“Com’è fuori, Rolando?” “Tempo medio!”
di Gabriele Villa
Questa volta vi racconto di un amico, uno dei tanti che ho conosciuto fra gli allievi dei corsi roccia della nostra Sezione del Club Alpino, con il quale negli anni ho stretto un legame di amicizia forte. La storia comincia nel 1983, giusti vent’anni fa.
Quell’anno venne ad iscriversi al corso roccia un gruppetto eterogeneo di persone originarie di Bondeno: due giovani, uno maturo ed un “vecchietto”ancora ben arzillo. Quello maturo si rivelò essere il riferimento del gruppo e, mi accorsi ben presto, anche quello più appassionato; il suo nome era Rolando e, venni a sapere successivamente, era un medico, addirittura un Primario del locale ospedale.
A dire il vero il suo atteggiamento era da persona assai schiva e, come gli altri suoi amici, molto diligente e rispettoso nei confronti degli istruttori: insomma, quel che si usa dire, un bravo allievo. A fine corso, il gruppetto dei bondenesi propose di andare insieme in montagna per arrampicare, invito che io e Stefano, un altro istruttore che era mio compagno abituale di cordata, accettammo. Fu l’occasione per conoscerci meglio e capire che fra noi c’era reciproca simpatia e così a quell’uscita ne seguirono altre.
Soprattutto Rolando era quello che appariva il più motivato.
Lui, già assiduo frequentatore della montagna, non aveva mai praticato l’arrampicata e il corso roccia gli aveva aperto le porte a questa nuova attività.
Così, quasi volesse recuperare il tempo perduto, era sempre lì a proporre nuove uscite. Devo confessare che m’ispirava molta simpatia quel suo entusiasmo che un po’ contrastava con l’aspetto severo della persona, inoltre mi trovavo bene in sua compagnia perché con lui parlavo di tutto e in maniera positiva e utile perché era un uomo di grande esperienza ed equilibrio. Ricordo che a settembre di quell’anno andammo in Val Canali con l’intento di salire Punta della Disperazione, ma il tempo non ci era amico e la pioggia cadeva insistente. Nonostante ciò noi, testardi e speranzosi, salimmo fin sotto alla parete, poi, visto che proprio non accennava a smettere, trovammo riparo sotto ad un grande masso posto nel mezzo del Vallon delle Mughe e attendemmo pazienti. Rimanemmo là circa tre ore, chiacchierando, fino a che, alle 14, smise di piovere ed uscì un timido sole.
La parete, che è rivolta a nord, era zuppa d’acqua così ci guardammo interrogativamente e, in un attimo, senza bisogno di dirci una sola parola, decidemmo di arrampicarci. Ricordo ancora le dita bagnate dentro agli appigli a “busta” pieni d’acqua fredda, il piacere con il quale salimmo dopo tanta attesa sotto al sassone e la pasta asciutta divorata al rifugio Treviso prima di rimetterci in viaggio per rientrare a casa. Rolando era un ottimo sciatore e mi propose con insistenza, durante l’inverno successivo, di andare a sciare assieme, sfruttando la sua casa di Falcade come punto d’appoggio. Io però rifiutavo ostinatamente.
Venivo da alcuni anni di sci autodidattico nei quali avevo creduto di potere imparare seguendo un amico che, mi accorsi successivamente, non sapeva assolutamente fare a sciare. Solo il grande allenamento che avevo in quegli anni mi aveva consentito di compensare con sforzi muscolari indicibili la mancanza totale di tecnica, ma ad un certo punto mi ero proprio stancato di quel faticoso scivolare senza senso lungo le piste. Così avevo riposto gli sci in garage con il fermo proposito di dimenticarmene.
Rolando fu talmente insistente che, alla fine, mi convinse ed accettai, anche se solo per una giornata.
Vi assicuro che per tutto il giorno mi stette davanti a farmi le linee, fermandosi a darmi suggerimenti, a spiegarmi pazientemente quali erano i movimenti da farsi per curvare, a correggere il mio fare goffo e senza tecnica.
Quella pazienza e quella dedizione mi stupirono e la mia considerazione nei suoi confronti aumentò di molto.
Quel giorno non feci progressi decisivi, ma riuscii almeno a capire che lo sci è questione di tecnica soprattutto e non di forza muscolare (come avevo erroneamente creduto) e che solo prendendo lezioni avrei potuto provare ad imparare a sciare. Durante l’estate successiva facemmo ancora un paio di arrampicate assieme, poi, non appena si ripresentò l’inverno, Rolando ritornò alla carica e così, a febbraio 85, tornammo a Falcade e questa volta per stare ben tre giorni. Fu un’esperienza molto positiva per me perché Rolando, come già la volta precedente, non mi mollò un attimo e mi diede consigli e suggerimenti giusti che mi aiutarono a fare altri progressi. Non mi pareva vero: stavo imparando.
Quella sua grande disponibilità era certamente frutto della passione per lo sci, ma anche il desiderio di ripagarmi per quello che io gli avevo trasmesso al fine di imparare ad arrampicare. Era molto bello quel rapporto di “reciprocità” che si era instaurato fra di noi, per le cui regole non scritte d’estate decidevo e conducevo io, mentre la situazione si capovolgeva d’inverno ed era Rolando a condurre.
Uno dei ricordi più belli di quel nostro sodalizio risale all’estate ’85.
Rolando mi aveva confidato il desiderio di salire alcune vie classiche delle Dolomiti e fra queste lo spigolo della Torre Delago al Vajolet.
Io, proprio su quella via, avevo effettuato nel 1975 la mia prima esperienza di arrampicata: ripeterla a giusti dieci anni di distanza mi avrebbe fatto piacere.
Così andammo e salimmo veloci in quella calda giornata di settembre, come velocemente scendemmo.
Avevamo una corda singola per cui dovemmo effettuare sei corde doppie da 20 metri: mentre uno recuperava un capo, l’altro lo infilava nell’anello e preparava il “lancio” per la calata successiva, così, dopo quarantacinque minuti fummo a terra, soddisfatti sia della salita che della “prestazione”.
Fui contento di avere festeggiato il “decennale” della mia prima arrampicata, ma ancora di più nel vedere la soddisfazione sul volto di Rolando.
Nell’inverno ’86 mi “arresi” alle sue insistenze e le uscite dedicate allo sci diventarono ben tre e tutte di più giorni, sempre con base a Falcade.
Devo dire che qualche progresso avevo cominciato a farlo e il “girati a guardare le code” che Rolando mi diceva per preparare ogni curva aveva iniziato a dare i primi frutti. Avevo capito attraverso quel semplice stratagemma inventato lì per lì l’utilità indispensabile del ruotare il busto verso valle ed il mio sciare era diventato meno faticoso e un po’ più fluido. Che bello poi, nelle lunghe serate invernali, rimanere ore a parlare di tutto mentre ci si organizzava per preparare da mangiare, continuando dopo cena, dopo essersi divisi i compiti in maniera “quasi” equa.
Dico “quasi” equa perché, in effetti, Rolando non preparava mai da mangiare, né lavava i piatti (più semplicemente apparecchiava e sparecchiava la tavola), ma, nella sua qualità di padrone di casa, godeva di questa tacita deroga e l’incombenza di lavare i piatti toccava, di volta in volta, a chi si era aggregato a noi, o al più giovane fra i presenti. Al mattino, Rolando era anche sempre il primo ad alzarsi e sempre in ore, almeno per noi, antelucane e comunque mai dopo le sei. Era molto discreto e si curava di non fare rumore nell’andare in bagno; poi scendeva in cucina, al piano di sotto, e lo si sentiva armeggiare con la caffettiera e il bricco del latte.
Una volta risciacquata la tazza apriva gli scuri e lo si sentiva passeggiare con crescente nervosismo fino a che non risaliva le scale per passare a “sbirciare”, anche se con discrezione, nella nostra camera per cogliere segnali di risveglio.
Per noi, oramai lo avevamo imparato, erano gli ultimi minuti da trascorrere fra le lenzuola, poi si sarebbe dovuto cominciare inevitabilmente ad alzarsi.
Capitava, qualche volta, che le previsioni avessero annunciato tempo incerto e allora, con l’ultima speranza di rimanere a poltrire, chiedevamo come fosse il tempo fuori.
”Oggi, tempo medio” diceva Rolando in maniera per noi enigmatica.
“Come tempo medio? Che vuol dire?” avevamo chiesto le prime volte.
“Che non si capisce bene cosa vuol fare” rispondeva.
Così era giocoforza alzarsi per scendere a guardare dalle finestre della sala e, una volta alzati, non si ritornava più a letto qualunque fosse il tempo.
Capitava anche, qualche altra volta, che il cielo apparisse talmente grigio da non lasciare alcuna ragionevole speranza di bel tempo.
“Come tempo medio – dicevamo allora dopo avere guardato fuori - al fa schìv!”
“Sono uscito a guardare verso nord le cime d’Auta e il cielo è meno scuro” era capace di rispondere con un sorriso disarmante.
Ce ne abbiamo messo a capire che con quel “tempo medio” ci fregava ogni volta togliendoci dal letto per farci alzare a guardare fuori.
In tanti anni solo una volta, verso la fine di un mese di ottobre di buona stagione, potemmo rimanere a letto: fuori erano caduti venti centimetri di neve fresca e ancora stava nevicando copiosamente. Ma quella volta rimase l’unica.
Ma non ci siamo mai arrabbiati con lui per questo.
Sapevamo che era tutto dovuto alla grande passione: quando era con noi e c’era l’occasione per arrampicare non poteva permettersi di “perdere un giro”.
In quegli anni, fresco del mio titolo di Istruttore di Alpinismo conseguito nel 1983, avevo iniziato a dirigere i corsi roccia della Sezione.
Questi non erano ancora ben strutturati anche se eravamo sulla buona strada perché ai corsi interregionali ci avevano insegnato come sviluppare le lezioni pratiche e teoriche. A me parve una buona innovazione introdurre la figura del medico del corso e la presenza di Rolando me ne diede l’opportunità.
Lui accettò con grande entusiasmo e dal 1985 iniziò a seguire tutte le uscite, collaborando con gli aiuto istruttori nelle lezioni sul campo che si svolgevano ai Colli Euganei. Nelle uscite in Dolomiti, non arrampicando come capocordata, si aggregava a qualcuno, normalmente a me, e saliva dietro all’allievo.
Non che ci fosse un gran daffare per un medico al seguito dei corsi, ma la sua presenza ci era comunque d’aiuto quando capitava qualche indisposizione. Solo una volta, in un’uscita collegiale post corso, capitò un incidente ad una ragazza che cadde durante la discesa della via normale a Torre d’Alleghe, in Civetta.
Eravamo ad inizio stagione e fortuna volle che si fermasse qualche metro sotto, andando ad incastrarsi tra la neve residua del canalone sottostante e la parete di roccia. I ragazzi mi calarono con la corda e così riuscimmo a recuperarla sul terrazzino dove Rolando fece una prima visita sconsigliando il trasporto a valle, così qualcuno andò di corsa al rifugio del Coldai per allertare il Soccorso Alpino.
Rolando fu molto professionale e con la sua presenza e il suo modo di fare trasmise a tutti tranquillità, prima fra tutti all’infortunata. Fu molto attento quando arrivò l’elicottero a calare il soccorritore con il verricello e con questi collaborò alla sistemazione dell’infortunata nella barella ed al suo recupero.
Rolando seppe dare un impulso alla parte teorica dei corsi preparando le lezioni che trattavano del primo soccorso in montagna, delle patologie da altitudine e dell’aspetto della corretta alimentazione prima, durante e dopo l’arrampicata.
In particolare con la lezione dell’alimentazione ci trasmise tante notizie ed informazioni di cui avevamo conoscenze generiche e/o superficiali e fu momento formativo per tutto il gruppo degli istruttori, me compreso.
Riuscendo a mediare le conoscenze medico-scientifiche con la sua esperienza diretta di alpinista ci fece veramente capire una gran quantità di cose utili.
Ricordo una sera in cui ci stava spiegando la differenza tra gli zuccheri semplici, facilmente assimilabili e di pronto utilizzo e la grande riserva di energia, però a consumo lento, che nasconde il nostro corpo mediante l’accumulo dei grassi.
“Pensate che con un chilo di grasso corporeo – ci diceva – si possono sviluppare circa 8.000 calorie. E’ il fabbisogno calorico per correre una maratona”.
Avevamo capito bene cosa ci aveva spiegato Rolando, tanto che uscì una battuta rivolta ad uno degli aiuto istruttori un po’ soprappeso.
“Allora chissà quante maratone potrebbe correre Umberto...”.
Ci fu una risata generale, poi Rolando riprese il filo del discorso e la lezione proseguì.
Per la differenza di età che ci separava, vent’anni giusti, Rolando oltre ad essere un amico, in alcune circostanze fu come un fratello maggiore o un padre saggio.
Lo fu certamente in un momento fra i più tristi e difficili che affrontammo quando giunse in città la notizia della morte in montagna del nostro amico Gigi.
Era il 4 agosto del 1992 e fu una mazzata tanto improvvisa quanto inaspettata e incomprensibile. Ma purtroppo vera.
Rolando, che si trovava in vacanza a Falcade e quindi poco distante dalla Val di Piero, luogo della tragedia, si prodigò generosamente, sia come amico che come medico. Dopo il funerale, con Gianni e Donata, volemmo andare sul posto dell’incidente per vedere di persona i luoghi che avevano visto il nostro amico perdere la vita. Ci demmo appuntamento con Rolando ed assieme risalimmo la Val di Piero fino al luogo dove era successa quella scena che ci era stata raccontata e che ognuno di noi aveva oramai mille volte immaginato o sognato negli incubi delle notti precedenti. In particolare io e Gianni scendemmo con l’aiuto della corda fino al fondo del torrente e potemmo vedere dove il nostro Gigi aveva terminato la sua rovinosa caduta. Fu un momento difficile, emotivamente drammatico, psicologicamente destabilizzante che l’esperienza e la saggezza di Rolando ci aiutarono a superare.
Ma, dicono, le disgrazie non vengono mai sole e, forse, in questo c’è un fondo di verità. A distanza di pochi mesi da quel tragico inizio d’agosto e dopo alcune sciate invernali fatte assieme come sempre, rividi Rolando arrivare nel mio ufficio una mattina, inaspettatamente. La cosa era strana, ma accennai un sorriso che fu ben presto raggelato dal volto teso, quasi inespressivo (o forse troppo espressivo) del mio amico. Qualcosa di grave era successo, o stava per accadere.
“Sono venuto a salutarti perché devo essere ricoverato per un’operazione chirurgica”. Accennai una delle solite frasi di circostanza, una di quelle che si dicono in questi casi, nelle quali si ipotizza che tutto andrà per il meglio e che il momento negativo passerà in fretta.
“Sono un medico – mi sentii rispondere – e so che sono su una strada che si percorre in una sola direzione. Succede nella vita delle persone ed è toccata a me. Non credo che avremo modo di rivederci, per questo sono venuto a salutarti”.
Provai a ribattere qualcosa, ma il volto senza sorriso e senza speranza di quell’uomo che mi stava di fronte ben presto mi annichilirono. Ci stringemmo forte la mano, poi lo vidi sparire velocemente nel corridoio da dove era arrivato, improvviso.
Per fortuna anche i medici sbagliano le diagnosi ed i chirurghi, a volte, riescono ad intervenire in maniera positiva anche su situazioni apparentemente senza speranza.
Così il destino aveva concesso al mio amico Rolando di continuare a vivere, pur costringendolo a spiacevoli rinunce. Infatti, le conseguenze della malattia e delle terapie gli avevano portato un handicap al polso destro costringendolo a rinunciare alle attività sportive preferite: il tennis e l’arrampicata.
Ma quell’uomo aveva una carica vitale non comune e, piano piano, cominciò a praticare la corsa a piedi, poi, acquistata una bici da corsa, iniziò a pedalare su distanze via via crescenti. La nostra frequentazione divenne meno assidua, ma l’amicizia rimase intatta, perché era forte e autentica.
Divenne usuale andare, con gli amici del Cai, a casa sua l’antivigilia di Natale per scambiarci gli auguri e trascorrere una sera in compagnia, come continuarono le giornate trascorse sugli sci sulle piste di Falcade.
“Ecco – mi disse una mattina mentre andavamo alla biglietteria – questo è l’unico vantaggio che ho avuto a diventare vecchio. Lo sconto sullo ski pass per gli over 65”.
Ci facemmo una risata e poi via, fu tutta una discesa fino a pomeriggio inoltrato.
Quando avevamo gli sci ai piedi le differenze di età sparivano, anzi, sembrava lui il più giovane e, a volte, anche il più spericolato.
Lui ne era ben conscio e, quasi a scusarsi dopo una discesa a rotta di collo, diceva: “Dovrei andare più piano perché, alla mia età, se cado mi faccio male sicuramente e poi direbbero: in dùv duvèval còrar cal vècc imbambì”.
La sua autoironia era sferzante, come invidiabile era il suo spirito giovanile.
Queste doti, solo in apparenza contrastanti, lo facevano più apprezzabile come persona.
Ancora non sono riuscito a dirvelo, ma oramai lo avete capito.
Rolando se n’è andato da questa vita terrena.
Dopo il funerale, un medico nostro amico comune, che lo aveva seguito nell’ultimo evolvere della malattia che era tornata a colpirlo, mi ha detto: “Pensa che quindici giorni fa, dovendo recarsi a Treviso per una visita di controllo, ne aveva approfittato per andare in montagna ed aveva sciato per tre ore.
Fino all’ultimo non si è arreso. Aveva una forza d’animo incredibile”.
Incredibile? Forse sì. Ma perfettamente in linea con lo stile dell’uomo.
Ripensando a Rolando, solo ora, mi rendo conto di come non sia stato soltanto un amico, ma molto di più.
Certamente è stato un maestro di vita e, vi assicuro, che la “qualifica” deve essere intesa nel senso più alto e nobile del termine.
Gabriele Villa
Ferrara, 29 aprile 2003