Al Rifugio Maniago, sulle tracce
di Mauro Corona
di Marco Pedretti
Glielo dovevamo, dopo aver letto i suoi racconti e i suoi
romanzi era inevitabile che prima o poi saremmo passati per la Val
Zemola. Dovevamo toccare con mano i boschi, vedere di persona le pareti
aspre e sentire con le nostre orecchie i silenzi assordanti delle
montagne dove vive e lavora Mauro Corona.
In realtà, qualche anno prima, io una capatina l’avevo già fatta al
Rifugio Maniago, ma allora Mauro Corona era solo “el Mat” che mio zio
(ex-sindaco di Longarone) mi diceva vivere e scolpire il legno a Erto.
Non era ancora uno scrittore famoso, ma solo un artista del legno
ubriacone e casinista che quando scendeva a Longarone con i suoi amici
faceva il disastro.
Però dopo aver letto “L’ombra del bastone” e le peripezie di Raggio
Martinelli non potevo non tornare in questi luoghi.
Con Vanni e Lara decidemmo una facile escursione, quasi un
pellegrinaggio, in Val Zemola: da Erto al Rifugio Maniago e poi fin
sotto le pareti della Buscada presso le vecchie cave di marmo dove lui
aveva lavorato da giovane.
In quest’angolo delle Prealpi anche in agosto non c’è quasi nessuno.
Non c’è bisogno di prenotare il Rifugio, un posto lo trovi sempre.
A pensarci bene è incredibile perché queste montagne non sono meno belle
di quelle trentine, eppure qui vengono in pochi. Sarà forse perché qui
mancano gli impianti di risalita che facilitano l’avvicinarsi in quota,
sarà forse una questione di sponsor o di saper vendere il proprio
prodotto, ma questi posti li conoscono in pochi.
Si può girare un giorno intero e incontrare, se ti va bene, solo un paio
di persone.
Vanni lo sa bene perché è riuscito a farsi un paio di orette di
passeggiata su un sentiero, completamente nudo, ed eravamo in Val
Cimolais a pochi chilometri da qui, ma questa è un altra storia.
Quando, dopo una piacevole passeggiata pomeridiana, arrivammo al Rifugio
Maniago c’erano solo due giovani coppie oltre ai gestori. Non
aspettando, per la notte, altri ospiti il gestore ci mise in una
camerata di dieci posti e noi tre ci dividemmo gli spazi equamente.
Qui la vita scorre ancora più lentamente che in altre zone montane.
Il silenzio rallenta anche il battito degli orologi e del cuore.
Il sole si muove lentamente e le ombre lo seguono ancora più lentamente
mentre scende dietro le montagne a Ovest. I suoi raggi di luce, riflessi
verso Est, salgono su per il bosco a passo d’uomo.
Non c’è rumore di civiltà, la valle del Piave è oltre il crinale,
lontana fisicamente solo pochi chilometri, ma lontanissima nel tempo.
Secoli ci dividono in pochi chilometri, qui nulla è cambiato da quando
comandava la Serenissima e veniva a far legna per la sua flotta.
Se non fosse per quella enorme "W" sul monte Toc tutto sarebbe ancora
integro.
Era ancora presto per la cena ed allora ci avviammo verso la forcella
della Spalla ancora più in su e ancora più dentro la Montagna. Ci
sedemmo tutti e tre su di un sasso al sole a guardare verso valle,
ognuno perso nei propri pensieri. Chi non è abituato al silenzio si può
anche spaventare, ed allora è chiaro perché qui ci viene poca gente: la
maggioranza ha paura. Paura dell’ignoto che è fuori e che nel silenzio
può salire anche da dentro.
Ci credo che nel deserto, se ti va bene, puoi parlare anche con Dio: là
non c’è nessun altro, quasi come qui in queste montagne.
Tornammo al rifugio e mangiammo con calma quasi fossimo ad una cena con
amici.
Scambiammo quattro chiacchiere con i vicini di tavolo e poi uscimmo a
guardare le stelle.
Alcuni ragazzi indigeni ci fecero notare il passaggio metodico e preciso
dei satelliti militari, quelli che servono la base NATO di Aviano. Era
l’unico segno di civiltà. Non si vedevano altre luci per chilometri e
chilometri.
Andammo a letto e dopo un po’ era già mattina, avevamo dormito di sasso.
Dopo la colazione ci sedemmo davanti al rifugio a guardare il sole che
faceva capolino dal crinale Est.
Arrivarono alcune persone dal fondovalle, “per essere qui a quest’ora
saranno partiti all’alba” pensai.
Il gestore gli andò incontro e si abbracciarono; sicuramente erano amici
di vecchia data.
Intanto la Lara si era avvicinata ad una statua di legno abbozzata che
c’era in un angolo davanti al rifugio.
“Sono come quelle che fa la Flavia.- disse rivolta a Vanni -
Dai fagli una foto.”
“Gliele ho già fatte ieri pomeriggio quando siamo arrivati.”
- rispose Vanni.
Intanto la stessa scultura aveva attirato l’attenzione del nuovo venuto.
Si avvicinò e rivolto al gestore chiese: “Ma elo un mas-cio o 'na
fèmena?”
In effetti, non si capiva bene che cosa rappresentava era ancora
abbozzata, aveva solo il busto e le gambe definite, ma il resto era
ancora da realizzare.
“Adesso te lo fago vedare mi.” - rispose il gestore e con
prontezza prese da una catasta di legna un pezzo ben tornito lungo circa
30 centimetri e con un colpo di mazzuolo ben assestato glielo piantò tra
le gambe con la punta rivolta in su.
“Cosa te pare adesso: mas-cio o fèmena?”
“E’ mas-cio, è mas-cio.” - dissero in coro i nuovi arrivati
ridendo di gusto.
Anche a noi scappò da ridere e allora Vanni prese la macchina
fotografica e immortalò la scultura nella sua nuova versione priapesca.
“Vedi Lara - dissi - laggiù c’è Erto e Casso e quassù c’è
casso erto.”
“Che imbecille che sei.” - mi apostrofò.
Salutammo tutti i presenti e partimmo per il trekking, direzione Buscada.
Rimanemmo in quota passando sotto la Spalla del Duranno, sfiorammo la
cima del Monte Zita nei pressi della casera bivacco Bedin de Seura e poi
nei pressi della Palazza, sulla strada che andava alla cava di marmo,
attraversammo la montagna dentro una galleria che ci portò direttamente
al vecchio insediamento dei cavatori.
Qui la Lara decise di fermarsi a prendere il sole su di un blocco di
marmo abbandonato, mentre io e Vanni salimmo verso la Buscada per
affacciarci verso la valle del Piave.
Le marmotte sui prati della Buscada fischiavano allarmate dalla nostra
presenza, ce n’erano tante di marmotte, si vede che qui vivono
indisturbate ora che la cava è dismessa e senza tanti predatori.
Arrivati alla cresta ci affacciammo sulla parete Nord del Monte Borgà
che precipita verticalmente per 2000 metri sulla valle del Piave. Il
fiume laggiù sembra un rigagnolo celeste.
“Ti credo che qui c’erano le streghe, - dissi a Vanni pensando al
romanzo L’ombra del bastone - guarda che posto!”
“Lassù c’è l’antro della strega Melissa, vuoi che andiamo a vedere?”
- chiesi.
“E' meglio di no, ti ricordi quanto sono pericolose le sue
maledizioni - rispose Vanni - tutto è così spettrale, la cava
abbandonata, le montagne silenziose i sentieri invasi dai rovi, che
posti incredibili, proprio come nel romanzo.”
Tornando a valle decidemmo di fermarci ad Erto per mangiare un gelato.
Girando per il paese semideserto incrociammo due anziane con sulle
spalle due gerle stracolme di fieno.
Era una immagine d’altri tempi, come un ricordo riemerso dalla mia
infanzia delle prime vacanze in montagna a Calalzo di Cadore o a Ponte
di Legno, ma da allora sono passati più di quarant'anni.
"Come è possibile - mi chiesi - che qui trasportino ancora il
fieno in questo modo?"
Invece si, tutto è ancora possibile dove il tempo si è fermato.
PS
L’anno successivo, durante una gita in bicicletta nella pianura Friulana
tra le sorgenti dello Stella e Codroipo, entrammo nell’osteria di Camino
al Tagliamento alla ricerca del Bastone di Raggio.
Varcata la porta d’ingresso guardai l’ostessa e chiesi semplicemente: “Dov’è?”
Lei con un gesto del capo e con il sorriso sulle labbra mi indicò
l’altra sala.
Entrai e sopra l’architrave del varco che conduceva ad una sala con il
camino c’era, dentro una teca protetta da un vetro, il Bastone di
Raggio.
E’ incredibile in quell’istante il romanzo era diventato realtà.
Fu un’emozione quasi come avessi incontrato di persona Sandokan o
Biancaneve e i Sette Nani.
Il bastone di Raggio era lì tutto intagliato con in suo nome inciso per
intero.
Per chi ha letto il romanzo merita assolutamente una visita.
E’ incredibile, come toccare con mano un oggetto mitico.
L’occasione meritava un brindisi e l’ostessa servì prontamente un bianco
della zona.
Bevemmo di gusto alla salute di Raggio Martinelli e di Mauro Corona e
del potere della fantasia.
Marco Pedretti
Ferrara, estate 2010