Storie di straordinaria valanga

di Gabriele Villa



L’istruttore è quasi accovacciato sugli sci, proprio davanti al gruppo che gli sta intorno, disposto a semicerchio, in modo che tutti i componenti possano vederlo e sentirlo.
E’ importante che nessuno perda nemmeno una parola di quello che dice, perché sta fornendo tutti gli elementi utili ed indispensabili ad effettuare l’esercitazione finale dello stage di autosoccorso in valanga cominciato tre giorni prima.
E’ stato uno stage “tostissimo”: in due giorni abbiamo fatto quindici ore di teoria nell’aula “Gino Soldà” al Passo di Campogrosso, e sette ore di pratica sul campo, inerenti le materie studiate.
Un’autentica “overdose” di informazioni tecniche, pratiche e mediche dovrebbe avere portato ogni componente del gruppo di allievi a “saper leggere” e capire una valanga e ad intervenire in soccorso dei travolti, oltre che a prestare le prime cure mediche in attesa dell’arrivo dei soccorsi organizzati.
Ognuno di noi è attrezzato con apparecchio Arva per la ricerca strumentale, sonda per la ricerca meccanica e pala da neve per disseppellire i travolti (in questo caso un paio di manichini); l’acquisizione delle conoscenze tecniche e operative sarà verificato, invece, proprio dalla riuscita o meno dell’esercitazione.
L’istruttore descrive la valanga che è stata simulata e preparata mentre noi eravamo impegnati a seguire l’ultima lezione teorica del mattino: presenta cinquanta metri di fronte per una lunghezza di oltre cento metri lungo il ripido pendio.
Sotto ci sono due sepolti con l’Arva, due senza l’Arva – ci viene comunicato - inoltre dovete trovare quattro oggetti disseminati, piccoli, ma tutti e quattro ben visibili; potrebbero dare informazioni sulla localizzazione dei travolti”.
Si percepisce nell’aria l’aumentare della tensione in tutti i diciotto componenti il nostro gruppo. L’istruttore fornisce gli ultimi consigli e risponde alle ultime domande al fine di chiarire i dubbi residui, concedendoci anche il piccolo vantaggio di informarci circa gli errori, anche grossolani, commessi dal gruppo precedente nella concitazione delle operazioni. Oramai ci siamo.
Non mi nascondo alla vista dell’istruttore, ma in cuor mio mi auguro di non essere indicato come coordinatore; non mi pare di avere ancora le idee sufficientemente chiare per svolgere quel ruolo così delicato.
Dopo un attimo di silenzio si sente la voce dell’istruttore.
Sei tu il coordinatore dei soccorsi e il cronometro è partito in questo momento”.
Indica un ragazzo munito di ciaspole, un po’ alla mia sinistra.
Si alza un brusio. Tutti sono rimasti palesemente sorpresi dalla rapidità di quella indicazione.
Del resto anche le valanghe quando iniziano a scivolare verso valle non danno alcun preavviso.
Sono passati dieci secondi e ancora non avete fatto nulla.
La voce dell’istruttore risuona calma, ma risoluta e perentoria.
Tutti guardano nella direzione del coordinatore il quale deve calarsi rapidamente nella parte affidatagli.
L’istruttore, intanto, incalza: “Sono passati quindici secondi e dovete ancora organizzare qualcosa; ci sono quattro persone sepolte sotto questa valanga e la loro sopravvivenza dipende da voi”.
Credo che a tutti gli altri, così come a me, venga alla mente il diagramma della curva di sopravvivenza. Le statistiche elaborate in dieci anni di soccorsi dicono che le probabilità di estrarre vivo un travolto da valanga sono del 90%, limitatamente ai primi quindici minuti dal seppellimento; al ventesimo minuto le probabilità sono già scese al 58% e al trentacinquesimo sono precipitate al 30%.
E’ palese l’imperativo di fare presto; più in fretta che sia possibile, il quanto in fretta sarà verificato dall’esito della nostra simulazione.
Finalmente partono i primi ordini.
Il coordinatore indica quattro persone per la ricerca vista-udito, quella che si compie percorrendo la valanga per avvistare oggetti o arti sporgenti in caso di seppellimento parziale; la scelta cade su quelle dotate di sci per sveltirne gli spostamenti sul fondo sconnesso della valanga e il rientro rapido al termine della ricerca.
Altri tre vengono adibiti alla ricerca strumentale che effettueranno risalendo la valanga per linee parallele, distanti venti metri uno dall’altro, con l’Arva in ricezione per captare i segnali emessi dagli strumenti dei travolti.
Quaranta secondi”, incalza ancora l’istruttore.
Il coordinatore delega uno di noi per organizzare i rimanenti soccorritori in una linea di sondaggio, secondo i criteri che ci sono stati spiegati il giorno precedente.
Mi trovo così in fila, spalla contro spalla, con gli altri sondatori sul margine sinistro della nostra valanga. Si vede che siamo dei dilettanti inesperti e, oltre ad essere assai lenti nel disporci, abbiamo un allineamento che lascia abbastanza a desiderare. Del resto c’è chi ha gli sci, chi ha le ciaspole, chi è alto e chi basso o, magari, anche un’idea approssimativa di quanto siano i sessanta centimetri che dovrebbero essere la regola nella distanza tra un sonda e l’altra e nella misura dell’avanzamento. Finalmente si comincia a sondare e la speranza è di avere la fortuna d’intercettare in fretta il sepolto; ma non sarà così.
Sono concentrato sulle operazioni da svolgere anche se, quasi ai margini della fila, non nutro speranze di essere io quello che troverà il manichino sepolto.
Lungo il corpo della valanga, intanto, è un andirivieni infervorato e uno scambio di informazioni urlate al coordinatore ad ogni avvistamento significativo. Ad un certo punto le urla diventano ancora più concitate e capiamo che uno dei ricercatori vista-udito non ha spento il suo Arva, interferendo così con la ricerca strumentale degli altri.
Sono un paio di minuti preziosi buttati al vento, poi il livello della concitazione ritorna ai valori precedenti. Le nostre sonde, intanto, continuano ad infilarsi nella neve e, seguendo la procedura di ricerca, stiamo risalendo lentamente la parte sinistra della valanga senza però avere trovato nulla.
Sono oramai trascorsi alcuni minuti (forse una decina?) e i primi ricercatori, ultimato il loro compito, sono rientrati dal coordinatore alla base della valanga.
I due Arva sepolti sono stati ritrovati e disseppelliti, così pure come sono stati individuati gli oggetti, lasciandoli sul posto in bella evidenza al fine di fornire indicazioni sui punti più probabili di seppellimento, le cosiddette “aree primarie di ricerca”. Ora ci sono persone sufficienti per organizzare una seconda linea di sondaggio, unico sistema per trovare chi sia sepolto sotto la neve senza l’Arva in trasmissione. A questo punto l’istruttore fornisce alla nostra linea di sondaggio un’informazione che non aveva dato all’inizio dell’esercitazione.
Ci fa notare una traccia di sci che, dall’altro lato, entra nella valanga.
Da là in giù – ci dice – c’è uno dei due travolti”.
Avendo completato la prima passata ci spostiamo dunque sull’altro lato della valanga e riposizioniamo la linea di sondaggio, ricominciando la procedura. L’altra linea, intanto, si dispone per una passata a fianco della zona sondata da noi ed opportunamente segnalata con i bastoncini da sci.
Non ho cognizione precisa di quanto tempo possa essere trascorso; relativamente poco in valore assoluto. Certamente tanto se penso al limite dei quindici minuti della curva di sopravvivenza.
Anche stavolta l’allineamento non è dei migliori e sarebbe spiacevole passare sopra al sepolto senza individuarlo; la ricerca a sessanta centimetri è catalogata già a “maglie larghe”, se poi si sbaglia nelle misure...
Esattamente ciò che è successo al gruppo che ci ha preceduto nell’esercitazione.
Avanti”. Il capolinea scandisce l’ordine non appena le sonde sono allineate e così si comincia a risalire questa porzione di valanga. Anche stavolta sono ai bordi della fila e ritengo di avere poche possibilità di essere io quello che “intercetterà” il sepolto.
Gli ordini si ripetono, l’allineamento è sempre irregolare e la traccia di sci che entra in valanga si avvicina.
Ancora un paio di avanzamenti e comincia a serpeggiare il dubbio...
Infine, siamo oramai alla traccia di sci.
E’ inutile che vi dica che ci siete passati sopra, vero?”.
L’istruttore lo dice in tono sconsolato: i suoi insegnamenti non hanno trovato allievi sufficientemente diligenti.
Il capofila dà l’ordine di invertire la direzione di sondaggio: i componenti la linea si girano, ognuno seguendo traiettorie diverse in base a ciò che hanno ai piedi, se gli sci oppure le ciaspole.
In breve la fila si ricompone, l’allineamento è raggiunto e le sonde sono nuovamente in posizione.
Avanti”. L’ordine riprende la sua cadenza ed iniziamo ad avanzare, questa volta verso il basso. Una ragazza con gli sci ha qualche difficoltà iniziale di scivolamento, poi la pendenza diminuisce leggermente e le cose vanno meglio.
Stavolta sono al centro della fila e la mia concentrazione è al massimo perché ritengo di avere probabilità maggiori di essere io a sondare il sepolto. Non che cambi molto ai fini della riuscita della nostra esercitazione, ma non mi dispiacerebbe essere io a fare questa esperienza.
Avanti”. Quando arriva il comando si deve posizionare la sonda in verticale davanti a sé, avanzare di un passo e infilarla nella neve tenendola con i polpastrelli di indice e medio contrapposti al pollice. In questo modo si ha la maggiore sensibilità perché è con quella che si riconosce l’impatto con il corpo del sepolto; si avverte un effetto “rimbalzo” molto caratteristico che occorre imparare a riconoscere alla perfezione.
Abbiamo fatto alcune prove in merito, nei due giorni precedenti, per cui non ho alcun dubbio quando sento la sonda rimbalzare fra le dita.
E’ qui sotto. Trovato”. Annuncio al mio capofila.
Rispettando la procedura, grido ad alta voce a chi coordina le ricerche ai piedi del corpo di valanga: “Coordinatore, trovato il sepolto”.
La fila intorno si disperde in un baleno e quasi tutti sono rivolti nella direzione della mia sonda, rimasta conficcata nella neve a segnalare il punto di ritrovamento. Mentre prendo la pala per scavare sento la voce dell’istruttore che, con grande enfasi, “rampogna” i miei colleghi di ricerca.
Avete disfatto la fila! E se lui si è sbagliato e sotto c’è il ramo di un mugo? La fila deve continuare il sondaggio perché non si deve perdere nemmeno un minuto fino a che non si ha la certezza del ritrovamento.
Intanto mi inginocchio e comincio a rimuovere la neve al di sotto della sonda.
Cerco di essere deciso ed efficace ed al tempo stesso misurato, proprio come se dovessi disseppellire una persona e corressi il rischio di ferirla con il tagliente della pala, anche perché questa è in alluminio e non di plastica.
Ci hanno insegnato che per disseppellire un travolto ad 1,3 metri di profondità occorre rimuovere quasi due metri cubi di neve se si ha la fortuna di scoprire il torace e si impiegano quattordici minuti a raggiungerlo.
Diventano quasi tre metri cubi se si localizza prima un punto periferico, come un polso o uno scarpone, e di minuti per raggiungerlo ne occorrono venti. Questa è un’esercitazione per cui si può presumere che il manichino sia stato messo a circa cinquanta/sessanta centimetri di profondità, per cui si farà più in fretta.
Scavo con lena fino a che non individuo un lembo di plastica che mi pare essere il bavero di una giacca a vento. Confermo ai colleghi il ritrovamento e mi aspetto che qualcuno venga a darmi il cambio a scavare o, almeno, mi affianchi.
Siccome ciò non succede continuo a scavare.
Con la coda dell’occhio ho visto che anche l’altra linea di sondaggio ha trovato il sepolto già prima di noi e mi pare sia proprio Beatrice che sta rimuovendo la massa di neve. Anche a lei nessuno va a dare il cambio.
Continuo il mio lavoro; mi aiuto anche con la mano e poi ancora con la pala.
Non è il manichino che compare, ma una borsa di plastica riempita con zavorra e, subito a fianco, se ne trova un’altra.
E’ il vostro sepolto. – conferma l’istruttore e poi annuncia – L’esercitazione è terminata. Sono trascorsi trentadue minuti da che avete cominciato.
Devo dire che quando si è impegnati si perde l’esatta cognizione dei minuti che trascorrono e comunque il “quanto tempo” è condizionato da quei quindici minuti dal travolgimento nei quali c’è il 90% di probabilità di estrarre vivo il sepolto. Le statistiche non tengono conto delle aspettative individuali, ma solo dei numeri.
I ricercatori hanno trovato i due Arva dopo quattro e otto minuti e ciò avrebbe corrisposto a due persone vive. Abbiamo trovato gli altri due dopo trentadue minuti, con una probabilità di vita del 50%, quindi, per la statistica, un vivo e un morto.
Considerazioni che hanno solo valore accademico, perché era soltanto un’esercitazione ed abbiamo “salvato” due borse di plastica e un manichino, ma anche perché la sopravvivenza è legata non solo al tempo di disseppellimento, ma a fatti incidentali fortunati che non sempre si realizzano, come il formarsi di una sacca d’aria che dia l’apporto di ossigeno necessario alla sopravvivenza del sepolto oltre i fatidici quindici minuti iniziali.
Al termine dell’esercitazione, nell’ultima riunione di fine corso il direttore ha voluto sottolineare come tutte le nozioni e le procedure imparate vengano applicate soltanto quando, a monte, si è sbagliato qualcosa nell’organizzare e nel condurre l’escursione.
Ha invitato tutti a non sentirsi più sicuri per avere imparato l’autosoccorso in valanga, ma ad impegnarsi per acquisire nozioni e comportamenti atti ad evitarne l’applicazione.
Parole sagge e mentalità corretta, perché non esiste la montagna assassina, esistono piuttosto alpinisti ignoranti, faciloni e imprudenti.

Gabriele Villa

Passo di Campogrosso, marzo 2004