La grotta del Marucol

Un'avventura speleoalpinistica nel cuore dell'altopiano delle Pale

di Eugenio Cipriani


Nelle relazioni delle vie alpinistiche compare di frequente la frase: “si sale in sosta”; oppure: “si monta su un terrazzino dove si sosta”.
A me invece una volta, sull’Altopiano delle Pale, è capitato di rischiare di “precipitare dentro una sosta”.
Non perché avessi sbagliato una corda doppia o perché fossi caduto arrampicando, ma perché la nicchia che avevo identificato quale possibile punto di recupero in realtà nascondeva l’ingresso di un pozzo carsico che dava accesso, come ebbi modo di scoprire poi, ad una complessa grotta sviluppantesi all’interno della parete per circa 300 metri.
Ecco come andarono le cose.

Nel luglio del 1990, durante l’apertura di una via esplorativa con Enrico de Palma, valente scalatore caprinese, sulla breve, facile e solidissima parete occidentale del Marucol - una delle estreme elevazioni settentrionali dell’Altopiano delle Pale di San Martino - al termine di un tiro di corda m’imbattei in una nicchia profondissima che nascondeva un pozzo di un paio di metri.
Un pozzo nel quale sarei caduto se non fossi stato trattenuto dal compagno che mi stava facendo sicura quaranta metri più in basso. Una volta recuperato l’equilibrio ed approntata una sosta, recuperai il compagno ed insieme ci sporgemmo verso il pozzo per capire quanto potesse essere fondo.
Ci rendemmo subito conto che la spaccatura proseguiva all’interno del monte laddove però l’oscurità era totale.
Mi feci assicurare e, con passo incerto, a colpi di flash della macchina fotografica cercai di proseguire.
Dopo pochi metri, però, dovetti fermarmi.
Il terreno, infatti, si stava facendo sempre più ripido, anzi, troppo ripido!
Grazie al bagliore di un altro flash, proprio mentre stavo per caderci dentro, intravidi un vasto e profondo pozzo irto, sul fondo, di appuntite stalagmiti.
Superato lo spavento iniziale realizzai a quel punto che si trattava di una cavità ipogea di tutto rispetto, probabilmente, molto lunga e ramificata.
Fu un’emozione straordinaria: mi pareva quasi di vivere uno dei romanzi di avventure di Verne o di Salgari che tanto mi avevano appassionato e fatto sognare da piccolo.

Mi sentivo, un po’ fanciullescamente, come Otto e Axel Lidenbrock, protagonisti del citato racconto vernianio o come i salgariani “Naviganti della Meloria”, il misterioso canale navigabile sotterraneo costruito dai genovesi per cogliere di sorpresa la Serenissima.
In realtà io ed Enrico non puntavamo né a raggiungere il centro della Terra, che sapevamo essere troppo caldo per i nostri gusti, e nemmeno il lido di Venezia o la costa ligure.
Ci sarebbe bastato, e piaciuto, anche solo addentrarci nel cuore del monte e magari, perché no?, sbucarne dalla parte opposta dopo aver percorso l’intero sperone roccioso del Marucol.
In ogni caso la nostra eccitazione era alle stelle. Perbacco, non succede tutti i giorni di scalare una parete e di scoprirvi una grotta con tanto di stalattiti e stalagmiti!
Però ci rendemmo subito conto che l’esplorazione richiedeva specifiche attrezzature che al momento non avevamo, prima fra tutte la torcia elettrica. Di comune accordo con Enrico decidemmo allora di battere in ritirata: intanto avremmo cercato di finire la via nuova in parete e poi avremmo proseguito l’avventura speleologica il successivo fine settimana, vale a dire sei giorni dopo. In realtà passarono sei anni prima che io tornassi lassù.

Nel 1996, grazie ad una intervista che mi commissionò il quotidiano l’Arena, conobbi casualmente Stefano Meggiorini (detto “Meg”), speleologo veronese al quale, al termine dell’intervista, raccontai la mia scoperta.
Eccitato non meno di me all’idea di effettuare una “prima”, dopo avermi chiesto non meno di una dozzina di volte se avevo accennato a qualche altro speleologo dell’esistenza di quella grotta ed avendo avuto risposta negativa, mi promise di accompagnarmi nell’esplorazione di quella che poi lui ed i suoi compagni avrebbero battezzato “Grotta del Marucol”, nome col quale oggi dovrebbe essere registrata nel catasto delle grotte italiane.
Andammo sull’altopiano in un limpido ma rigidissimo fine settimana di settembre.
Dopo un avvicinamento durante il quale, a testa, gli speleo - con grande stupore mio e di una mia amica trevigiana che si era unita al gruppo - si gettarono di continuo uno dopo l’altro a capofitto in ogni anfratto praticabile dell’Altopiano per vedere se proseguiva nel sottosuolo, finalmente arrivammo alla base della via che avevo aperto sei anni prima. Salii la via attrezzandola con corde fisse per far sì che gli speleo arrivassero facilmente alla grotta con tutto il loro (pesantissimo) armamentario.
Raggiunto l’ingresso del pozzo cedetti loro il comando dell’esplorazione.
Fu la prima volta che mi capitò di osservare degli speleologi in azione e fu anche la prima (ed ultima) volta che io stesso strisciai nelle viscere della terra. Anzi, di una parete rocciosa!
“Meg” e soci s’intrufolarono in ogni anfratto e cunicolo della grotta scoprendo due rami e raggiungendo, al termine di uno di essi, una finestra naturale sul versante nord del monte, finestra che visitai pure io ma alla quale non potei affacciarmi perché troppo stretta. Intuii però che dava sul versante nord ma a quale altezza ed in quale punto non mi fu dato di capire. Tornati a casa, “Meg” e soci catastarono la grotta in questione, della quale realizzarono un dettagliato schizzo sia in pianta che in sezione.

A distanza di altri trenta anni, questa estate sono tornato lassù affascinato, come sempre, dal luogo, uno dei più scomodi ma anche dei più suggestivi della Pale. Mia intenzione era salire la parete nord per identificare la “finestra” che avevo visto solo dall’interno. Purtroppo trovammo la parete in condizioni bagnatissime.
In più punti l’acqua ruscellava lungo le facili e solidissime lastre della parete nord rendendo la salita molto delicata. Io e Rosa, la mia compagna, dovemmo seguire un percorso a zig zag, ma perlustrammo comunque in lungo ed in largo quelle rocce, come testimoniano i numerosi cordini lasciati per assicurarci.
Purtroppo, però, la sospirata finestra rimase un miraggio, una chimera.
Ma c’era da aspettarselo: in ogni racconto d’avventura la meta viene raggiunta solo dopo infinite peripezie e noi, tutto sommato, ne avevamo affrontato fino a quel momento ancora troppo poche.
Non so se e quanto questa grotta sia conosciuta nell’ambiente speleologico.
Di certo so che questa è la prima volta che se ne scrive e non mi dispiacerebbe se queste righe fossero di stimolo per qualcuno a salire lassù, nel cuore dell’altopiano, allo scopo di visitarne le “viscere” oltre che gli straordinari angoli panoramici.

Molto probabilmente io e Rosa torneremo ancora, prima o poi: una, due, dieci volte.
Tutte quelle che occorreranno per trovare la misteriosa “finestra”.
E’ ormai un puntiglio, una questione di onore.
Ma è anche un atto dovuto ai miei sogni d’infanzia.
Un poster di Topolino in versione detective campeggiava sul muro della mia cameretta.
Ne ero molto affezionato perché rispecchiava la mia indole che mescola curiosità e spirito d’avventura.
La scritta, contenuta all’interno del classico “fumetto”, recitava a caratteri cubitali la seguente frase: “non me ne andrò da qui finché non avrò risolto il mistero!”
Posso io, a cinquantasette anni venir meno ad un impegno preso ai tempi delle scuole medie?
Nemmeno per idea, ovviamente.
Quindi, caro Marucol, aspettaci!

Eugenio Cipriani
Verona, agosto 2016