Il bivacco della pantera

di Gabriele Villa



Mi sveglio all’improvviso e realizzo subito dove mi trovo: nel sacco piuma.
Del resto la mummia del fido Monclair non concede che l’essenziale e ci sto di sigillo; lo spazio è abbondante solo in fondo, ma lì ci sono i sacchetti con dentro gli scafi e la macchina fotografica a litigarsi il posto con i miei piedi.
Con un po’ di contorsioni riesco ad estrarre la frontale dalla tasca del pile e ad illuminare l’orologio da polso: segna le 4,30. Incredibile, ho dormito come un sasso per più di tre ore.
Tolgo la felpa dall’apertura del sacco piuma per vedere cosa ci sia fuori del mio involucro.
Un freddo pungente mi "strizza" il naso. Il cielo nero è di un limpido indicibile, il cerchio bianco della luna è quasi perfetto, luminosissimo, manca una sola notte alla luna piena.
Decido rapidamente di tornare a tappare il foro del sacco piuma con la felpa, ma un fastidio mi pervade. Ecco perché mi sono svegliato, la vescica richiede di essere svuotata: l’operazione più temuta quando si bivacca all’aperto, subito dopo un’altra ancora più "impegnativa".
Non mi alzo mai di notte quando sono a casa, ma probabilmente la camminata notturna e il freddo intenso hanno stimolato la diuresi per cui, detto in altre parole, devo assolutamente alzarmi a pisciare.
Prima di agire studio la sequenza dell’operazione: mi sfilerò dal sacco, mi allontanerò pochissimo restando sotto al grande pino che ci ospita, farò quello che devo fare e mi rinfilerò in fretta nel sacco dopo essermi ripulito le calze dagli aghi di pino che vi si saranno attaccati sotto.
Mentre compio l’operazione penso che la grande ed ospitale pianta non se ne avrà a male di questa mia scortesia e tratterà il mio liquido organico come quello di un qualsiasi altro animale che sia venuto qua sotto a fare i suoi bisogni.
Pulite le calze, ritorno ad infilarmi nel sacco, lo richiudo meticolosamente e nel foro che rimane rimetto la felpa a mò di tappo. Tutto ritorna buio e il calore rimasto nel sacco riprende ad avvolgermi, anche se lentamente.
Ho approfittato dell’uscita per dare un’occhiata al termometro appoggiato a terra: segna –15°C.
Mi pare che Davide non si sia svegliato e ciò vuol dire che il suo sacco piuma lo stà proteggendo dai morsi del freddo.
Sembra ieri da che gli avevo telefonato dopo la ricognizione per la ciaspolata del Cai effettuata a fine anno con alcuni amici.
"Obelix, ho trovato il posto per il bivacco della pantera. Quando andiamo?"
"Quando vuoi – mi aveva risposto – mì a son sèmpar pront.".
Mitico Obelix. E’ una grande fortuna avere un amico che condivide con te le passioni, anche quando queste sfociano in iniziative per le quali gli altri, quasi tutti, ti danno del matto.
Ma noi il bivacco della pantera lo avevamo nella testa da qualche anno; ne avevamo parlato infinite volte, ma mai, prima di quest’anno, era scattata la molla giusta per farci partire, oltretutto di venerdì 17.
Entrambi avevamo visto, anni prima, uno di quei filmetti di seconda categoria, con un attore di fama, incamminato sul viale del tramonto, ma ancora di richiamo, protagonista di una storia abbastanza esile che però si svolge in un ambiente suggestivo. Sono quei filmetti che non andresti mai a vedere al cinema, ma che intercetti, casualmente, in una sera di annoiato zapping televisivo.
Nella fattispecie l’attore era Robert Mitchum nella veste di un allevatore del Nord America, (forse del Canada?), a cui una pantera affamata aveva sbranato qualche capo di bestiame.
Si sa come sono questi americani quando qualcuno li tocca nella proprietà.
Il nostro parte subito sulle tracce dell’animale selvaggio, lasciando nella fattoria la vecchia madre ed il giovane fratello che vorrebbe andare con lui nella pericolosa caccia, ma non viene giudicato sufficientemente grande ed esperto per poterlo fare. L’ambiente è invernale per cui l’uomo, munito di fucile, parte con le racchettone da neve ai piedi, quelle grandi che usano gli Eschimesi, non prima di avere messo nelle capienti tasche della pelliccia qualche cosa da mangiare e l’occorrente per accendere il fuoco, perché, par di capire, la caccia durerà più giorni.
Le tracce sulla neve sono evidenti e l’uomo le segue, tenace, fino al sopraggiungere della sera e, quando si fa buio, si avvicina ad un grande abete i cui rami arrivano fino a toccare il manto nevoso, lasciandosi scivolare giù fino al tronco al quale si appoggia, iniziando ad armeggiare per accendere il fuoco.
Ed è questa la grande suggestione del film: questo rituale del bivacco notturno al riparo della grande pianta i cui rami, prima hanno impedito alla neve di depositarsi e poi fanno da velo protettivo nei confronti dei gelidi venti della notte.
Che poi lui uccida la pantera o questa lo sbrani e sia il fratello più giovane ad uccidere il feroce animale non gliene fregherà gran chè a nessuno, perché alla fine del film tutti si saranno accorti che il protagonista non era Robert Mitchum, ma l’ambiente innevato del Nord America, con i suoi grandi alberi e l’enorme distesa di neve.
Così era successo a noi, quell’ambiente ci aveva affascinato e quel bivacco era un’esperienza da provare, assolutamente. Ma in Dolomiti non ci sono piante così grandi, con i rami fino in basso e nemmeno viene tanta neve da creare quelle condizioni così "eroiche".
Ma i desideri non muoiono facilmente e, quando durante la ricognizione con gli amici vedemmo il grande pino nella piana del monte Sief, pensai subito: questo è il posto ideale per il bivacco della pantera.
La salita di due ore, con le ciaspole, da Andraz era stata piacevole nonostante il freddo pungente e la luna aveva illuminato perfettamente il nostro cammino, tanto che le frontali erano rimaste nello zaino.
Poi avevamo sistemato il telo impermeabile, avevamo steso i materassini e i sacchi piuma, infilandoci dentro lestamente nel silenzio più completo.
Ora, a metà della notte, il caldo del mio corpo custodito dal prezioso involucro del sacco piuma è ritornato gradevole, soltanto i piedi sono rimasti freddi e non conta nemmeno sfregarli fra loro perché ritornino alla giusta temperatura.
Dopo un po’ mi rassegno, mi giro su di un fianco e riesco a riprendere sonno.
Al mattino ci svegliamo quasi alle sette, in tempo per vedere, il cielo diventare meno scuro, poi blu, infine azzurro, mentre nel contempo le cime dei Sett Sass, colpite dal sole, da grigie diventano rosa, poi rosse ed infine gialle.
Sopra di noi il pino secolare stende i suoi grandi rami protettivi, appena mossi dal vento gelido del mattino, mentre la neve, a due metri dai nostri sacchi, appare cementata dal freddo della notte appena trascorsa.
Iniziano le contorsioni per recuperare gli scarponi dal fondo del sacco, poi occorre sfilarsi e vestirsi rapidamente per rimettere, infine, tutto nello zaino.
Dopo un po’ di cioccolata e un goccio di thè che la borraccia termica ha mantenuto tiepido, siamo pronti per ripartire.
Le ciaspole ci sostengono sulla neve che qui nella piana è alta e farinosa.
Saliamo, finalmente al sole, verso i Sett Sass, poi traversiamo alti sulla conca per chiudere l’anello che ci riporterà sul sentiero di salita e per questo ad Andraz.
Prima di scendere lungo la dorsale boscosa diamo un’ultima occhiata alla conca: la grande ombra del nostro pino è sempre là, più grande di tutte le altre che stanno intorno. Chissà se attenderà qualcuno a fargli ancora compagnia, come noi la scorsa notte.

Gabriele Villa

Ferrara, 21 gennaio 2003