Storie di ordinaria falesia
di Mauro Mazzetti
“Storia diversa per gente normale
storia comune per gente speciale...
non ci chiedere più come è andata
tanto lo sai che è una storia sbagliata”
(F. De André)
A me non piace andare in falesia. A me non piacciono i monotiri. Non mi piace neanche andare su e giù (più giù che su) da uno spit all’altro. E poi non mi piace l’aria che si respira alla base di certe vie, dove i “buoni” si fiutano con una narice sola e si guardano di sghimbescio. A me non piace questo ambiente, fondamentalmente perché non lo capisco e non mi ci applico a capirne i reconditi arcani.
Ogni tanto, però, come la purga che da piccolo ti somministravano al cambiare delle stagioni, mi avvicino con fare sconsolato alla falesia, per cercare vanamente di “rialzare il grado” in prospettiva alpinistica e montana.
Assieme a scatenati invasati che si prestano alle mie (s)manie, cerco un posto tranquillo, un po’ fuori mano, dove fare le mie brutte figure in santa pace.
Ma anche nel luogo deputato è difficile rimanere da soli: la placca scelta sembra più il bar di una piazza di paese il sabato pomeriggio che un santuario trasudante gestualità sacrale.
E, mentre faccio sicura ad uno degli scatenati invasati di cui sopra (“ti metto su la corda ed intanto mi scaldo” – seibì almeno n.d.r.), mi sforzo per mantenere il minimo necessario di concentrazione atto a non tirare giù il mio socio.
Intanto però giro intorno gli occhi e le orecchie, attratto dai discorsi che si sentono ai piedi della miniparete.
E’ come sull’autobus, quando sbirci il giornale aperto del viaggiatore vicino, e magari ti rammarichi che la tua velocità di lettura è diversa dalla sua, ed aspetti con impazienza che giri la pagina (“le notizie della borsa no! ti prego saltale!”); oppure come quando in treno la gente racconta i fatti suoi ad emeriti sconosciuti, cose che neanche al confessore ti sogneresti di dire.
Due orecchie, quindi due storie stereo. Due storie da falesia. O forse no.
- Sai, ieri sera ero proprio stanca. Da non credere. Sono uscita dall’ufficio alle due e dieci (ma che palle il capo, che mi ha tenuto di più) e ho fatto un salto a casa mia. Sai, da quando non vivo più con i miei, mi tocca anche fare la lavatrice! Ho preso la borsa della ginnastica e mi sono fiondata in palestra: due ore filate, aerobica e spinning a stecca. Ne sono venuta fuori di-strut-ta, sai, da non credere. Di-strut-ta. E corri di nuovo a casa, che la donna non aveva ancora finito di pulire, e sapessi quante pretese, vuole anche essere messa in regola! Almeno pulisse come si deve; e invece no, deve venire mia mamma, se voglio che la casa non sembri un porcile.
- E’ stata una faticaccia: è mai possibile che nel 2004 ci voglia così tanto tempo per l’autorizzazione della ASL?
E intanto mia mamma ne ha bisogno, mica può aspettare gli orari della mutua per avere il lettino con le sponde e le medicazioni a domicilio. Le piaghe da decubito non stanno ferme dal venerdì sera al lunedì mattina; se ne infischiano della burocrazia, delle carte e dei timbri. Lunedì vado per i pannoloni, e poi per la richiesta dell’accompagnamento.
- Sai, ci mancava anche questa: mi sono rotta un’unghia, e pensa che mi ero appena data lo smalto. Da non credere; da-non-credere. Sono tornata a casa ancora destabilizzata e ho fatto fatica a riprendermi. Fortunatamente ho incontrato l’Alice e abbiamo preso un aperitivo giù da Mario; tra una chiacchiera e l’altra, a momenti mi passava di mente l’appunta con il parrucchiere. Mi sta bene questo taglio, no? Forse avrei preferito il capello un po’ più lungo, ma mi sembra che mi stia bene anche così. Sai, mi è costato una cifra, ma ne valeva la pena. Ero indecente, veramente in-de-cen-te.
- La caviglia mi fa male, ma faccio finta di niente. Se mi fermo è un guaio; tiro avanti e stringo i denti. Quando potrò, andrò a farmi vedere. Intanto devo cercare un’altra persona che la assista. Il geriatra mi ha sconsigliato di togliere mia madre da casa sua: sarebbe un grave colpo per la sua stabilità psichica e peggiorerebbe il quadro clinico (mi ha detto proprio così). Le sue cose quotidiane, quelle che riesce ancora a riconoscere, sono una medicina migliore della dopamina e della levadopa.
- Hai visto i nuovi fuseaux fucsia? A me pare che mi stiano proprio bene. Fanno pendant con le scarpette e la bandana; forse dovrei cambiare lo zaino, ha gli inserti blu che non mi convincono. Vabbe’, mi accontento. A proposito: vieni anche tu a Courma per il week end?
- Ho finito le ferie e i permessi. Se ne fossi capace, mi darei malato. Disturbi extrapiramidali: una bella definizione, ma è solo una condanna. Vedo il Papa in televisione e guardo mia mamma nel suo letto. Perché a malattia uguale non corrispondono uguali comportamenti?
- Dài, faccio questo tiretto, quanto sarà, settebì massimo, e poi rientriamo. Intanto ti faccio vedere la jeep nuova, oddio, proprio nuova no, ma una “quattroruotemotrici” mi ci voleva proprio. Non sopporto di sporcarmi le mani a montare le catene, e poi la tavola ci sta meglio sopra, e vai sulla polvere.
- Occhio che vado. Fino lì mi sembra ammanigliato bene, poi metto una staffetta. Tanto il mio limite è questo: dal cinquepiù non mi schiodo, quindi è inutile perdere tempo. Poi andiamo, che passo da casa a vedere se c’è bisogno.
- Pronto? Pronto? Ma guarda che non c’è neanche una tacca. Come si fa? Sì, pronto. Quando? Stasera? O cappa, alle nove siamo da te per il barbecue; ciao ciao ciao ciao.
- Pronto? Sì, sono io. Come, è caduta dal letto? Sì, vengo subito. Intanto chiama l’ambulanza e poi fammi sapere. Sì, sì, arrivo subito.
Il mio socio è arrivato in catena. – Bella bellissima, niente forza e tutta aderenza. Vedrai che ti diverti, Mauro. -
Sì, mi divertirò. Ma dopo, al fatidico “calami pure”. Intanto ne ho abbastanza di miserie e di meschinerie, di ipodotati e di sfortunati, di dolore e di fatuità. Ne ho abbastanza.
Ne ho abbastanza.
Appena il mio compagno tocca terra, mi sciolgo l’otto, butto le scarpette nello zaino e mi siedo su una pietra con la testa fra le mani. C’è qualcosa che mi sfugge, in questa giornata; c’è qualcosa che mi passa sopra e dentro, che non riesco a capire. Mi entra nelle narici il profumo della macchia mediterranea, delle piante di origano e degli arbusti di mirto. Ecco un fossile inciso nella pietra: niente sembra più immobile di questa icona di animale preistorico sopravvissuto a se stesso. Mi guardo intorno. Le due chiappe color fucsia se ne sono andate incontro ad altre avventure; il figlio dolente si sta togliendo a strappi l’imbragatura per correre verso un nuovo problema; io comincio a camminare sul sentiero che mi porterà in cima all’altipiano, tra spazi aperti e lontano dal mondo canaglia.
Almeno fino a stasera.
Mauro Mazzetti
Genova, marzo 2004