aveva insegnato la buona abitudine di dare il via libera da valle al lancio successivo, cosicché l’incaricato colpiva tre volte la fune con un grosso bastone in modo che le vibrazioni si ripercuotessero fino a monte e potessero essere percepite “al tatto”: era il segnale di via libera.
Noi ragazzi seguivamo tutte le fasi in un’atmosfera di allegria e di crescente eccitazione, anche perché i lanci si susseguivano a decine.
C’era soltanto un piccolo particolare non troppo piacevole ed era quel mucchio di carrucole di ferro che si andava formando e che sarebbero state da riportare a Mont de sora per i lanci dei giorni successivi.
Era un’incombenza che toccava a noi, ma anche un’occasione per mettersi in mostra, quasi una specie di prova d’iniziazione, perché era un segno di considerazione avere il consenso da parte dei “grandi” di portare due carrucole e non solo una, come i più piccoli. Per esempio, a me che venivo dalla città e non ero “usà a far fadighe” ne veniva assegnata una, tuttavia, soprattutto dopo una mezz’oretta di faticosa salita, non me ne dispiacevo più di tanto.
Così, fino a che l’ultimo filo d’erba non fosse stato tagliato, essiccato e riposto, Mont de sora viveva la sua stagione operosa poi, lanciati a valle gli ultimi fasci di fieno e svuotati i tabià, tutti facevano ritorno alle case di Pecol e Piaia.
Sarebbero tornati l’estate successiva.
Ma tutto questo non poteva durare a lungo; la società industrializzata sarebbe arrivata anche qui a cambiare la vita e le abitudini delle persone, lentamente, senza quasi che se ne accorgessero, ma in modo inarrestabile e irreversibile.
La strada che portava al paese finì con l’essere allargata anche sacrificando il caratteristico ponticello di legno con il tetto di copertura che impediva l’accesso ai camioncini e allo spartineve. Arrivarono le prime auto e qualcuno degli abitanti cominciò ad uscire dal paese per andare a trovare lavoro nelle fabbriche e nelle attività turistico alberghiere insediate nel fondo valle.
Così quando, qualche anno dopo, un fulmine si scaricò sul cavo della teleferica tranciandolo, pochissimi sentirono la necessità di ripristinarlo. Chi aveva ancora mucche nella stalla si accontentò di falciare l’erba nei prati più in basso ed iniziò l’abbandono di Mont de sora.
Per lunghi anni i tabià furono lasciati al loro destino.
Qualcuno, in non buone condizioni, finì con il crollare, qualche altro fu danneggiato dalle intemperie e dagli agenti atmosferici, la maggior parte poté conservarsi.
Per fortuna, nonostante l’abbandono, un sottile filo rimase a legare quel gruppetto di fienili con le genti dei paesi di Pecol e Piaia, cosicché ogni tanto qualcuno si ricordava di andare lassù, magari con la scusa di “dare un’occhiata” o di fare un giro. Finchè i figli di quelli che avevano speso dure fatiche in tante estati di lavoro tornarono a riattare quei tabià che erano rimasti in piedi.
Decisero di tornare, a distanza di anni, quando si accorsero che la società industrializzata e la vita moderna, quella del lavoro in fabbrica e delle automobili, della televisione e delle discoteche, aveva cominciato a stressarli.
Così ripercorsero la via degli antichi pascoli, non più a piedi come i loro padri ed i loro nonni, ma con i trattorini a trazione integrale, trasportando il legname, gli attrezzi e quant’altro dovesse servire per la manutenzione dei tabià.
Ne sistemarono o ne rifecero i tetti, ne aggiustarono le porte, qualcuno lo adattarono a baita e ricominciarono a frequentare Mont de sora, non più per necessità ma per svago, al fine di trascorrervi dei periodi di vacanza rigeneratrice.
Cosicché oggi Mont de sora esiste ancora, muto testimone di un tempo e di un mondo passati, vivi soltanto nella mente di chi li ha visti e vissuti.

Gabriele Villa

Ferrara, 17 dicembre 2002

Pubblicato su Intraisass in giugno 2004