Il martello? L’ultima volta ci ho rotto le noci!
di Gabriele Villa
Agosto 1985: sospeso sulle staffe, oramai a centoventi metri da terra, ho il vuoto che sembra mordere il fondo dei pantaloni. Stiamo aprendo una via nuova, qui sulla Quarta Torre dei Vani Alti, in Val Canali ed è toccato a me il superamento del grande strapiombo che abbiamo denominato “cuore di pietra”, perché sono l’artificialista della cordata. La cosa mi lusinga e mi dà stimolo perché la via sarà dedicata a Gian Carlo Milan, un caro amico scomparso in montagna che, soprattutto in questa tecnica così particolare, è stato mio maestro.
Purtroppo la fessura, all’inizio larga e ben chiodabile, va restringendosi e comincio a guardare con una certa apprensione il punto in cui diventa poco più di una screpolatura, quando mancano ancora alcuni metri al terrazzino che s’intuisce sopra. Sarebbe una beffa dover rinunciare proprio ora, ma, del resto, non avendo perforatore e chiodi a pressione, la parola “impossibile” per la nostra cordata ha un significato molto preciso e ben definito.
Alla fine, anche pensando ai libri di alpinismo nei quali è descritta con una certa enfasi la progressione in artificiale anche là dove “chiodare diventa un’arte”, mi esalto e, con un paio di fogliette Cassin e qualche esercizio di equilibrio, arrivo all’agognato terrazzino.
Con altri due tiri di corda completeremo la salita; ne risulterà una bella via di V+ e A2, aperta con sistemi tradizionali, perché noi i chiodi a pressione prima e ad espansione poi non li abbiamo mai usati, perché non ci sembrava etico, né rispettoso nei confronti della montagna.
Agosto 2003: sono in cima al V° Bastione di Formin con due compagni di cordata con i quali abbiamo percorso una “vietta” di terzo e quarto grado.
Abbiamo portato martello e chiodi non perché servissero, ma per piantarne qualcuno, per far fare un po’ di esperienza al secondo che non ne aveva mai tolti.
Riposte le corde ci stendiamo sull’erba godendoci il sole caldo e il panorama selvaggio dell’altopiano di Formin. Estraggo dallo zaino la mia razione di cibo.
Urca, le noci! Me n’ero dimenticato. Ne rompo alcune col martello e, apprezzando la comodità dell’attrezzo per quest’uso, me le mangio con golosità.
Il mio vecchio, caro martello. Quante volte è rimasto nell’armadio in questi ultimi anni!
Lui è sempre lo stesso, ma sono io che sono cambiato, come è cambiato l’alpinismo che pratico ed anche quello degli altri. Vie sempre più chiodate, ma in sé non lo reputo un male, anzi.
Sono i fix piuttosto, che da tipica protezione da falesia, hanno sempre più invaso la montagna.
Perché ...le soste debbono essere sicure, ...altrimenti il passaggio sarebbe stato improteggibile, ...perché non c’erano alternative, ...perché si voleva passare a tutti i costi. Che altro?
Polemiche che non finiranno mai fino a che ci saranno alpinisti (ma forse è meglio dire arrampicatori) che la pensano in modo diametralmente opposto. Io possiedo un perforatore per chiodi a pressione; a suo tempo lo usai per salire una placca liscia in falesia, ma non mi sono mai sognato di portarlo in montagna.
Ho sempre considerato il forare la montagna un’autentica violenza e non ho ancora cambiato idea, pur essendo (lo ammetto) uno che ripete spesso vie protette a spit.
Ma un conto è ripetere, un altro partire con il trapano nello zaino per garantirsi in ogni caso la riuscita della salita. Non ho la pretesa di giudicare: dichiaro soltanto quale è stata la mia scelta.
Luglio 2003: ero in parola con due amici per una super classica in Lavaredo, ma ci sono stati contrattempi.
Alla fine concordiamo telefonicamente che andremo a Punta Colbricon: l’intento è quello di aprire una via nuova.
Quanto ne hanno parlato gli amici di questo Colbricon: finalmente lo potrò vedere da vicino!
Lo avevo notato da sciatore, qualche anno fa, salendo comodamente seduto sulla seggiovia di Malga Ces: linee di salita bellissime, disegnate da diedri e fessure di grande esteticità.
“Roba difficile – mi ero detto – non fa per me”. E non ci avevo più pensato.
Quando mi ci sono trovato sotto e gli amici hanno indicato la via di salita prescelta ho pensato che mi attendeva una giornata “epica” e non mi sbagliavo.
Diedri a “libro aperto” che sembra siano stati squadrati da un’ascia gigantesca, fessure nette e dritte, altre svasate e un po’ sfuggenti; quel porfido compatto che offre rugosità, ma esige un’arrampicata che alterna tratti da superare di forza ad altri da risolvere con delicata tecnica: veramente una salita entusiasmante.
Quel giorno ho sentito il ripetuto tintinnare dei chiodi sotto i colpi del martello, ho visto il capocordata seguire una linea immaginata e “disegnata” dal basso, ma tutta da scoprire e verificare sul posto, ho assaporato emozioni “antiche”, quasi dimenticate, quelle che danno significato alla parola alpinismo. E confermo alpinismo, perché il resto lo chiamo arrampicata sportiva ed è un‘altra cosa.
Per concludere. Tutto questo ho scritto dopo avere letto il racconto di Roberto Avanzini, “Dov’è finito il martello?”, che contiene un ragionamento lineare che condivido per la gran parte.
Se la proposta “no spit zone” ha fermato la mano di un possibile “trapanatore” è già solo per questo meritoria. Speriamo che fermi anche gli altri (ma su questo non nutro soverchie speranze...).
Sottolineo e sottoscrivo le frasi “...scelta di salvaguardia, che cade in una regione alpina che si sta trasformando in un luna park turistico...” e “...per salvare un piccolo pezzo di paradiso da eccessiva frequentazione...”.
Spero invece che non compaiano mai gli spit, né alle soste, né “dove non c’era altra possibilità”, anche perché c’è sempre un’altra possibilità, quella di scendere.
Io di quei bei diedri, guardati da sotto per tanto tempo, ho avuto la fortuna di salirne uno.
Il merito principale, lo confesso sinceramente senza falsa ipocrisia, è di due amici che mi hanno offerto il capo della loro corda. Perché io il VI grado ce l’avevo solo nelle gambe e nelle mani, loro invece lo avevano anche nella testa e nel cuore. E non certo nella punta di un trapano.
Gabriele Villa
Ferrara, 2 novembre 2003
Racconto collegato:
Dov'è finito il martello?