L’uomo che intarsiava i bachèt
di Gabriele Villa
Questa storia non parla di arrampicate e non parla di montagna, ma con la montagna ha a che fare. E’ una storia personale perché racconta di una persona a me molto cara, una di quelle che la montagna tiene nascoste nei suoi paesini sperduti, ancora capace di sentimenti semplici, forse poco importanti, ma così preziosi per chi li sa cogliere e apprezzare.
Ho passato parte della mia adolescenza diviso tra gli "zii di campagna" (parenti per parte di padre) e gli "zii di montagna" (parenti per parte di madre); con i primi vivevo nei mesi invernali e primaverili, con i secondi nei mesi estivi, quelli delle vacanze.
Questi li trascorrevo nella casa dello zio Mario nel paesino di Pecol agordino, in cui abitava anche la zia Marcella; lì stava il "campo base", i cugini con cui giocare, assieme a tutti gli altri ragazzi del paese e stiamo parlando di qualche anno fa, quando i giochi erano nascondino, tirare con le fionde e andare a rubacchiare piselli negli orti dei paesi vicini.
Abitava poco distante la zia Veronica che mi invitava a pranzo spesso, attirandomi con squisite torte di mele e un "pass" di entrata nel suo orto da cui estraevo ottime carote da consumare all’istante.
Poi c’era lo zio Davide che abitava nel vicino paese di Piaia, ma quello non lo vedevo mai, perché d’estate, mi dicevano, era a Cortina per la stagione turistica in quanto faceva il portiere in un albergo. Una volta, in corriera attraverso il Passo Falzarego, andammo a trovarlo e, ricordo, sulle prime, mi diede un po’ di soggezione perché indossava una specie di divisa che gli conferiva un aspetto severo. Poi notai che sorrideva sempre ed era allegro, dimostrando di essere molto felice del fatto che noi fossimo andati a trovarlo.
Quel sorriso mi rimase impresso e, nella mia mente di adolescente, lo zio Davide divenne "quello che lavora a Cortina e che sorride sempre".
Quel ricordo di adolescente mi è rimasto fissato nella mente, così come un altro incontro, sempre casuale, avvenuto a distanza di anni. Lavoravo già e, in autunno, avevo preso l’abitudine di "scappare" dall’officina metalmeccanica nella quale ero impiegato, per passare qualche giorno in montagna dagli zii o anche con la tenda. Giravo con l’auto per i passi dolomitici a scattare fotografie e a guardare le pareti con il binocolo, passeggiavo da solo tra i boschi che cambiano i colori, respirando gli odori dell’autunno e "ascoltando" il silenzio dei luoghi e il tepore del sole pomeridiano. Durante una di queste passeggiate solitarie nei boschi sopra Pecol, in una radura pianeggiante, vidi in distanza una persona seduta sul basamento di un tabià (tipico fienile rurale), lo zaino appoggiato a terra e un’aria rilassata. Avvicinandomi riconobbi, con un certo stupore, lo zio Davide.
Lo salutai calorosamente chiedendogli cosa facesse lì e perché non fosse a Cortina.
"La stagione è finita e sono rientrato da un paio di giorni" mi disse in un italiano senza inflessioni dialettali.
Che stupido non averlo immaginato, mi dissi.
"E dove sei andato di bello?" gli chiesi con una certa curiosità.
"Sono stato a Col d’Armente a guardare il Civetta; da là si vede tanto bene che sembra di poterlo toccare"
Lo disse con semplicità, ma anche con serietà, come se si fosse trattato di una comunicazione importante e, probabilmente, per lui lo era.
"E come mai da solo? " insistetti curiosamente.
"Son usà a star sòl – mi disse passando al dialetto – e me piàs el silenzio del bòsch".*
(*Sono abituato a stare da solo e mi piace il silenzio del bosco)
Lo guardai con stupore, perché non lo immaginavo così sensibile.
"Dopo tanti mesi a Cortina, in mezzo ai turisti e ai "signori" – continuò senza che io glielo avessi chiesto – el bòsch el me comuove, così me son fermà qua a me fa una piandùda"* – concluse in dialetto.
(*il bosco mi commuove e così mi sono fermato qui per farmi un pianto).
Rimasi sorpreso per quella confidenza così intima e sincera che non mi sarei mai aspettato, data anche la scarsa confidenza fra noi.
Probabilmente il mio stupore divenne palese tanto che lo zio concluse, quasi a scusarsi di avermi in qualche modo turbato: "ma piande volentiéra, sàsto?*
(*ma piango volentieri, sai?).
Quello sfogo confidenziale mi aveva fatto scoprire, improvvisamente, una persona che non conoscevo sotto questo aspetto, sicuramente affine per sentimenti e sensibilità.
"Adesso vado anch’io a Col d’Armente a vedere il Civetta" gli dissi certo di fargli piacere.
"Bravo, te vedarà che bèl" mi rispose contento e ci salutammo.
Quanti anni sono passati da quel giorno!
Anni nei quali ho cambiato lavoro, messo su famiglia, perso l’abitudine di andare da solo per boschi in autunno e tante altre cose ancora; insomma è praticamente passata una vita, quasi. E così lo zio ha raggiunto l’età della pensione, rientrando stabilmente nella sua casa di Piaia a fare le cose che fanno tutti i pensionati dei paesini di montagna: raccogliere legna nel bosco, andare a far compere nel "capoluogo" di San Tomaso o a Cencenighe, effettuare qualche riparazione artigianale di attrezzi o di cose e tanti altri piccoli servizi per riempire le giornate. Ho continuato a sentirlo qualche volta al telefono o ad incontrarlo, sempre casualmente e sempre con piacere, come l’ultima volta due mesi fa. Stavamo andando in auto verso il Passo Falzarego; velocemente, come ci siamo oramai abituati a fare, purtroppo, noi alpinistucoli di pianura avvezzi più a "consumare" la montagna che a goderne i luoghi e i ritmi naturali. Ma quella fisionomia, pur se appena intravista con la coda dell’occhio alla fermata della corriera ad Avoscan, era troppo familiare per potermi sfuggire.
"Ma quello è mio zio Davide" dissi all’amico Luciano, frenando e inserendo la retromarcia.
Lo caricammo per dargli uno "strappo" fino ad Alleghe.
"Vado a fare un po’ di spesucce; – proprio così disse nel suo italiano senza inflessioni dialettali – poi prendo la telecabina e vado a malga Pioda a vendere i miei bachèt ai turisti che passano".
Conoscevo la storia dei bachèt; me l’aveva raccontata mio cugino Dino, ridendo.
"Lo zio Davide ha avviato un business – mi aveva detto divertito - d’inverno taglia e intarsia bachèt e d’estate li va a vendere ai turisti".
Per chi non lo sapesse, bachèt in dialetto vuol dire bastone, quello non troppo grosso altrimenti diventa il bastòn, senza distinguere se venga usato per governare le mucche come fanno i malgari e i pastori, o per aiutarsi nel cammino come fanno alcuni escursionisti.
Anche lo zio lo usava, il bachèt, nelle sue escursioni e, ad un turista che glielo aveva ammirato in maniera entusiastica per gli intarsi così ben fatti, forse un po’ lusingato da tanti complimenti, lo aveva regalato.
"Tanto io me ne intarsio un altro" – immagino che avrà sicuramente detto o pensato.
E poi, finito di tagliarlo e intarsiarlo, aveva continuato perché, nel frattempo, visto il successo del primo, gli era balenata l’idea di provare di venderli e così si era inventato una piccola attività il cui ricavato principale era, io credo, impiegare il tempo in modo utile e non finire a giocare con le carte nel fumoso bar del paese o, peggio ancora, stare a guardare alla televisione storie di un mondo che gli era estraneo.
"Ma non hai bastoni con te – dissi – dove li tieni?".
"Li ho in deposito a Malga Pioda; ho fatto un accordo amichevole: loro mi tengono i bachèt e io consumo il pranzo da loro".
Una piccola joint venture, si potrebbe definire in termini moderni, frutto di ingegnosità, semplicità e voglia di sentirsi utili nonostante la non più giovane età.
Finchè, a Piaia, per due giorni consecutivi, hanno notato gli scuri chiusi nella casa dello zio Davide ed allora, preoccupati, sono andati a vedere cosa fosse successo.
Lo hanno trovato in cucina, steso sul pavimento, con le mani al petto.
Quell’omone semplice, tranquillo e riservato, con il perenne sorriso da bambino sulle labbra, se n’era andato in silenzio e con discrezione, così com’era vissuto, senza arrecare disturbo a nessuno.
Il prete durante l’orazione funebre ha detto una cosa che mi ha colpito particolarmente.
Davide aveva intrapreso quella piccola attività di produzione dei bastoni da passeggio per impiegare utilmente il tempo nelle lunghe giornate invernali, per sentirsi attivo, ma, soprattutto, per potere poi, d’estate, avere l’occasione di stare in mezzo alla gente e parlare con le persone, perché era ciò a cui veramente teneva.
Detto sinceramente, non avevo pensato a questo aspetto, forse il più vero e il più umano.
Vendere i bachèt per avere l’occasione di avvicinare le persone intente a camminare fra le montagne, stare fra la gente e poter, anche se fugacemente, intrattenersi a parlare con loro.
Adesso che ho capito, è così che continuerò a ricordarlo.
Sui prati di Malga Pioda a porgere bachèt, chiacchierando sorridente con qualche turista, magari in buona lingua tedesca, come ben si conviene ad un esperto ex portiere d’albergo di Cortina d’Ampezzo.
Ma la montagna credo abbia perso un altro degli ultimi testimoni di un mondo semplice e genuino che, purtroppo, sta lentamente e irrimediabilmente scomparendo.
Gabriele Villa
Ferrara, settembre 2002