Il ragazzo della via Glek

di Angelo Bolognesi


Quanto segue serve a dimostrare ad antropologi e a psicologi che ci sono dei casi in cui i comportamenti umani non sono leggibili e sono solamente uno scherzo del Caos, unico vero signore dell'universo.
Tra Seniores, Juniores e Mediores, le gite della nostra beneamata sezione del CAI hanno ormai più date del Neverending Tour di Bob Dylan. Tra le tante, mi è saltato in mente di partecipare a quella che prevedeva la salita al Monte Gioveretto per la comitiva degli “Arditi”, muniti di piccozza e ramponi, mentre l'altra comitiva, quella degli escursionisti alla buona, avrebbe raggiunto la vetta del Monte Glek. Sostanzialmente, un percorso che prevedeva circa 1900 metri in salita e, strano a credersi, altrettanti in discesa.
Va sottolineato come nessun centro di rianimazione fosse dislocato lungo il percorso.
In tutto sono stati ventinove i partecipanti votati al sacrificio estremo, più tre accompagnatori (il trio di Malalbergo che, nel mio indice di gradimento personale, gode di percentuali ben più che bulgare).
Dei tre, quello che guidava la seconda, delirante comitiva di cui facevo parte, era il Ragazzo della via Glek, titolo acquisito grazie alle innumerevoli occasioni in cui ha osato affrontare quel percorso dal Paleolitico fino ad oggi, in qualsiasi condizione psichica, fisica e meteorologica. A lui vada il ringraziamento e l'umana solidarietà per l'ingrato compito che si è accollato.
Chi, come me, ha rinunciato da tempo ad interrogarsi sui grandi misteri della vita, si accontenterebbe di sciogliere alcuni nodi minori. Anche molto minori. Per esempio, capire perchè la maggior parte degli avventurieri della domenica (e del sabato) relativamente ai ventinove impavidi, avesse l'età media dei Rolling Stones.
Personalmente mi sento molto al di sotto della questione ma confesso dei essermi posto spesso la domanda su cosa spinge ad affrontare simili tragedie di proporzioni bibliche.
Potrebbe darsi che il rapporto con la realtà possa essere viziato dall'età più di quanto non si possa credere? Personalmente non ho risposte, non tali comunque da sfuggire al sospetto di essere io stesso parte in causa. Meglio rimandare le spiegazioni al giudizio più competente degli psicanalisti, ma si insinua il sospetto che una componente significativa possa essere il narcisismo. Comunque, ignorando come vita e morte siano gemelli monozigoti, alle 11:30 del sabato la processione si è messa in marcia.

Fino al lago di Fontana Bianca, magnifico pozzangherone incastrato tra i sassi, tutte rose e viole.
Sentiero quasi in piano dove tra noi c'era chi trovava anche il tempo per twittare e facebuccare.
Dopo un veloce rifocillo sulle sponde dell’ameno specchio d’acqua, si riprendeva a salire all'interno del bosco dove ormai sono più pericolose le mountain bike delle vipere.
Abbandonato presto il bosco si continuava tra pietraie e sfasciumi. Procedendo verso il rifugio, il vociare garrulo e stridulo del gruppo è divenuto direttamente proporzionale alla densità degli alberi ad alto fusto intorno a noi.
A picco su un altro pozzangherone oscuro, il rifugio, strapieno di una brulicante umanità in atto di festeggiare se stessa per essere arrivata fin lì, accoglieva il nostro gruppo all’interno del quale certe cofane un poco scomposte trasmettevano un senso di struggente anacronismo, tipo i centrini sotto il telefono a cornetta. Giusto il tempo di tirare il fiato e riporre i defribillatori che, il gestore della confortevole stamberga, un cordiale e simpatico incrocio fra un cinghiale e un armadio, ci ha assegnato le camere. Preso possesso delle brande solo dopo averne allontanato i cavedani non senza difficoltà, si avvertiva come le coperte emanassero lo stesso odore delle traversine ferroviarie d'estate. Sistemate le nostre povere cose, alle 18:30, puntuale come l’IMU, scattava la cena. La sala, gremita come una curva da stadio faticava a contenere il fracasso prodotto dagli umani.
Cercare di arginare il rumore per scambiare due chiacchiere con il vicino di posto era come cercare di arginare il mare con il rastrello. Premettendo che dato l’appetito, avremmo mangiato di tutto, tranne forse i chiodi e i vecchi barattoli di vernice, si è osato chiedere un pezzo di pane. Di fronte all'innocente richiesta, la cameriera sgomenta, pensando “eccoli lì i Terroni mangiapane!”, ha sparato uno sguardo simile al getto di una fiamma ossidrica, scuotendo il capo in segno di assoluto diniego. Niente pane.
Ora, al di là di ogni considerazione deontologica (ormai scappa da ridere al semplice suono della parola) se non si è un cameriere di Alfa Centauri con la trombetta al posto del naso e si vive in mezzo ai normali stronzi, la richiesta mi sembrava accettabile, anche se posta da dei “Terroni”.
Comunque, adattabili come il pongo e accettando nostro malgrado il farinaceo mistero doloroso, si è rinunciato al pane, allietati in compenso da una disinvolta tavolata di vecchi amiconi. Questi, mentre sparavano foto in giro per il web, schizzavano decibel ad ogni brindisi che si ripetevano l’uno dopo l’altro con allarmante frequenza.
Anche se ormai niente è più conformista del baccano, la combriccola mostrava una spensieratezza niente affatto nevrotica, anzi perfettamente risolta perchè il burino è contento di esserlo, si piace.
Egli si ritiene normale in un mondo di anormali, maschio in un mondo di froci, risoluto in un mondo di dubbiosi. Oltretutto, non attribuendosi mai la colpa di niente, risparmia anche il costo dello psicanalista.
Ben presto, quella sbracata tavolata finiva per far rimpiangere, in chi ha ricevuto un'educazione cattolica, la ritualità compunta e un poco penitenziale nella quale è cresciuto. Tengo a precisare che non è in questione il tema della rappresentazione della maleducazione a scopo pedagogico. Men che meno l'inutile presunzione di sentirsi buoni e bravi in un mondo depravato. E' solamente una faccenda personale: non reggo più il casino. Un po' come quelli che diventano vegetariani non come scelta ideologica ma perchè con l'età non hanno più voglia di carne. Mi auguro che in futuro ci siano avanguardie di popolo che si immortalino (da soli o in gruppo) silenziose e composte per protestare contro le gazzarre e che frasi gentili e perfino precetti di buona educazione (tipo: non si urla a tavola) divengano virali e molto di tendenza in segno di resistenza contro il trucido invadente.
Considerazioni a parte, indifferenti a tutto e a tutti, i simpatici commensali hanno proseguito la cena ben oltre la nostra uscita, continuando felicemente per tutto il tempo ad ululare ad ogni cin-cin. Spero di trovare quella allegra combriccola nella categoria dei “Funny Files”, cliccatissimi dai perdigiorno come me, tra il gatto che ruba le crocchette al Rottweiler e quello che, allo stadio, dorme durante la partita. Ma ho seri dubbi. Per concludere la divagazione, se posso permettermi un consiglio, direi che un paio di crackers in più e un paio di decibel in meno non sarebbero una cattiva idea.
Così, dopo la cena, con le vesciche nelle orecchie siamo usciti all'aperto dove, prima di ritirarci nei nostri candidi e umidi lettini, abbiamo potuto osservare e ringraziare la luna che, camminando lenta dentro un catino nero punteggiato di fori luccicanti, ci ha fatto capire come sia l'oscurità a far brillare più intensamente le stelle.

Alle sette del mattino il plotone degli “Arditi” diretto al Gioveretto, era già sparito come il Movimento dei Forconi. Leggermente ringalluzzito dalle poche ore di sonno massacrate da rumori di vetri e stoviglie che ci hanno cullato fino a tarda notte, in perfetto assetto da montagna il nostro gruppo è partito a rotta di collo in ripida discesa, perdendo buona parte della quota raggiunta la sera precedente, sputando anche l'anima. Alle spalle di chi scrive, un coro di suocere cinguettanti in servizio permanente, rimbalzava gioiosamente sulle rocce. Attraverso un penoso slalom tra laghetti alpini di ogni forma e dimensione, duecento metri più in basso il sentiero ha ripreso a salire maestosamente. Istantaneamente ammutolito il coro, i piedi hanno iniziato a inchiodarsi a terra e il gruppo ha cominciato a sfilacciarsi. Scanditi i faticosi passi dagli sbuffi e dai rantoli della comitiva, contro ogni più rosea previsione e grazie agli incitamenti e alle sollecitazioni da parte del ragazzo della via Glek, nostro faro, è stato raggiunto il passo Rabbi o qualcosa di simile. Qualcuno, stremato, reggeva i bastoncini come tenesse una gallina per il collo. Altri, in probabile crisi da Kinder Bueno avevano il volto colore del latte crudo.
La maggior parte, non sapendo bene dove si trovassero, hanno creduto di riconoscere San Pietro nella nostra valente e insostituibile guida, ritenendo però che il Paradiso, in definitiva, non fosse poi un posto così bello come si credeva. Comunque, grazie ad un impegno quasi apoplettico, siamo arrivati tutti.
Anche chi, evidentemente, non pareva brillare per lucidità.
Durante la brevissima sosta al passo, indispensabile come l'ossigeno per fare riprendere conoscenza a tutti, con il sostegno fattivo del ragazzo della via Glek si tentava di risollevare il morale con qualche battuta, ma era come provare a fare ridere una tomba.
All’improvviso, ma c’era da aspettarselo, come un presagio tre aquile hanno preso a volteggiare sulle nostre teste subito puntate nella loro direzione. Probabilmente i rapaci avevano avvertito la possibilità reale di far brillare al sole le ossa di qualche cadavere a buon mercato, senza fare troppa fatica. Lo stupore ha immediatamente contagiato i sopravvissuti traducendosi istantaneamente nell’ impugnare lo smartphone per immortalare le bestiacce, tra un coro di “OOOH!” e di “AAAH!”. Veniva il sospetto che lo stupore non fosse per le aquile ma per noi umani che, consapevoli di aver perduto da tempo il nostro passato di cacciatori ed esploratori, di tanto in tanto ci rendiamo conto che un tempo siamo stati natura e ora non lo siamo più.
E di questo snaturamento avvertiamo una legittima paura.
Non è un caso che ogni volta che possiamo guardare trepidanti la vita selvatica, la sua feroce innocenza onnivora (la natura non è mica vegana, men che meno un'aquila), ci sentiamo come degli intrusi, come delle ex bestie ormai migrate nella tecnologia. Però con gli occhi lucidi e il cuore che batte tra “OOH!” e "AAH!” quando capita di incontrare un lupo, un camoscio, una marmotta o un'aquila.

Asciugati gli occhi, rinfoderati gli smartphone e accartocciate le carni, il gruppo si è rimesso in direzione della vetta. La presenza di neve sul tracciato, facendoci procedere in equilibrio precario fino alla vetta, ci ha fatto prendere in seria considerazione la possibilità di poter scalare il Cervino con i pattini a rotelle.
Sulla cima, raggrumato attorno alla croce di vetta, uno spettacolo surreale di gente allo sbando al seguito di una guida in perfetto stato di conservazione, rendeva evidente come la differenza tra il ragazzo della via Glek e una moltitudine di occasionali indossatori di capi da montagna sia la stessa che passa tra un pastore e le pecore.
In preda ad un presumibile crollo di zuccheri, nella consapevolezza di essere solo a metà del percorso, c’era chi, piuttosto di continuare, avrebbe optato per essere catturato dai Thugs e tradotto al cospetto della dea Kalì. Qualche altro avrebbe preferito essere sorpreso da Torquemada in persona mentre, con la penna d’oca, stilava un manualetto eretico. Altri ancora ritenevano che piuttosto sarebbe stato meglio compilare la dichiarazione dei redditi senza l’aiuto del commercialista, sapendo di doversi presentare il giorno successivo all’Agenzia delle Entrate.
Tutte situazioni in cui le probabilità di sfangarla venivano considerate di gran lunga maggiori.
Neanche i bond greci erano messi così male.

Nell’ intera storia dell’escursionismo si erano registrati pochi altri casi come questo, tutti custoditi gelosamente dai servizi segreti di mezzo mondo negli archivi dei Misteri Irrisolti (i famosi X-Files).
Dal Gioveretto, la Protezione Civile non inviava notizie migliori. Il gruppo degli “Arditi”, abbandonando le velleitarie ambizioni di raggiungere la cima, era rientrato al rifugio Canziani sfiorandolo appena e proseguendo immediatamente verso il lago di Fontana Bianca dove, dopo avere gozzovigliato come reduci e aver dato sfogo agli istinti più bestiali, hanno crogiolato le ossa al sole sonnecchiando satolli in coma digestivo, in attesa del mezzo pubblico che ne riportasse le trippe al pullman.

Confortati dalla notizia, dalla cima del Glek la discesa di 1700 metri veniva affrontata in un silenzio cimiteriale. Neanche la risalita del Pil avrebbe risollevato gli animi. La successiva, agognata sosta alla malga Stella Alpina ribadiva la totale scomparsa del pane dalla Val d’Ultimo, spingendo la comitiva a confidare nella manna, come gli ebrei durante l’Esodo. Alle ore 18:00, il ragazzo della via Glek, cui deve andare tutta la nostra riconoscenza, riusciva incredibilmente a portare e a termine la transumanza dell’intero branco che, sbiadito come una fotografia appesa da tempo a una parete esposta a un sole troppo forte e circondato da un’aria desolata come un tendone da circo dopo l’ultimo spettacolo, raggiungeva il pullman.
La mesta deriva di gente sfinita e barcollante saliva sul torpedone dividendosi presto tra quelli cui si sigillavano le palpebre all’istante e coloro che transustanziavano nel web in cerca di comprensione.
Mentre più annebbiato del solito cercavo di non cedere al sonno, alcuni rudimentali pensieri si affacciavano nella mia mente. Premesso che anche le più severe tra le religioni hanno qualche difficoltà a selezionare i propri fedeli, viene da chiedersi se da parte della nostra gloriosa associazione, un po’ di profilassi o di prevenzione non possa aiutare a ristabilire un po’ di quell’equilibrio tra quantità mitizzata e qualità trascurata che aiuterebbe ad affrontare meglio le difficoltà dei percorsi e che ormai è diventato una merce più costosa dello zafferano (13.000 euro al chilo. Più di un Rolex).
Provare, come diceva Davide Lajolo, a “vedere l’erba dalla parte delle radici”.
Vamolà!

Bibò
Il ragazzo della via Glek
Val d'Ultimo, settembre 2019